Da Django Unchained a Blue Jasmine, tutto il cinema del 2013

Si chiude, con queste feste natalizie, un 2013 in cui Hollywood è stata di nuovo protagonista, confermandosi "termometro" della società americana. Proviamo dunque a fare una ricognizione sull'annata appena conclusasi, con un occhio anche all'Europa e alle realtà cinematografiche "altre", nei ristretti spazi che i circuiti distributivi lasciano loro.

Siamo arrivati, infine, anche alla conclusione di questo 2013 di celluloide. Tempo, inevitabile, di bilanci: bilanci come sempre parziali, forse anche un po' forzati (come sappiamo, nella testa di molti spettatori, come dei distributori, l'annata inizia in realtà a settembre per chiudersi a luglio) ma non per questo impossibili: tracciare delle linee di tendenza, pur in una stagione complessa e dalle molte sfaccettature come questa, è operazione dovuta. Operazione che non può che partire, ancora una volta, dalla Mecca del Cinema: quella Hollywood che, ancora una volta, ha rispecchiato sé stessa, la sua magniloquenza come le sue inquietudini, in una Notte delle Stelle dai tratti più che mai peculiari. Basta, infatti, dare una scorsa alle nomination più importanti (nonché ai vincitori) degli ultimi Academy Awards, per capire come questo sia un periodo del tutto speciale per l'industria del cinema statunitense. Un periodo in cui questa registra (come sempre ha fatto nella sua storia) le inquietudini di una società in trasformazione, conscia del suo passato recente ma ancora incerta sulla direzione da prendere: una nazione che ha eletto per la seconda volta un presidente di colore, democratico, che tuttavia è stato colui che ha condotto in porto l'assassinio del "nemico pubblico" per eccellenza (raccontato in Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow), che non è riuscito a far calare il sipario sulla vergogna del carcere di Guantanamo, che non ha saputo tirar fuori il suo paese dal pantano afghano, e che ha faticato enormemente per far approvare una riforma sanitaria (indice minimo di civiltà di una nazione) infine caratterizzatasi per i suoi compromessi al ribasso.

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Una notte che si fa specchio di una società
Difficile che il cinema resti insensibile a tutto ciò, ed è difficile che il luogo principale della sua celebrazione (la Notte degli Oscar, appunto) non ne registri in qualche modo le inquietudini: la vittoria di Argo di Ben Affleck, rigore stilistico da New Hollywood e perfetta ricostruzione storico/sociale di un evento poco noto ai più, si accompagna alle nomination per il già citato Zero Dark Thirty, per Lincoln di Steven Spielberg, per Django Unchained di Quentin Tarantino, persino per il sorprendente Re della terra selvaggia, dell'esordiente Benh Zeitlin. Tutte pellicole che, nelle loro enormi differenze di forma e contenuti, muovono dal passato recente a quello più remoto della nazione americana, affondando il coltello nelle sue contraddizioni, nei nodi problematici che l'hanno segnata fin dalla sua nascita. La presenza del più classicamente hollywoodiano Il lato positivo - Silver Linings Playbook di David O. Russell, e del magniloquente Les Miserables (diretto dal più americano dei registi inglesi, ovvero Tom Hooper) non possono cambiare le considerazioni su un evento che, in questa edizione, è stato perfetto termometro sociale per inquietudini, speranze e contraddizioni di un'intera nazione, riflesse nella Settima Arte. Non è neanche un caso, probabilmente, la conquista della statuetta per il miglior film straniero da parte di Amour di Michael Haneke (già trionfatore a Cannes nel 2012): un dramma privato, che tuttavia riflette una dialettica tra amore, presenza/assenza e fine dei sogni, che può trovare una risonanza particolare in un periodo come quello che sta attraversando, attualmente, il popolo americano.

Oscar 2013: Argo, tutto come da copione Recensione di Zero Dark Thirty Recensione di Argo Recensione di Django Unchained Recensione di Re della terra selvaggia

Tra voli, corse e nevrosi urbane
Restando in territorio hollywoodiano, non si possono non menzionare, tra le uscite di punta di questo 2013, alcuni importanti "ritorni"; opere di registi che, col loro cinema, hanno segnato a fondo i decenni passati, ma che sembrano, tuttora, ben lungi dall'aver esaurito le storie da raccontare: meno ancora, la voglia e la capacità di raccontarle. Parliamo innanzitutto di un Robert Zemeckis che, terminata la "vacanza" che si era concesso nel cinema di animazione, ha raccontato con Flight una storia "morale" (e più che mai americana) che si segnala anche per una delle più belle, e tese, sequenze ambientate su un aereo che la storia del cinema ricordi; ma anche di Ron Howard e del suo Rush, opera che dimostra come l'ex-Richie di Happy Days, quando non cede alle sirene dei finti (e remunerativi) pamphlet complottistico/religiosi, sia tuttora un ottimo artigiano del cinema di serie A, in grado di coniugare perfettamente rigore narrativo e utilizzo ottimale dei mezzi del cinema moderno. Ma tra i "ritorni" (anche se in un altro senso) va citato anche quello, graditissimo, di Woody Allen; che dopo il fallimento (particolarmente evidente) del precedente To Rome with Love, ha diretto con Blue Jasmine un dramma che riporta il suo cinema a quello dei tempi migliori, quando il suo occhio sapeva delineare personaggi che, nelle loro nevrosi e nei loro lati caricaturali, esprimevano perfettamente lo spaesamento e il senso di vuoto di certa borghesia americana. Fa piacere notare il legame diretto del film interpretato da Cate Blanchett con quegli anni, nonché l'arguto ritratto della stessa protagonista, personaggio senz'altro tra i più riusciti del cinema alleniano recente. Restando nel territorio di atmosfere intime, declinate tuttavia in un senso decisamente più malinconico, va ricordato altresì il toccante Before Midnight, opera con la quale Richard Linklater chiude una trilogia (iniziata coi precedenti Prima dell'alba e Prima del tramonto) che ha seguito i suoi protagonisti Ethan Hawke e Julie Delpy attraverso tre città e un ventennio di storia, di cinema e di vita.

Recensione di Rush Recensione di Blue Jasmine Recensione di Before Midnight New Hollywood, "cattivi maestri" e crimini alla moda

Tra i "vecchi" autori hollywoodiani che hanno saputo lasciare un segno su quest'annata, vanno ricordati anche due protagonisti della New Hollywood come Terrence Malick e Paul Schrader: con due opere (To The Wonder e The Canyons) accomunate dall'accoglienza tutt'altro che trionfale ricevuta, in particolare dalla stampa, nelle ultime due edizioni della Mostra del Cinema di Venezia (su cui torneremo). Opere diverse, quelle di Malick e Schrader, anche qualitativamente non accostabili; che tuttavia avrebbero meritato entrambe, probabilmente, un occhio più attento e meno superficiale, specie da parte della platea di quello che è il festival cinematografico più antico del mondo. E, restando ai film che dal Lido (nell'edizione 2012) sono approdati in sala, non si può non citare anche l'ultima opera di Paul Thomas Anderson, quel The Master che ha raccontato mirabilmente (e con due perfetti protagonisti) una storia di fede e dipendenza psicologica. Se, tra gli autori hollywoodiani più recenti, Anderson ha dunque convinto e ricevuto consensi, altrettanto non si può dire di Sofia Coppola, il cui Bling Ring ha lasciato perplessa tanto la platea di giornalisti presenti al Festival di Cannes (dove il film ha partecipato alla sezione Un certain regard) quanto pubblico e critica nostrani. La regista, nel raccontare una (vera) storia di criminalità adolescenziale ambientata nella sfavillante Los Angeles, sembra perdere di vista i suoi personaggi e la narrazione in senso stretto, limitandosi a una vuota estetica semi-documentarista. Un risultato decisamente migliore, invece, lo ha raggiunto la nuova opera di Derek Cianfrance, Come un tuono, dramma poliziesco impreziosito da un Ryan Gosling che sembra vivere, più che mai, un momento d'oro della sua carriera. Proprio dell'accoppiata Cianfrance/Gosling, la distribuzione italiana ha pensato di recuperare (tardivamente) anche il precedente Blue Valentine, datato 2010 e finora tenuto inspiegabilmente nel cassetto.

Recensione di Bling Ring Recensione di Come un tuono

Serial blockbuster
Hollywood resta comunque, principalmente, patria del mainstream e dei "generi", delle saghe e di una serialità che ormai ci trova, ogni anno, a riflettere sull'attitudine alla reiterazione di storie, temi e personaggi. Così, Peter Jackson si prepara a sbancare di nuovo i botteghini natalizi col suo Lo Hobbit: la desolazione di Smaug, secondo installment di una saga che ha voluto dilatare oltre il lecito (e oltre i limiti di qualsiasi equilibrio cinematografico, probabilmente) un romanzo, pur importante, di nemmeno 300 pagine; mentre gli adolescenti senza macchia né paura Jennifer Lawrence e Josh Hutcherson tornano a infiammare animi e fantasie (di tutti i tipi) del loro pubblico in Hunger Games: la ragazza di fuoco, già accolto da una trionfale presentazione nel corso del recente Festival del Film di Roma. Anche nella serialità, comunque, si può nascondere la mano di veri autori, specie di coloro che la stessa serialità l'hanno sperimentata sul piccolo schermo: è il caso di J.J. Abrams, che col suo Into Darkness - Star Trek conferma gli ottimi risultati raggiunti col reboot del 2009, raggiungendo un invidiabile equilibrio tra racconto e spettacolarità, e facendo inoltre le prove generali per l'attesa (e temuta) nuova trilogia di Star Wars. Persino una saga considerata "di serie b", animata da un protagonista statuario come Vin Diesel, strappa consensi col carpenteriano Riddick: sci-fi tesa, muscolare e sanamente (ma anche autoironicamente) "coatta". Lo stesso Vin Diesel è anche tornato nella serie che lo rese noto ormai più di un decennio orsono, ma che è stata recentemente scossa dalla tragica scomparsa del co-protagonista Paul Walker: Fast and Furious 6, comunque, non ha deluso i fan, malgrado l'inevitabile, sottile disagio che si prova ora nel riguardarlo. Deludono invece, complessivamente, sia la conclusione della trilogia dell'hangover di Todd Phillips (Una notte da leoni 3, titolo ormai sostanzialmente fuorviante) sia l'atteso, e fallimentare, ritorno della parodia horror per eccellenza, in uno Scary Movie 5 che avrebbe fatto meglio a restare un semplice auspicio.

Recensione di Lo Hobbit: la desolazione di Smaug Roma 2013: Jennifer Lawrence, la ragazza di fuoco che odia le diete Recensione Into Darkness - Star Trek [Addio a Paul Walker] ( Addio a Paul Walker )

Il ruggito dei vecchi leoni
Ma la Hollywood del 2013 è contrassegnata anche dalla rinnovata presenza di immarcescibili, "vecchi" eroi che non solo non vogliono saperne, superata ormai la soglia dei 60 anni, di abbandonare le scene, ma che intendono ribadire con forza la loro vitalità di icone del cinema muscolare: l'ex Rambo Sylvester Stallone e il non più Governatore californiano Arnold Schwarzenegger, già tornati separatamente sugli schermi con gli ottimi Jimmy Bobo - Bullet to the Head e The Last Stand - L'ultima sfida, realizzano il loro atteso incontro "alla pari" (differentemente da quanto era accaduto ne I mercenari - The Expendables) nel divertente carcerario futuristico Escape Plan - Fuga dall'inferno, diretto dal regista di origini svedesi Mikael Håfström. Anche Bruce Willis, altra icona sopravvissuta al tempo, continua a calcare quei territori con una certa costanza, con un occhio rivolto al passato (Die Hard - Un buon giorno per morire) e uno a un presente decisamente più venato di ironia (Red 2). Parlando di operazioni nostalgiche, o comunque tese a rielaborare un passato entrato ormai nella memoria cinefila, non si può non citare Robert Rodriguez e il suo Machete Kills: se il secondo episodio (altri due ne sono attesi) della saga interpretata da Danny Trejo paga qualcosa in termini di novità e freschezza della formula, il divertimento, per i fans dell'exploitation portata in serie A, certamente non manca. Restando in tali territori, vale la pena citare anche il più convenzionale, ma comunque godibile, L'uomo con i pugni di ferro: un esordio alla regia in cui il rapper RZA omaggia i kung fu movie anni '70 e la loro estetica.

Recensione di Escape Plan - Fuga dall'inferno Recensione di Red 2 Recensione di Machete Kills

Robottoni e avventure di (e tra le) stelle
Ma ci sono anche casi in cui l'action movie, pur mantenendo ferme le sue caratteristiche di fisicità, si sposta di ambientazione e assume i connotati della science fiction: è il caso di Pacific Rim, omaggio di Guillermo Del Toro ai kaiju eiga giapponesi, nonché alle serie animate robotiche con cui tutti siamo cresciuti, probabilissimo inizio di una nuova (e remunerativa) saga. Fantascienza decisamente più sui generis, e meno classificabile in uno schema preciso, è quella di Cloud Atlas, affascinante viaggio tra continenti ed epoche confezionato da Tom Tykwer e dai sempre validi fratelli Wachowski; mentre, altrove, l'ormai (ingiustamente) poco considerato M. Night Shyamalan offre importanti segni di ripresa in After Earth, pur condizionato da un progetto pensato e definito dalla famiglia di Will (e Jaden) Smith. Gli appassionati di science fiction letteraria avranno invece trovato qualche motivo di interesse (ma anche di delusione) in Ender's Game, attesa trasposizione di un classico degli anni '80; di fatto, e nonostante le presenze carismatiche di Harrison Ford e Ben Kingsley, il film si candida a diventare solo il prototipo di un'altra saga young adult, con la riflessione sui temi che erano al centro del romanzo (la guerra, la tolleranza, la liceità di usare i bambini soldato) ridotta a semplice pretesto. Da bocciare in toto, invece (e ci dispiace dirlo, considerate le qualità del regista) il The Host di Andrew Niccol: trasportando sullo schermo il romanzo di Stephenie Meyer, il regista non fa che offrire una melensa e annacquata variante sul tema de L'invasione degli ultracorpi. Decisamente meglio, con due soli attori (pur coi nomi di Sandra Bullock e George Clooney) e le sconfinate distese del cosmo come setting, è riuscito a fare Alfonso Cuaròn: il suo Gravity ha convinto dapprima la platea della Mostra del Cinema di Venezia (che lo ha avuto come film d'apertura) e in seguito il pubblico che, un mese dopo, ha potuto apprezzarlo in sala.

Recensione di Pacific Rim Recensione di Cloud Atlas Recensione di Gravity

Fiabe dark e orrori riciclati
Dalla fantascienza al fantasy (e a tutti i generi ad esso collegati) non si può non citare il ritorno di due numi tutelari del cinema di genere americano, ovvero Tim Burton e Sam Raimi: il primo, dopo una notevole serie di delusioni, sembra essere riuscito a risollevarsi (almeno in parte) col suo Frankenweenie, riuscito remake di un cortometraggio del 1984: se poi Burton, in evidente crisi di idee, riuscirà a raggiungere gli stessi risultati anche senza appoggiarsi a soggetti concepiti nel passato, sarà evidentemente elemento tutto da verificare. Raimi invece, col suo notevole Il grande e potente Oz, riesce dove lo stesso Burton aveva fallito nel suo Alice in Wonderland (evidente l'analogia tra le due storie, altrettanto evidente la diversa riuscita dei film): offrendo una rilettura della storia classica, in cui la confezione disneyana non ostacola un approccio personale alla messa in scena, un uso consapevole delle potenzialità della vicenda, che permette anche una non banale riflessione sul cinema come inganno ed erede della "magia" illusionistica che fu.
Poco da segnalare, invece, in quel genere (l'horror) che allo stesso Raimi diede la fortuna, in quel decennio ormai lontanissimo che fu quello degli anni '80: lo stesso, atteso remake del suo cult per eccellenza (La casa) non si discosta da un'onesta, e dignitosa, operazione di riscrittura e riadattamento di un soggetto old style a un contesto moderno. Una delle operazioni più interessanti, nel genere, viene invece da un Rob Zombie ormai liberatosi dai lacci di filoni codificati nel passato (lo slasher di Halloween: The Beginning, lo splatter post-Non aprite quella porta de La casa dei 1000 corpi, con relativi sequel) e che con Le streghe di Salem offre un prodotto nuovo, fresco e realmente inquietante; capace di trasportare un archetipo come quello della stregoneria in un contesto moderno, facendone elemento perfettamente integrato nelle inquietudini contemporanee. Un'operazione, quella di Zombie, colpevolmente non compresa da tutti, ma che (siamo pronti a scommetterlo) sarà destinata a crescere, a livello di considerazione, nel prossimo futuro. Se un autore contemporaneo come James Wan (già iniziatore della saga di Saw - L'enigmista) ha lasciato la sua firma su questo 2013 addirittura con due nuove pellicole (la ghost story L'Evocazione - The Conjuring, e il sequel Oltre i confini del male - Insidious 2) il film forse più interessante della stagione, nel panorama del genere, si rivela essere risalente a due anni fa: parliamo di You're Next, thriller/horror sui generis in cui il regista Adam Wingard supera i ristretti steccati dello slasher, offre ad esso un'ambientazione insolita (quella familiare) e lo colora di un approccio sociologico che va lodato per la sua originalità. Il fatto che tale opera risalga al 2011 è certo esemplificativo della miopia, in questo settore, della distribuzione italiana.

Recensione di Frankenweenie Recensione de Il grande e potente Oz Recensione di You're Next

Eroi di carta, cartoni che non animano
Decisamente in ribasso sembra essere, invece, il filone dei comic movies, che ha avuto il suo titolo di punta (e la sua principale delusione) nella nuova incarnazione cinematografica de L'uomo d'acciaio diretta da Zack Snyder. Quello di Superman, nella sua estrema semplicità, si conferma come il supereroe più difficile da portare al cinema, almeno senza cadere nella banalità: forse, in questo caso, i limiti del soggetto provocano inevitabili limiti nella resa del personaggio sullo schermo, superabili solo con un suo (ipotetico e mai realizzato) "snaturamento". La Marvel, da par suo, ha risposto con due "pezzi da novanta" come Iron Man 3 e Thor: The Dark World: nuovi, fortunati installment di saghe giovani ma ben avviate, che nel caso del film di Alan Taylor riescono addirittura ad innalzare, qualitativamente, il livello dei predecessori.
L'altro filone su cui il cinema hollywoodiano, negli ultimi anni, ha puntato le sue carte nei periodi chiave della stagione (e quello attuale, natalizio, è uno di questi) è quello dell'animazione: anche in questo caso, va detto che i risultati artistici (quelli commerciali continuano, per ora a tenere) si sono rivelati inferiori alle aspettative: titoli come Epic - Il mondo segreto, Turbo e il pixariano Planes, mostrano una evidente stanchezza, l'usura di formule e idee che ormai da oltre un decennio stanno caratterizzando il genere, unite a un uso del 3D che sembra sempre più "pegno da pagare" obbligato a pubblico e produttori, piuttosto che risultato di una reale esigenza estetica. Al di fuori del buon risultato ottenuto dai sequel di vecchie opere (parliamo di Cattivissimo me 2, ad esempio, ma soprattutto dell'atteso Monsters University), solo titoli un po' atipici come I Croods (prodotto dalla Dreamworks) paiono mostrare qualche idea nuova anche a livello di soggetto, unita a una realizzazione tecnica (ma questo dovrebbe essere scontato) di alto livello. Un filone, questo, che sembra bisognoso di un ripensamento e di una registrazione di idee e modalità realizzative, ma che per ora (e questo è ciò che per l'industria conta) sembra reggere abbastanza bene a livello di incassi.

Recensione de L'uomo d'acciaio Recensione di Thor: The Dark World Recensione di Monsters University

Dalla Croisette: torbidi, passionali e stilizzati
Dagli Stati Uniti all'Europa, appare difficile, anche quest'anno, non partire da alcuni titoli che sono stati protagonisti, più o meno meritevoli, dell'annuale edizione del Festival di Cannes: il primo di questi è senza dubbio Solo Dio perdona, nuova prova registica di uno dei principali autori (a tutto tondo) del cinema europeo contemporaneo: Nicolas Winding Refn. Controverso, meno apprezzato del precedente Drive, ma comunque pieno di suggestioni filmiche e non, il film di Refn ha il suo punto di forza in un'estetica traslucida e visivamente elegantissima, in una struttura di genere (quella del noir d'azione) che viene completamente rovesciata nelle sue premesse, e in un protagonista, il già citato Ryan Gosling, anche qui in stato di grazia. Ma è necessario citare anche, tra le pellicole provenienti dalla Croisette, una fondamentale opera come La vita di Adele, già insignita della Palma d'Oro: film tratto da una graphic novel (a conferma dei confini ormai sempre più sottili tra generi e linguaggi) che racconta senza retorica e facili scorciatoie una love story tra due donne, sviluppata nell'arco di un lungo periodo di tempo. Tema apparentemente analogo, ma approccio completamente diverso, quello de Lo sconosciuto del lago, thriller a tematica omosessuale che ha scosso gli spettatori della manifestazione cannense: trama semplice e apparente volontà provocatoria, sguardo cinico su alcuni aspetti della vita gay e nessun timore di apparire politicamente scorretto. Da Cannes viene anche l'ultima opera di un maestro come Roman Polanski, Venere in pelliccia: dopo il precedente Carnage, il regista rende ancora più essenziale la sua messa in scena, si affida ai soli Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric per costruire un film che riflette sul cinema, il teatro e la contaminazione dei due linguaggi, l'arte della recitazione e i suoi confini (sempre più sfumati) con la vita di tutti i giorni. Ha convinto solo in parte, invece, restando sulla Croisette, l'ultimo lavoro di Baz Luhrmann, quarta rilettura di un'opera immortale come Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald: nonostante l'abilità dei protagonisti Leonardo DiCaprio, Tobey Maguire e Carey Mulligan, l'estro visivo di Luhrmann sembra sacrificato, ma soprattutto le sue invenzioni appaiono scarsamente integrate in una vicenda dal taglio classico, forse poco nelle sue corde. Vale infine la pena citare, tra i film visti a Cannes e infine approdati in sala, anche l'ultima opera di François Ozon, Giovane e bella: ritratto interessante, a suo modo delicato e non retorico, di un'adolescente che sceglie di prostituirsi, restituita in tutta la sua complessità umana. Dello stesso Ozon avevamo già avuto modo di vedere, qualche mese prima, il dramma Nella casa, arguta e cinica storia di dipendenza psicologica che scava, con toni sempre più da thriller, nelle pulsioni nascoste di certa borghesia.

Nicolas Winding Refn presenta a Roma Solo Dio perdona Recensione La vita di Adele Roman Polanski: 80 anni da cinema

Guerre dimenticate, gioielli ritrovati
La distribuzione italiana, comunque, ha mandato (tardivamente) in sala anche alcune delle opere che furono protagoniste dell'edizione 2012 del festival francese: tra queste, siamo stati particolarmente felici di (ri)vedere Holy Motors di Leos Carax, dramma fuori dagli schemi, venato di science fiction, ironia e voglia di destabilizzare lo spettatore; opera di un regista che alla prolificità (solo otto i suoi film, in oltre 30 anni di carriera) ha sempre preferito la ricerca di storie meritevoli di essere raccontate. Vale la pena citare, tra le pellicole europee giunte in sala dalla Croisette con un anno di ritardo, anche Anime nella nebbia di Sergei Loznitsa, intenso e rigoroso dramma storico/bellico, che riflette sugli effetti devastanti di un conflitto sugli affetti personali; temi, questi, toccati anche da Buon anno Sarajevo di Aida Begic, storia familiare che punta l'obiettivo su una guerra (e soprattutto sui suoi effetti a lungo termine) cronologicamente a noi ben più vicina. Lo stesso motivo di fondo, declinato in un contesto diverso e in un altro tipo di "guerra" (la Guerra Fredda tra Est e Ovest) è al centro di La scelta di Barbara, opera in cui il regista Christian Petzold sposta indietro le lancette della storia, quanto basta a mostrare la difficoltà di vivere, ed amare, in un mondo diviso in blocchi contrapposti. Spostando il nostro sguardo sulla penisola iberica, e sul suo cineasta più rappresentativo, ha invece sostanzialmente deluso Gli amanti passeggeri di Pedro Almodovar; film che ha mostrato, nel cinema del regista, un inizio di tendenza alla "maniera" e alla reiterazione di temi, motivi e personaggi, sempre meno ancorati a reali esigenze narrative. Dalla Spagna alla Francia, non delude invece l'opera di un altro maestro come Olivier Assayas, che in Qualcosa nell'aria racconta con sguardo intenso e partecipe (ma mai venato di gratuita nostalgia) il "suo" Sessantotto. Restando al cinema transalpino, va almeno citato Quando meno te lo aspetti, commedia in cui Agnès Jaoui trasporta, con arguzia, alcuni archetipi delle fiabe in un contesto contemporaneo; mentre, restando solo geograficamente nella capitale francese, un cenno lo merita anche A Lady in Paris, dramma in cui il regista estone Ilmar Raag racconta l'amicizia di due donne (la più anziana delle quali ha il volto della grande Jeanne Moreau) sullo sfondo di una città che si fa luogo della memoria.

Recensione di Holy Motors Recensione di A Lady in Paris Olivier Assayas e il post '68 di Qualcosa nell'aria

Sguardi di casa nostra, cinici e penetranti
Venendo al Bel Paese, e alla sua produzione nell'annata che si sta per concludere, non si può non iniziare da quel Paolo Sorrentino che da anni (insieme a pochi altri autori) dà lustro al nostro cinema all'estero: La grande bellezza ha già conquistato Cannes (pur senza ottenere premi) e ha convinto pubblico e critica nostrani. Un po' Federico Fellini, un po' Luis Buñuel, ma soprattutto molto contemporaneo nel suo sguardo cinico e tagliente su una classe intellettuale che ha fallito tutti i suoi obiettivi, il film di Sorrentino rappresenta senz'altro un titolo chiave della stagione; ennesima conferma per un autore che ora potrebbe finalmente avere la (definitiva) consacrazione internazionale. Anche alcuni dei nostri registi della "vecchia" (ma non troppo) guardia, hanno comunque lasciato la loro firma su questo 2013, con opere discusse ma degne di nota: parliamo di Gabriele Salvatores col suo Educazione siberiana, imperfetta ma affascinante trasposizione dell'epica criminale e di formazione di Nicolai Lilin; e di Giuseppe Tornatore, che con La migliore offerta delinea una sorta di thriller dei sentimenti, caratterizzato dall'insolita ambientazione nel mondo delle aste d'antiquariato, e dalla notevole prova, nel ruolo principale, del grande Geoffrey Rush. Per il resto, il nostro cinema d'autore oscilla, come spesso è accaduto negli ultimi anni, principalmente tra i temi della politica (Viva la libertà di Roberto Andò) e quelli sociali (il documentario Anija - La nave di Roland Sejko, ma soprattutto il bel dramma di Daniele Segre La prima neve, che affronta da un'ottica più globale del solito il tema dell'immigrazione). Se è vero che alcune delle proposte più interessanti della stagione vengono dal panorama indipendente (e tra queste va citato, il divertente Zoran, il mio nipote scemo di Matteo Oleotto, con un irresistibile Giuseppe Battiston), è anche vero che non si può prescindere, per un ragionamento sul 2013 tricolore, dai due vincitori dei festival di Venezia e Roma: parliamo rispettivamente di Sacro GRA di Gianfranco Rosi e di Tir di Alberto Fasulo (quest'ultimo ancora in attesa di distribuzione). Opere sicuramente penetranti nel loro sguardo sulla realtà sociale contemporanea, la cui affermazione mostra una nuova considerazione per un genere come il documentario (anche se nel caso del film di Fasulo, è più corretto parlare di docufiction) e per la sua attitudine a narrare realtà specifiche, spesso invisibili, del nostro complesso tessuto sociale.

Recensione de La grande bellezza Recensione di Zoran, il mio nipote scemo Giuseppe Tornatore presenta La migliore offerta Gabriele Salvatores presenta a Roma Educazione Siberiana

Generi che (r)esistono
Non ci sono comunque, ovviamente, solo film d'autore, nel ricco (almeno numericamente) panorama della nostra produzione di quest'annata: anche un genere come il noir ha trovato nuova cittadinanza in una cinematografia che lo aveva relegato, negli ultimi decenni, un po' ai margini. Esempio ne è il nuovo lavoro di Marco Risi, Cha Cha Cha, che traspone nel nostro cinema attuale un'estetica, e delle modalità narrative, tipiche di certo cinema statunitense degli anni '40, aggiungendovi un afflato "civile" e di denuncia non sempre integratissimo nella struttura filmica; ma soprattutto il sorprendente esordio di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, Salvo, che malgrado l'affermazione a Cannes nella Semaine de la critique, ha lungamente rischiato di non trovare un distributore. Il film di Gradassonia e Piazza, asciutto e rigorosissimo, utilizza il noir anche per offrire (o meglio suggerire) uno spaccato su una realtà complessa, e altrettanto difficile da rappresentare, come quella del sud; a raccontarla hanno provato anche, in modi diversi (ma con in comune lo sguardo di un protagonista giovanissimo) gli esordienti Fabio Mollo e Pierfrancesco Diliberto, in due pellicole interessanti e problematiche come Il sud è niente e La mafia uccide solo d'estate.
Ma il "genere" per antonomasia, in Italia, che piaccia o no è quello della commedia: così, al di là dei fenomeni sbanca-botteghini come il Sole a catinelle di Checco Zalone, l'immancabile Neri Parenti coi suoi Colpi di Fortuna, il Leonardo Pieraccioni pre-natalizio di Un fantastico via vai e il Federico Moccia post-adolescenziale di Universitari - Molto più che amici, resta qualche titolo degno di menzione, in grado di offrire suggestioni interessanti in un genere un tempo fondante per il nostro cinema. Tra questi, si possono citare il Rolando Ravello di Tutti contro tutti, che narra con acume e disincanto una credibilissima "guerra tra poveri"; il grottesco Benvenuto Presidente!, satira sociale piuttosto convenzionale, ma impreziosita da un sempre efficace Claudio Bisio; e il più complesso Una piccola impresa meridionale, in cui Rocco Papaleo, pur non replicando i risultati del precedente Basilicata Coast to Coast, prova a offrire uno spaccato di umanità variegata attraverso una galleria di personaggi emblematici, posti in un luogo isolato come un faro dismesso. Un risultato che, nelle sue ambizioni irrisolte, conferma comunque il talento dell'attore/regista lucano, oltre alla sua innegabile, straripante simpatia.

Recensione di Salvo Recensione di La mafia uccide solo d'estate Rocco Papaleo presenta la sua piccola impresa meridionale

Orrori sommersi
Un ultimo cenno, parlando di "generi" (e, in special modo, di quelli che un tempo fecero la fortuna del nostro cinema) va fatto all'horror nostrano; che però continua a restare, in larga parte, realtà sommersa ed invisibile, operante in circuiti indipendenti che raramente trovano sbocchi distributivi nelle nostre sale. Un peccato, visto che si tratta di una realtà in continuo fermento, animata da professionalità di indubbio valore: lo dimostra il collettivo P.O.E. - Poetry of Eerie (prima parte di un progetto dedicato alle opere - rilette liberamente - di Edgar Allan Poe, che si comporrà anche del successivo P.O.E. - Poetry of Eerie) così come l'interessante The Butterfly Room - La stanza delle farfalle, thriller in cui Jonathan Zarantonello recupera una galleria di gloriose scream queen del cinema che fu, quali Barbara Steele, Heather Langenkamp ed Adrienne King. Persino Stefano Calvagna, regista in genere dedito ad altre atmosfere (nel corso dell'anno abbiamo visto anche il suo apprezzabile noir Rabbia in pugno) si è cimentato, con MultipleX, in un divertissement thriller efficace nella sua semplicità. Solo un regista ormai inserito nel mainstream (anche in virtù di meriti raggiunti in un altro campo artistico, quello musicale) quale Federico Zampaglione, è riuscito a ottenere una distribuzione degna di nota per il suo Tulpa - Perdizioni mortali: opera comunque apprezzabile e sanamente violenta, omaggio divertito e consapevole al giallo all'italiana degli anni '70.

Recensione di P.O.E. - Poetry of Eerie Recensione di The Butterfly Room - La stanza delle farfalle Recensione di Tulpa - Perdizioni mortali

Così lontani, così vicini
Come sempre, ben poco passa, tra le ristrette maglie della nostra distribuzione, dell'enorme produzione annuale che sta al di fuori di Hollywood e dei vari paesi europei: parliamo delle varie realtà asiatiche, del Medio Oriente e del Sud America, approfondibili solo, laddove lo si volesse, attraverso i vari e più o meno grandi festival specializzati. Comunque, gli autori provenienti da queste realtà che più hanno catturato, negli ultimi anni, l'attenzione di pubblico e critica internazionali, riescono ad avere una sia pur limitata visibilità nel nostro paese: è il caso, innanzitutto, dell'iraniano Asghar Farhadi, che con Il passato ha diretto uno dei suoi più bei film; un complesso e stratificato dramma familiare che utilizza, ancora una volta, una struttura da thriller che letteralmente imprigiona e lascia senza fiato lo spettatore. Ma è anche il caso di un maestro come Wong Kar-Wai, che con The Grandmaster racconta la complessa ed elaboratissima vicenda umana dell'artista marziale Ip Man, mentore di Bruce Lee e figura chiave della cultura cinese del Novecento; nonché di un Kim Ki-duk che, dopo il premio a Venezia col precedente Pietà, si permette di girare un divertissement grottesco come Moebius: demolizione divertita e sopra le righe dell'istituzione familiare, con il tema dell'evirazione in primo piano. Ma, restando in Asia, anche l'ultimo Jia Zhang-ke è riuscito ad approdare nelle nostre sale, proveniente direttamente da Cannes: Il tocco del peccato è un ritratto, in quattro storie, della società contemporanea cinese, che utilizza uno stile dinamico e ricercato, conferma di un autore sempre capace di rinnovarsi e stupire. Non solo Asia e Medio Oriente, comunque, sono riusciti in questo 2013 a catturare l'attenzione della distribuzione nostrana: anche il Sud America, con due titoli come No - I giorni dell'arcobaleno ed Infanzia clandestina, ci ha mostrato uno spicchio, piccolo ma significativo, della sua produzione. Col primo dei due titoli citati, il cileno Pablo Larrain racconta un evento chiave della storia recente del suo paese, ovvero la fine della dittatura di Augusto Pinochet: lo fa con stile essenziale e grande impeto civile, mantenendo, anche visivamente, un mood che rimanda a quegli anni e ai mezzi che i nemici del regime utilizzarono per decretare la sua fine. Col secondo, il regista argentino Benjamín Ávila narra invece una dolorosa storia autobiografica: offrendo un emozionante racconto di formazione sullo sfondo della tragedia dei desaparecidos, e della sua personale esperienza di figlio di una famiglia che fu vittima della dittatura.

Recensione di The Grandmaster Recensione di No - I giorni dell'arcobaleno Asghar Farhadi: 'Il mio cinema morale, avverso ai cliché'

Sacro Lido
Veniamo al capitolo festival: capitolo che, anche quest'anno, non può che vedere in primo piano l'ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Edizione che segna, oltre che il settantesimo compleanno della Mostra (simpaticamente celebrato dai frammenti dei Cinegiornali Luce, posti all'inizio di ogni proiezione) anche il secondo anno della gestione di Alberto Barbera, subentrato l'anno scorso a un Marco Muller accasatosi (per ora) a Roma. Un'edizione che ha confermato pregi e contraddizioni già evidenziati nella selezione 2012, e che resterà nella memoria soprattutto per il Leone d'Oro vinto dal già citato Sacro GRA; col suo supposto "sdoganamento del documentario", che a noi piace pensare (posto che un genere antico quanto lo stesso cinema non ha certo bisogno di essere "sdoganato") piuttosto come una rinnovata attenzione verso questo modo di fare cinema. Al di là del meritato riconoscimento al film di Rosi, chi scrive pensa comunque che altre siano le peculiarità da evidenziare di questo secondo anno della gestione Barbera: una composizione poco organica del Concorso, ad esempio, con titoli mainstream come The Zero Theorem di Terry Gilliam, e il pur valido Philomena di Stephen Frears, che avrebbero forse potuto lasciare il posto ad opere più in linea con una sezione competitiva, come il folgorante Locke di Steven Knight, o ad altre di maggior ricerca come l'ultimo Edgar Reitz (il suo monumentale Home from Home - Chronicle of a Vision). Al di là della meritata affermazione del film di Gianfranco Rosi, e dell'altrettanto importante riconoscimento a un'attrice come Elena Cotta (premiata con la Coppa Volpi per la sua interpretazione in Via Castellana Bandiera di Emma Dante) lascia perplessi, nelle decisioni della giuria, la scelta di ignorare lo struggente addio al cinema di Hayao Miyazaki, che col suo The Wind Rises si accomiata dal suo pubblico con una delle sue opere più intense e sentite; nonché il Leone d'argento al discutibile, ancorché ben confezionato, Miss Violence di Alexandros Avranas. Decisioni che, spiace dirlo, con la scelta di premiare certi generi e cinematografie a scapito di altri, riflettono un certo provincialismo che continua a serpeggiare anche tra pubblico della Mostra e accreditati (chi scrive ha sentito pronunciare, a una persona con accredito stampa in fila per il film di Miyazaki, le incredibili parole "ora mi guardo un cartone animato per rilassarmi un attimo"); e che continueranno a condannare, probabilmente, alle sezioni collaterali le opere più interessanti.

Gianfranco Rosi a Venezia con Sacro GRA Venezia 70 - Le preferenze della nostra redazione Recensione Philomena Recensione The Wind Rises

Ricomincio da Roma
Speculare a quello di Venezia, sembra il percorso intrapreso dal Festival del Film di Roma, che quest'anno ha segnato anch'esso un "anno II", quello della gestione di Marco Muller. Malgrado le immancabili, reiterate polemiche sui costi della manifestazione, sul problema irrisolto della vicinanza col Torino Film Festival, e le voci (infondate) su una sua presunta imminente partenza per Locarno, Muller ha comunque avuto modo di preparare questa edizione 2013 in modo più ragionato rispetto alla precedente, potendo contare su un arco di tempo più ampio per la selezione dei titoli. Selezione che ha mostrato qualche inevitabile compromesso (il più palese è l'apertura, con lo scialbo L'ultima ruota del carro di Giovanni Veronesi) e che ha visto un ripensamento della formula che voleva privilegiata la scelta di titoli in anteprima mondiale: malgrado ciò, il festival mulleriano sembra assumere, con questa sua seconda edizione, una fisionomia sempre più riconoscibile, a partire da un concorso che conferma la voglia di puntare su un perfetto equilibrio di mainstream e ricerca. Una selezione che conferma uno sguardo a 360 gradi sul cinema attuale, che attraversa i generi e le cinematografie: agli annunciati, ed attesissimi, Her di Spike Jonze e Dallas Buyers Club di Jean-Marc Vallée, si sono andati a sommare titoli come il deragliante I Am Not Him di Tayfun Pirselimoglu, il magniloquente Blue Sky Bones della rockstar cinese Cui Jian, e gli ultimi, importanti lavori di due protagonisti del cinema giapponese come Kiyoshi Kurosawa e Takashi Miike (rispettivamente Seventh Code e The Mole Song - Undercover Agent Reiji). Dello stesso Miike, la sezione Fuori Concorso ha ospitato un altro titolo, il divertente e inclassificabile Blue Planet Brothers; il lavoro di Miike si è integrato perfettamente in quel mix di intrattenimento e autorialità che ha caratterizzato anche la sezione non competitiva, con l'anteprima-evento di Hunger Games: la ragazza di fuoco, opere quali il fantascientifico Snowpiercer di Bong Joon-ho, il poliziottesco Song 'e Napule dei fratelli Manetti e l'atteso prequel Young Detective Dee: Rise of the Sea Dragon 3D di Tsui Hark; nonché l'imponente, imprescindibile testamento artistico di Aleksei German, quell'Hard to be a God a cui il regista russo ha lavorato per ben 14 anni. Passa quasi in secondo piano, in questo senso, il Marc'Aurelio d'Oro conquistato dal valido Tir di Alberto Fasulo (che comunque speriamo di vedere presto in sala); considerata la ricchezza di una selezione che ha visto anche nella sezione collaterale CinemaXXI (in cui è spiccato il nome di Jonathan Demme, col suo complesso e affascinante Fear of Falling) un luogo ormai stabilmente destinato alla ricerca e al cinema caratterizzato dalla più assoluta libertà espressiva.

Festival di Roma 2013: un'edizione di transizione con tante star Roma 2013: Il festival si mette in viaggio con Tir Recensione di Hard to be a God Recensione di Seventh Code

Sotto la Mole, vecchie e nuove visioni
Il terzo festival italiano (in ordine cronologico) tra i tre principali della penisola, è appunto il Torino Film Festival: manifestazione che quest'anno ha fatto parlare di sé, prima ancora del suo inizio, per la poco elegante polemica mossa dal neo-direttore Paolo Virzì nei confronti del rivale Muller, "reo" di aver speso soldi pubblici per portare Scarlett Johansson nella Capitale. Ennesimo atto, quest'ultimo, di una guerra tra festival sempre più stucchevole, che tuttavia (complice l'effettiva vicinanza cronologica tra le tre manifestazioni) non sembra destinata a trovare facile soluzione. Virzì, da par suo, sembra aver già rinunciato, per la prossima stagione, a restare al timone del festival torinese; lasciandone la guida a Emanuela Martini, e ritagliando per sé il ruolo (del tutto nuovo per un festival, e con funzioni non ancora ben chiare) di Guest Director. Sia quel che sia, le premesse "rivoluzionarie" che sembravano dover accompagnare l'arrivo di Virzì alla guida del festival, sono in parte rientrate; ciò, al di là dell'annunciata coloritura "pop" della manifestazione, tutta risolta in una nuova sottosezione (chiamata appunto Europop, e tesa a gettare uno sguardo sul cinema da box office degli altri paesi europei) e in una selezione chiamata After Hours, dedicata al cinema di genere più inclassificabile e voluta proprio da Emanuela Martini. Per il resto, il TFF ha mantenuto sostanzialmente inalterata la sua fisionomia, risultando, tra i festival italiani, quello forse più impermeabile (se ciò sia un bene o no, lo lasciamo decidere ai suoi spettatori) ai cambiamenti di gestione. Un concorso come sempre incentrato su opere di cineasti (più o meno) emergenti, che ha spaziato dalla Francia (La Bataille de Solférino, commedia diretta da Justine Triet) al Giappone che mette in scena la sua storia recente (A Woman and War, di Junichi Inoue), passando per gli Stati Uniti con l'indipendente, duro Blue Ruin di Jeremy Saulnier (proveniente dalla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes), per l'Italia del già citato La mafia uccide solo d'estate, e per il Messico della divertente commedia Club Sandwich di Fernando Eimbcke (che ha ottenuto il Premio della Giuria). Apprezzabile, come sempre, la sezione Festa Mobile, che ripropone (anche) titoli già passati in festival come quelli di Cannes e Berlino: tra questi, sono da segnalare quest'anno il nuovo lavoro dei fratelli Coen A proposito di Davis, il già discusso Only Lovers Left Alive di Jim Jarmusch, e la commedia indipendente Frances Ha, di Noah Baumbach. Immutata (per fortuna) nella sua forza attrattiva verso lo spettatore cinefilo, è anche la tradizionale sezione dedicata alle retrospettive: quest'anno, è stata la New Hollywood a esser messa sotto i riflettori, con una rassegna intitolata Suicide is Painless: il nuovo cinema americano 1967-1976. Fiore all'occhiello del festival torinese, la sezione ha annoverato, pescando a caso tra i suoi 36 titoli, classici quali Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, Harold e Maude di Hal Ashby, Gangster Story di Arthur Penn, Le due sorelle di Brian De Palma. Tutti, ovviamente, rigorosamente in pellicola.

Ecco il nuovo Torino Film Festival di Paolo Virzì Elliott Gould al TFF presenta la retrospettiva New Hollywood