Anche questo 2014 di celluloide, dunque (ci perdoneranno i lettori se, per un vezzo più che per altro, continuiamo a citare il vecchio e sempre amato materiale, ormai quasi in disuso), si prepara a chiudersi. Ci prepariamo, come ogni anno, a tracciare un bilancio dell'anno appena passato, a rievocare visioni e suggestioni che ci ha offerto, a cercare di delinearne linee di tendenza. Un anno dalla fisionomia composita, numericamente "ricco", per certi versi contraddittorio nelle indicazioni che ha offerto: dominato, almeno quantitativamente, da una Hollywood che sembra mostrare una maggiore tendenza a fermarsi, a riflettere anche su se stessa (sulla sua storia e sui suoi generi), a tracciare percorsi che dal passato guidano verso una fisionomia nuova della Mecca del Cinema, ancora tutta da decifrare.
Una fisionomia che qualcuno ha provato da un lato ad anticipare nei suoi sviluppi più inquietanti, dall'altro a sviscerare, letteralmente, dall'interno, mettendone a nudo le logiche col suo occhio clinico: parliamo di un David Cronenberg lucido e ispirato come non mai, che con Maps to the Stars ha diretto quello che, a parere di chi scrive, risulta il miglior film della stagione, oltre che uno dei migliori da lui girati negli ultimi anni. La cupa, livida visione di Cronenberg racconta, se non la morte del cinema, l'illusione mortale della fabbrica dei sogni, e il suo cuore nero e pulsante. Guardato da dentro, attraverso la consueta visionarietà mista a rigore del regista canadese, questo continua ad attrarci e respingerci, in parti uguali, come non mai.
La Notte delle Stelle 2014: una celebrazione cauta
Non è un caso che il luogo di autocelebrazione hollywoodiana per eccellenza, la Notte degli Oscar, abbia stavolta offerto soluzioni di compromesso, con un occhio alla classicità (il premio per il miglior film a 12 anni schiavo di Steve McQueen, nuovo atto di riflessione sulla storia e sull'identità statunitense) e uno a un presente sempre più "spurio" e tendente alla contaminazione (la sci-fiction essenziale di Gravity di Alfonso Cuarón, premio per la miglior regia, le riflessioni sull'identità della quasi-fantascienza di Lei, di Spike Jonze). E non è un caso neanche, probabilmente, l'aver trascurato un Martin Scorsese nero, corrosivo, ispirato come non mai, in uno dei suoi migliori film degli ultimi anni (The Wolf of Wall Street, con un Leonardo DiCaprio sempre più attore-feticcio del regista). C'è stato spazio anche per un riconoscimento a un cinema di denuncia e impegno civile (pur soltanto nei premi ai suoi due protagonisti, Matthew McConaughey e Jared Leto), lucido nel suo vigore, che ha visto in Dallas Buyers Club di Jean-Marc Vallée il suo miglior rappresentante.
Considerazioni, queste, che inevitabilmente, dalle nostre parti, sono state oscurate dal trionfo (di cui comunque, a scanso di equivoci, ci rallegriamo) de La grande bellezza di Paolo Sorrentino: opera celebrata quanto fraintesa, affresco impietoso di una città e del microcosmo umano che la abita, inevitabilmente tornata d'attualità alla luce della cronaca di questi giorni.
Recensione 12 anni schiavo
Recensione The Wolf of Wall Street
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Saghe, cloni ed eroi, vecchi e nuovi
Comunque, il cinema americano arrivato in sala in questo 2014 ha visto una contrazione, almeno numerica, di saghe e blockbuster, unita a una valorizzazione dei suoi autori presenti e passati, e dei suoi generi più rappresentativi. Non è un caso che, anche nel blockbuster, non si rifugga spesso da quel senso nostalgico e "patetico" che spinge a riesumare vecchie icone, rivedere criticamente (magari con affetto) miti, colorare di nostalgia vecchi franchise: una tendenza che accomuna, pur con fisionomie diverse, operazioni come quella de Il grande match di Peter Segal (con due carismatici Sylvester Stallone e Robert De Niro) e l'ultimo capitolo di una serie che nasce già "vecchia" e nostalgica come quella de I mercenari - The Expendables (con I mercenari 3 - The Expendables di Patrick Hughes), una commedia "senile" per eccellenza come Last Vegas di Jon Turteltaub e persino l'umorismo politically incorrect e corrosivo dei fratelli Peter e Bobby Farrelly in Scemo & + scemo 2 (con Jim Carrey e Jeff Daniels di nuovo insieme dopo vent'anni).
Per il resto, certo, a molti dei franchise degli ultimi anni viene aggiunto un ulteriore installment, spesso strategicamente posto nel periodo pre-natalizio: sarà anche l'ultimo, nella fattispecie, per la trilogia de Lo Hobbit di Peter Jackson (col conclusivo Lo Hobbit: La Battaglia delle Cinque Armate ) e il penultimo per la saga young adult di Hunger Games, con Hunger Games: Il Canto della Rivolta - Parte 1 di Francis Lawrence, la cui conclusione è attesa per novembre. Intanto, altre saghe sul modello di quella tratta dai libri di Suzanne Collins fanno la loro prima apparizione sullo schermo, con gli esordi di Divergent (prima opera di una trilogia, ispirata ai romanzi di fantascienza di Veronica Roth) e Maze Runner - Il labirinto (il cui ispiratore letterario, ad opera di James Dashner, è addirittura il primo di sei libri).
Recensione Lo Hobbit: La Battaglia delle Cinque Armate
Recensione Hunger Games: Il Canto della Rivolta - Parte 1
Nel frattempo, il filone super-eroistico è rimasto appannaggio di una Marvel che continua a garantire incassi e popolarità a vecchi e nuovi franchise: emblematici ne sono, nel primo caso, X-Men: Giorni di un futuro passato, ritorno di Bryan Singer alla saga degli eroi mutanti, e il secondo capitolo del "nuovo corso" delle avventure dell'Uomo Ragno, The Amazing Spider-Man 2: Il Potere di Electro di Marc Webb; franchise nuovo di zecca è invece quello inaugurato dal fortunato, scatenato e autoironico Guardiani della Galassia di James Gunn. Non va dimenticato, infine, l'eccellente Captain America: The Winter Soldier, sequel che surclassa in tutto l'originale e fa da preludio all'atteso nuovo episodio de The Avengers (Avengers: Age of Ultron, in arrivo a febbraio).
Anche il filone dell'animazione ha scelto in parte di puntare sul sicuro, affidandosi ad alcuni sequel di saghe già collaudate: è il caso di Dragon Trainer 2 di Dean Deblois, sequel del precedente successo targato Dreamworks; e di Planes 2 - Missione Antincendio di Roberts Gannaway, secondo episodio del franchise della Disney, nato come spin-off del precedente Cars - motori ruggenti. Più innovativo, e meno propenso a battere territori già frequentati, il nuovo lavoro della Laika Entertainment, già realizzatrice di Coraline e la porta magica e ParaNorman, il lungometraggio in stop-motion BoxTrolls - Le scatole magiche di Graham Annable e Anthony Stacchi. È infine impossibile, restando nel filone, non citare lo scatenato The Lego Movie di Phil Lord e Chris Miller, fortunato e citazionistico calderone ispirato ai noti giocattoli, in cui confluiscono animazione digitale, stop motion e cinema live action.
Recensione Captain America: The Winter Soldier
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Recensione BoxTrolls - Le scatole magiche
Contaminazioni e (re)iterazioni
Qualcuno, nel blockbuster hollywoodiano, ha anche provato a ribadire la logica di una contaminazione tra la Settima Arte e gli altri medium che, in questo decennio, si sta facendo sempre più spinta: parliamo del sequel Sin City - Una donna per cui uccidere di Frank Miller e Robert Rodriguez, in cui, come nel predecessore, il cinema si fa fumetto filmato e ne acquisisce le logiche; e di Edge of Tomorrow - Senza domani di Doug Liman, che, senza dirlo esplicitamente, trasporta sullo schermo la logica iterativa del videogioco (prova-sbaglia-ritenta).
Se da un lato, con queste operazioni, Hollywood guarda a un futuro sempre più "spurio" e contaminato, in cui il cinema si avvia a diventare altro da se stesso, e ad assorbire modalità rappresentative e narrative di altri linguaggi, dall'altro la sua macchina industriale non rinuncia alla ripetizione e al recupero di materiale preesistente: ed è in questo senso che vanno viste le operazioni di rifacimento di classici e cult più o meno fissati nella memoria collettiva, che non sono mancate neanche in questo 2014. Con risultati qualitativamente diversi, operazioni come quelle di RoboCop di José Padilha, Godzilla di Gareth Edwards, Lo sguardo di Satana - Carrie di Kimberly Peirce e anche Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie di Matt Reeves (nuovo episodio di una saga che nasce come recupero di un vecchio classico) vanno lette in quest'ottica.
Persino il tentativo di svecchiamento (dalla riuscita molto modesta) di un mito letterario e cinematografico come quello del Conte Dracula, nel mediocre Dracula Untold di Gary Shore, può essere inserito in questo filone; una tendenza che mostra l'altra faccia del cinema hollywoodiano, quella più industriale e tesa al riciclaggio e al riuso ad libitum di materiale già dato.
Recensione Sin City - Una donna per cui uccidere
Intervista: Sarah Gadon: "Dracula Untold, una storia dal gusto contemporaneo e romantico"
Poetiche degli autori
Ma il cinema statunitense non è solo serialità e riproduzione indefinita di storie ed idee; ma resta anche, e questo 2014 lo ha confermato, un'industria che può mettersi al servizio dei suoi autori, vecchi e nuovi. I già citati The Wolf of Wall Street, Lei, Dallas Buyers Club e lo stesso 12 anni schiavo mostrano la capacità del cinema americano di questo decennio di guardare alla classicità, senza dimenticare il rinnovamento di temi, volti e storie. Persino un esperimento esplicitamente e gradevolmente retro come American Hustle - L'apparenza inganna di David O. Russell non rifugge da uno svecchiamento del linguaggio, e dalla consapevolezza di una contaminazione con le modalità narrative del piccolo schermo, che è ormai un dato di fatto; mentre la classicità domina, ma sempre con un senso di celebrazione funerea (anche laddove questa assuma toni grotteschi) in opere come Nebraska di Alexander Payne, A proposito di Davis di Joel ed Ethan Coen, e Mud di Jeff Nichols (giunto sui nostri schermi con due anni di ritardo). Carattere funereo che si fa esplicito, e dichiarato, nel più atipico e ostico (ma anche affascinante) tra i film di vampiri usciti negli ultimi anni, ovvero Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch.
Recensione A proposito di Davis
Recensione Solo gli amanti sopravvivono
Ma anche altri, grandi nomi di Hollywood si sono affacciati, e hanno voluto dire la loro, in quest'annata cinematografica: se Clint Eastwood l'ha fatto con un tocco leggero e divertito (ma nient'affatto superficiale) nel suo Jersey Boys, e se Woody Allen ha diretto con Magic In The Moonlight una commedia che è soprattutto riflessione e ripensamento critico dei suoi stessi temi e topoi, il più ambizioso è stato Richard Linklater: questi, con Boyhood, ha realizzato la più completa (ed emozionante) sovrapposizione tra cinema e vita che si sia mai vista sullo schermo. Temi, quelli affrontati da Linklater, che in altra forma (quella della sci-fi) sono stati trattati anche da un film discusso, ma importante, come Interstellar di Christopher Nolan: blockbuster sbilanciato, imperfetto, a volte pedante e new age, ma dal fascino visivo che rende digeribile (e per alcuni versi addirittura apprezzabile) la sua stessa verbosità.
E tra autorialità e genere, con una ricerca tematica che si affida molto alla recitazione dei protagonisti Ben Affleck e Rosamund Pike, si muove anche un regista "nero" per eccellenza come David Fincher, con il suo nuovo, già molto apprezzato thriller L'amore bugiardo - Gone Girl.
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Il mito hollywoodiano, inevitabilmente, si nutre anche di addii, meglio se improvvisi e circondati da un'aura "maledetta": è stato il caso di Philip Seymour Hoffman, di cui abbiamo visto il "testamento" filmico (il solido thriller La Spia - A Most Wanted Man di Anton Corbijn) ma anche un tardivo, importante recupero come quello di Synecdoche, New York di Charlie Kaufman (risalente addirittura al 2008).
Recensione Boyhood
Recensione Interstellar
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Dall'Europa alla Croisette... e ritorno
Spostando il nostro sguardo sul panorama, più che mai composito e variegato, delle proposte cinematografiche europee, a dire la sua con più forza è stato forse Lars von Trier con la sua operazione-Nymphomaniac; l'ennesima provocazione del regista danese, per alcuni, un lucido trattato sull'amore e sulla sua assenza, mascherato da film-scandalo, per altri. Di sicuro, von Trier non smette di far parlare di sé e del suo cinema, ma non lo fa (solo) grazie a un marketing pur attentamente studiato; anche nei suoi esperimenti più discussi, quale quello in esame, il regista danese mostra un controllo della macchina-cinema, e delle emozioni dello spettatore, che rendono superflua qualsiasi considerazione sulla presunta natura "furba" della sua proposta.
Parlando di Europa, e in particolare di quella fetta delle proposte cinematografiche europee che arrivano e risultano visibili nelle nostre sale, anche quest'anno alcune delle uscite più significative vengono dal palcoscenico del Festival di Cannes: palcoscenico che ha visto trionfare una co-produzione tra Turchia, Germania e Francia come Il Regno d'Inverno - Winter Sleep, fluviale, potente opera di un Nuri Bilge Ceylan che mette in parallelo le aridità della terra e quelle del cuore. Ma anche altri grandi autori hanno illuminato quest'edizione della manifestazione della Croisette, tutti giunti in sala (in alcuni casi, purtroppo, come una meteora) nel corso di questo 2014: da un Ken Loach che con Jimmy's Hall - Una storia d'amore e libertà racconta, con la consueta generosità militante, un fatto poco noto della recente storia del conflitto tra Inghilterra e Irlanda, a un Olivier Assayas che in Sils Maria porta avanti la sua riflessione sul cinema, sull'arte di recitare e su tensioni e ricadute della notorietà; dai fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne di Due giorni, una notte, che, con un minimalismo non scevro dalla componente emotiva, danno nuovo vigore, e significato, all'espressione "solidarietà di classe", al purtroppo sacrificato, ultimo lavoro del grande Jean-Luc Godard, Goodbye to Language - Addio al Linguaggio (uscito in sole tre sale in tutta la penisola, nonché, nel caso della copia romana, privato del 3D con cui era stato concepito).
Recensione Nynphomaniac - Volume 1
Recensione Nynphomaniac - Volume 2
Recensione Il regno d'inverno - Winter Sleep
Sguardi d'Europa
Dai paesi a noi vicini, tuttavia, non sono arrivati solo gli autori che hanno animato l'ultima edizione della manifestazione cannense, né una proposta cinematografica strettamente limitata a un panorama "autoriale" o da festival. Se dalla Francia Luc Besson ci ha offerto con Lucy l'ennesimo saggio (pur confuso e furbo) della sua visione postmoderna della macchina-cinema, la Gran Bretagna scopre un nuovo fenomeno-teen (e tre star emergenti, rispondenti ai nomi di Douglas Booth, Max Irons e Sam Claflin) nel patinato, ma a suo modo interessante, Posh di Lone Scherfig; mentre, sul versante del thriller più adrenalinico, uno sceneggiatore navigato come Steven Knight fa il suo esordio dietro la macchina da presa nel tesissimo, ottimo Locke, animato da un Tom Hardy (unico) interprete d'eccezione, e giunto in sala con un anno di ritardo. Spostandosi dalla Gran Bretagna all'Irlanda, vale la pena citare anche una commedia atipica, diventata cult ancor prima del suo arrivo in sala, come Frank di Leonard Abrahamson; un'opera coraggiosa e anticonvenzionale, ritratto d'un artista tormentato (ispirato alla reale figura del cantante Chris Sievey) che vede un Michael Fassbender recitare per quasi tutto il film col volto coperto da una maschera di cartapesta. Commedie, pur molto diverse tra loro, sono anche l'inglese Pride di Matthew Warchus e il norvegese In ordine di sparizione di Hans Petter Moland: ambientato, il primo, nella Gran Bretagna thatcheriana, e incentrato sull'allora impensabile alleanza tra il movimento gay e quello dei minatori in sciopero; costituente, il secondo, un eccentrico e personalissimo revenge movie virato al grottesco, che occhieggia ai primi Coen e a un'estetica pulp opportunamente ricollocata nei nevosi paesaggi del Nord Europa.
Esclusivo: videointervista a Douglas Booth, Max Irons e Sam Claflin
Recensione Frank
Tornando a una proposta di marca più autoriale, che vede protagonisti autori che occupano un posto importante nelle rispettive cinematografie, più o meno recenti, è impossibile non citare La gelosia, ultimo lavoro di un Philippe Garrel che ad ogni nuovo film ritrova tematiche e motivi estetici prediletti, ma anche la sua limpidezza di sguardo e la spontaneità nel narrare; nonché quelli di Manoel de Oliveira e Peter Greenaway, rispettivamente Gebo e l'ombra e Goltzius & The Pelican Company, entrambi distribuiti con due anni di ritardo ma tasselli importanti nelle (nutrite) filmografie dei rispettivi cineasti.
Tra le opere di autori affermatisi invece in anni più recenti, va citato almeno Ida, ultimo, doloroso lavoro del polacco Pawel Pawlikowski: racconto del difficile viaggio alla scoperta delle proprie radici di una ragazza polacca all'inizio degli anni '60, tra le pieghe, spesso drammatiche, della storia e quelle di una vicenda familiare complessa e nascosta, tra la dimensione collettiva della politica di un paese, e quella intima degli affetti e delle scelte personali.
Recensione La gelosia
Recensione Ida
Visioni tricolore
La proposta cinematografica nostrana, in questo 2014, ha visto in primo piano un Paolo Virzì che, con Il capitale umano, è stato selezionato per rappresentare l'Italia nella corsa agli Academy Awards, senza riuscire ad approdare alla prestigiosa cinquina. Scelta prevedibile, quella del film di Virzì, ma anche sensata; per un noir che, traendo spunto da un romanzo americano, scava a fondo, senza abbellimenti o ipocrisie, nella compenetrazione tra malaffare e forma mentis di certa borghesia italiana. Altri, importanti autori nostrani, tuttavia, hanno segnato quest'annata con le loro opere, in un panorama che, nella sua staticità, non può che vivere delle conferme espresse dai suoi migliori rappresentanti: parliamo di Mario Martone, che con Il giovane favoloso riesce a rendere al meglio la vita, e l'arte, di uno dei più importanti e complessi rappresentanti della cultura italiana, Giacomo Leopardi; di Gabriele Salvatores, che non smette di osare e sperimentare, introducendo in Italia il filone super-eroistico col suo Il ragazzo invisibile; del grande Ermanno Olmi, che in Torneranno i prati offre un emozionante e poetico apologo antimilitarista, affidandosi alla forza di un cinema che è ricchezza d'immagine ed essenzialità narrativa. Tornano sugli schermi, con risultati che rivelano coerenza, ma anche una certa stanchezza tematica, anche Ferzan Ozpetek e Pupi Avati, i cui rispettivi Allacciate le cinture e Un ragazzo d'oro denunciano i rischi di poetiche che, reiterando semplicemente se stesse, arrivano a un passo dalla maniera.
Intervista esclusiva a Paolo Virzì: 'La forza del cinema europeo e la voglia di una serie tv'
Recensione Il ragazzo invisibile
Sulla nostra storia recente riflettono, in modo diverso, tanto Alice Rohrwacher con Le meraviglie (che racconta l'impatto della tv commerciale sulla vita di una famiglia contadina del centro Italia) quanto Walter Veltroni, nel suo discusso ma importante documentario dedicato a una delle figure chiave della politica italiana, Quando c'era Berlinguer.
Proprio il linguaggio del documentario, spesso contaminato e mescolato, senza soluzioni di continuità, con la fiction, è stato protagonista di alcune delle opere più interessanti viste in quest'annata: ci riferiamo al corrosivo, fondamentale Belluscone. Una storia siciliana di Franco Maresco, all'imperfetto ma significativo La mia classe di Daniele Gaglianone, al visivamente ricercatissimo, notevole La zuppa del Demonio di Davide Ferrario, e infine al discusso La trattativa di Sabina Guzzanti.
Non possiamo non citare, inoltre, un trittico di noir che, come i film di Maresco e della Guzzanti, sono stati protagonisti dell'ultima Mostra del Cinema di Venezia (su cui torneremo): parliamo di Anime nere, Senza nessuna pietà e Perez., diretti rispettivamente da Francesco Munzi, Michele Alhaique ed Edoardo De Angelis. Opere dalla diversa riuscita qualitativa (per lucidità, equilibrio ed impatto estetico, il film di Munzi ne esce senz'altro vincitore) ma tutte testimoni della ricerca di una nuova via italiana al genere, che non sia la mera reiterazione di formule sperimentate nel passato. E parlando, in modo più esteso, di "genere", una citazione la merita anche Song 'e Napule dei fratelli Marco e Antonio Manetti, irresistibile recupero degli stilemi del poliziottesco che fu, filtrato dallo sguardo ironico, ricco di affetto e consapevolezza, dei due cineasti romani.
Recensione Le meraviglie
Recensione Belluscone. Una storia siciliana
Intervista: Sabina Guzzanti racconta la "sua" trattativa
Coppie, scoppi e risate
Il genere che tuttavia, in Italia, continua a richiamare in sala le fette maggiori di pubblico, e ad attirare di conseguenza i maggiori investimenti da parte dei produttori, è tuttora quello della commedia. In questo Natale, in particolare, dopo qualche stagione di stop, Neri Parenti ha deciso di resuscitare il filone del cinepanettone, entrando in sinergia con i fratelli Enrico e Carlo Vanzina, sceneggiatori del suo nuovo Ma tu di che segno 6? Gli stessi Vanzina, da parte loro, hanno puntato da un lato a un pubblico di nostalgici e a un gusto da revival anni '80 (gli stessi che diedero loro il successo) in un progetto che già dal titolo denuncia i suoi intenti, quale Sapore di te; dall'altro, a una commedia dal gusto più contemporaneo, fatta di rimpatriate, quarantenni immaturi e crisi esistenziali, con Un matrimonio da favola. Ma, ancor più di questa "storica" coppia (di regista e sceneggiatore) della nostra commedia, sono state le coppie di attori ad essere protagoniste del fronte più leggero e di cassetta del cinema italiano del 2014: parliamo della coppia Pio/Amedeo, transfughi del televisivo Le iene, in Amici come noi di Enrico Lando; di quella costituita da Ficarra e Picone, nel fortunato Andiamo a quel paese, diretto dal secondo; di quella dei "fratelli" Raoul Bova e Luca Argentero nell'esile Fratelli unici di Alessio Maria Federici.
Anche un'altra coppia comica, pur divisasi, nel corso della sua carriera, tra televisione, musica e cinema, è tornata da poco sugli schermi: parliamo di Lillo e Greg, tra i protagonisti delle festività appena trascorse con Un natale stupefacente di Volfango De Biasi. Non di coppia ma di trio, notissimo ed ultra-collaudato, si parla invece nel caso del divertente, ma inoffensivo, Il ricco, il povero e il maggiordomo, uscita natalizia targata Aldo, Giovanni e Giacomo, co-diretto insieme all'esordiente Morgan Bertacca. E, restando in tema natalizio, è d'obbligo citare anche l'opera seconda degli autori di Boris, Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, Ogni maledetto Natale: commedia dagli intenti più "cattivi" e corrosivi dei film tradizionalmente associati al periodo festivo.
Tra i restanti titoli appartenenti al genere (tuttora) più remunerativo del nostro cinema, va citato almeno l'ultimo lavoro di un Carlo Verdone che continua il suo lavoro di svecchiamento della forma-tipo del suo cinema: con Sotto una buona stella, l'attore/regista confeziona una commedia corale, in cui il suo personaggio divide la scena con Paola Cortellesi, Lorenzo Richelmy e Tea Falco, concentrandosi più che in passato sul lavoro dietro la macchina da presa.
Recensione Ogni maledetto Natale
Intervista: Verdone-Cortellesi: una coppia nata Sotto una buona stella
Territori "altri"
Come sempre, anche in questo 2014 poco è riuscito a passare, al di fuori delle uscite statunitensi ed europee, tra le maglie della distribuzione nostrana. Tra i titoli più importanti del cinema "altro" va citato senz'altro Mommy: ultima opera, già presentata con successo a Cannes, del giovane, talentuoso regista canadese Xavier Dolan. Con un sorprendente formato di ripresa 1:1, e un controllo sulla fattura dell'immagine pressoché totale, il venticinquenne Dolan firma un potente, intenso melodramma a tematica familiare; portando a compimento i temi-cardine già toccati nelle sue opere precedenti, e mostrando una consapevolezza, e una capacità di gestione della messa in scena, e della recitazione degli attori, rarissime se non uniche in un regista della sua età.
Tra i titoli provenienti dalla complessa, ma vivace realtà cinematografica del Medio Oriente, va invece citato Melbourne, opera prima dell'iraniano Nima Javidi, occhieggiante al cinema del conterraneo Asghar Farhadi e già presentato nel corso della Settimana della Critica dell'ultima Mostra del Cinema di Venezia; da Cannes, e precisamente dalla Quinzaine des Réalisateurs, viene invece l'israeliano Viviane, intenso dramma processuale (e familiare) diretto dai fratelli Ronit e Shlomi Elkabetz.
Poco presente ma ben rappresentato, anche quest'anno, il panorama asiatico, che ha visto la distribuzione (tardiva, ma importante) di un titolo come Father and Son di Hirokazu Koreeda; un problematico dramma che scava a fondo negli affetti e nella concezione dell'istituzione familiare, che potrebbe avere presto un remake occidentale ad opera della Dreamworks e di Steven Spielberg. Giungono tardivamente in sala anche due pellicole entrambe risalenti al 2012, già presentate (a suo tempo) nell'importante palcoscenico del Far East Film Festival di Udine: parliamo di Song of Silence di Chen Zhuo, intenso film d'autore di produzione cinese, anch'esso ad ambientazione familiare, e di Thermae Romae, fantasiosa commedia tratta da un popolare manga, che vede un progettista termale nipponico catapultato indietro nel tempo, fino alla Roma imperiale.
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Recensione Father and Son
Altre atmosfere, e ben altri intenti, sono invece quelle di due opere che raccontano rispettivamente le recenti tragedie di due paesi come l'Indonesia e la Cambogia: ci riferiamo a The Look of Silence di Joshua Oppenheimer, documentario che segue il precedente The Act of Killing - L'atto di uccidere, e narra il massacro di oltre un milione di persone all'inizio del regime del generale Suharto; e a L'immagine mancante di Rithy Panh, rappresentazione, in forma di animazione, degli orrori compiuti dai Khmer Rossi durante la dittatura cambogiana di Pol Pot.
Spostandoci sul terreno dell'animazione, non si può non citare la distribuzione (purtroppo limitata, in entrambi i casi, a pochi giorni) delle ultime, emozionanti opere dei patron dello Studio Ghibli, Hayao Miyazaki e Isao Takahata: se Si alza il vento, addio annunciato alla regia da parte del maestro nipponico, avevamo già potuto apprezzarlo a Venezia 2013, La Storia della Principessa Splendente aveva beneficiato dell'anteprima alla Quinzaine nell'ultimo Festival di Cannes, per un progetto che Takahata perseguiva addirittura da un cinquantennio. Due opere entrambe straordinarie, che in qualche modo rovesciano l'impostazione che i due maestri, nel corso delle loro carriere, hanno prevalentemente dato ai rispettivi lavori: stavolta è nel film di Miyazaki, ad ambientazione storica, a prevalere un tono realistico, con punte di amarezza spietata; mentre l'opera di Takahata, tratta da un antico racconto popolare, è innervata da una vena fantastica e simbolica, a partire dalla peculiare stilizzazione del tratto.
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Percorsi festivalieri: continuità sul Lido
Vale infine la pena gettare uno sguardo, come da regola, sulle tre principali manifestazioni cinematografiche italiane. La Mostra del Cinema di Venezia, giunta al secondo anno della gestione-Barbera, è quella che si è forse mossa maggiormente in continuità con l'edizione dell'anno passato; ciò, malgrado alcuni aggiustamenti logistici (la ristrutturazione della sala Darsena, lo spostamento delle sezioni della Settimana della Critica e delle Giornate degli Autori in spazi dedicati) e un peso forse maggiore, nel programma, della selezione italiana. Selezione che ha visto i titoli più rilevanti nei già citati lavori di Mario Martone, Franco Maresco, Francesco Munzi, Sabina Guzzanti; a cui va aggiunto il coraggioso, anticonvenzionale Hungry Hearts di Saverio Costanzo, acido excursus sulle deviazioni di certa filosofia new age, nella forma del miglior cinema indipendente. In un programma che, nelle sezioni principali, ha scelto di muoversi sul sicuro, affidandosi principalmente alle opere di cineasti dal nome e dal peso consolidato, vanno segnalati almeno il durissimo, emotivamente quasi insostenibile, ultimo lavoro di Shinya Tsukamoto, Fires on the Plain, il lirico nuovo film di Andrei Konchalovsky, The Postman's White Nights , il già citato, doloroso nuovo capitolo filmico che Joshua Oppenheimer ha voluto scrivere sulla tragedia indonesiana degli anni '60, con The Look of Silence; oltre al nuovo tassello di una filmografia personalissima quale quella di Roy Andersson, Un piccione seduto su un ramo medita sull'esistenza, opera tanto simbolica e grottesca da portarsi a casa il Leone d'Oro. Oltre all'apertura con quel Birdman (o Le imprevedibili virtù dell'ignoranza) già lanciato, insieme al suo regista Alejandro González Iñárritu, verso la Notte delle Stelle, vale la pena anche citare il discusso (ma, a parere di chi scrive, assolutamente imprescindibile) Pasolini di Abel Ferrara, nuova opera di un cineasta che troppo presto è stato relegato, da molta critica, nella serie b, oltre che coraggioso ritratto di una personalità complessa e del contesto in cui si è mossa. Una selezione, quella veneziana, che complessivamente ha mancato comunque in quei percorsi di ricerca, e di scoperta di un cinema capace di guardare al futuro, che dovrebbero sempre essere parte integrante di un festival.
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Recensione Un piccione seduto su un ramo medita sull'esistenza
Recensione Fires on The Plain
Da Roma a Torino, tra mutazioni e percorsi consolidati
L'edizione 2014 del Festival del Film di Roma ha segnato invece il prevedibile addio del direttore artistico Marco Müller, nel contesto di un festival che (giunto ormai alla sua nona edizione) continua a stentare nell'assumere una sua fisionomia. Müller ha salutato la manifestazione capitolina tra le polemiche e i mugugni più o meno espliciti di media e politici romani, prendendo atto dell'impossibilità di conferire la fisionomia da lui immaginata a un festival nato, e configuratosi, soprattutto come vetrina politica per chi lo ha voluto. Lo smantellamento della sezione CinemaXXI, e la scelta di abolire la giuria, testimoniano di una volontà della Fondazione di allontanarsi dall'idea di festival in senso stretto per tornare a quella di festa, o piuttosto di rassegna, prescindendo da quel percorso di ricerca, di contaminazione di linguaggi, idee e tipologie di cinema, che aveva costituito l'obiettivo del direttore artistico. Nonostante ciò, e malgrado le inevitabili concessioni del calendario a quella che, più delle scorse stagioni, si è configurata come un'edizione di compromesso (e parliamo dell'apertura con Soap opera, della chiusura con Andiamo a quel paese, e di altre scelte simili) quest'ultimo anno della gestione-Müller ha visto una selezione degna di nota, e soprattutto all'insegna dell'eclettismo a 360 gradi che ha sempre contraddistinto le scelte del direttore: dalle anteprime di grido dell'ultimo David Fincher (L'amore bugiardo - Gone Girl), del nuovo dramma con protagonista Julianne Moore (Still Alice), del tributo a Philip Seymour Hoffman col già citato La spia - A Most Wanted Man, allo splendido spaccato antropologico, per immagini, di una comunità lacerata raccontato da Aleksei Fedorchenko nel suo Angels of Revolution, da un Takashi Miike sempre più libero e insieme complesso (As the Gods Will) all'excursus horror di Kevin Smith in Tusk. Senza contare una retrospettiva, quale quella sul gotico italiano, che molti tra gli spettatori più giovani (quelli che non hanno mai potuto fruire di certi titoli in sala) aspettavano da anni di vedere. Checché se ne voglia pensare sui tre anni appena trascorsi, e sulla direzione artistica di Müller, crediamo che difficilmente, nelle prossime edizioni, ritroveremo tale varietà e ricchezza di stimoli e suggestioni.
Recensione L'amore bugiardo - Gone Girl
Recensione Angels of Revolution
Roma 2014: Takashi Miike presenta As The Gods Will
Un cambio formale al timone di guida, ma una sostanziale continuità nella proposta e nella fisionomia, ha invece contraddistinto l'ultima edizione del Torino Film Festival; con una Emanuela Martini che, da coordinatrice con un forte potere decisionale, è passata alla direzione artistica della manifestazione. La gestione diretta da parte della Martini ha comunque fatto sì che il festival aprisse ancor più al genere, alla contaminazione tra "alto" e "basso", tra autorialità e suggestioni pop: una scelta che ha informato di sé tutte le sezioni della manifestazione torinese, da un concorso che ha visto la fiaba nera di The Babadook convivere col duro realismo di Eat Your Bones (vincitore del premio della giuria) a una sezione non competitiva in cui l'ultimo Woody Allen ha affiancato la proiezione della copia restaurata (presentata nella penultima giornata) di Profondo Rosso di Dario Argento.
L'ultima parte della rassegna dedicata alla New Hollywood, e un omaggio come quello tributato a Giulio Questi (reso purtroppo ancor più significativo dalla scomparsa del regista, occorsa pochi giorni dopo il festival) completano il quadro di una manifestazione che più che mai resiste ai cambiamenti politici e a quelli delle mode, forte di un radicamento sul territorio e di un rapporto col pubblico che, nella sua ultratrentennale storia, non sono mai venuti meno.
Recensione The Babadook
Recensione Eat Your Bones
Torino 2014: Il festival chiude con Dario Argento e il suo Profondo Rosso