Recensione The Wolf of Wall Street (2013)

Nel mettere in scena la vita di Jordan Belfort, amorale figura di gangster dell'alta finanza degli anni '80, Scorsese sceglie un tono lisergico e grottesco, in cui l'anarchia dei figli dei fiori è stata sostituita da quella dei nuovi tossici di Wall Street.

Jordan scatenato

Un oceano di squali famelici, insaziabili, guidati unicamente dagli istinti primari e dalla più sfrenata logica predatoria: questo il mondo dell'alta finanza, tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90, con il suo tempio a Wall Street. Sembra difficile, oggi, nel bel mezzo di una crisi che proprio dagli ambienti finanziari ha avuto origine, pensare che le basi per la situazione attuale, per la predominanza di un'economia di carta, retta sulle fragilissime fondamenta di una crescita solo virtuale, abbia avuto le sue origini proprio in quel periodo; in una deregolamentazione che favorì l'ascesa impetuosa di eroi improbabili, simboli degeneri di un'America in cui la logica del successo, sganciata da qualsiasi ancoraggio con l'etica del lavoro e del sacrificio, avrebbe trovato la sua espressione più pura. Tra le storie di questi emblemi di un'epoca, quella di Jordan Belfort è paradigmatica: origini umili, ingoiato e risputato in un giorno da Wall Street, inebriato dal contatto estatico col potere economico, protagonista di un'ascesa tumultuosa e inarrestabile: da un garage in periferia, e dalla vendita di penny stock (titoli a basso costo) a esponenti della classe media, alla scalata impetuosa al mondo della finanza, in un vortice sempre più incontrollato di guadagni, spericolate operazioni di brokeraggio (legali e - soprattutto - illegali), banconote a pioggia condite da dosi sempre più massicce di sesso, alcool, droghe e ogni genere di dipendenza. Una parabola conclusasi (o forse no) dietro le sbarre, come quella di ogni fuorilegge di successo. Raccontata in un libro autobiografico, e portata infine sullo schermo da un regista che, della fascinazione per il mondo criminale, ha fatto motivo fondante della sua carriera.

Quei bravi truffatori

Anche se l'idea di The Wolf of Wall Street è di Leonardo DiCaprio, sembra in effetti difficile pensare a un regista più adatto di Martin Scorsese per tradurre in immagini l'epopea affascinante e amorale di Jordan Belfort. E non è neanche un caso che lo script sia opera di quel Terence Winter fattosi notare con una serie dai temi affini, descrizione antropologica di una famiglia criminale, come I Soprano. Quest'anno, già David O. Russell, col suo American Hustle - L'apparenza inganna, aveva esplorato l'identità tra le imprese gangsteristiche, intima parte della narrazione americana, e le truffe finanziarie di fuorilegge moderni, che hanno il Far West dell'economia come terreno d'azione, coperti da un'identica aura epica. Ma Scorsese, qui, sposta l'asticella più in alto, restringe l'obiettivo dell'indagine a una singola, emblematica personalità, mettendone in scena, con toni da dark comedy, la parabola orgiastica e sovraeccitata. Il Belfort interpretato da DiCaprio non è un mafioso, eppure la sua vicenda rispecchia da vicino quella di icone scorsesiane quali l'Henry Hill/Ray Liotta di Quei bravi ragazzi, o l'Asso Rothstein interpretato da Robert De Niro in Casinò: personaggi affini l'uno all'altro, nella loro autodistruttiva e inarrestabile brama di potere. Le storie di questi uomini, emblemi di un'America corrotta, amorale e tuttavia inesauribile fonte di fascino, si somigliano: simile l'ascesa, simile la caduta, facile la morale (esterna) sottesa alle loro vicende.

Sex, Drugs and Penny Stocks

The Wolf of Wall Street: Leonardo DiCaprio dà il via alla festa
The Wolf of Wall Street: Leonardo DiCaprio dà il via alla festa

Se fosse tutto qui, tutto sommato, questa nuova prova scorsesiana non avrebbe grandi motivi di interesse: perlomeno, non più del già citato (e comunque notevole) American Hustle, o delle tante storie di ascesa e caduta di antieroi americani, che periodicamente passano sul grande schermo. A queste parabole siamo abituati, in qualche modo sono diventate parte del nostro bagaglio di spettatori: le riconosciamo e sappiamo assimilarle, le loro modalità di rappresentazione ci sono familiari e persino rassicuranti. Ma in The Wolf of Wall Street, invero, di rassicurante non c'è nulla. A partire dal suo tono: come già ricordato, il film di Scorsese è una commedia nera, un'epopea criminale in piena regola, in cui tuttavia a farla da padroni sono i registri grotteschi. Tutto è smisurato, eccessivo, oltre i limiti: a cominciare dalla durata, 180 minuti tranquillamente srotolati in faccia a uno spettatore che ormai, a tali metraggi, è abituato ad associare imprese di supereroi, o dilatatissime storie fantasy. Scorsese, invece, non ha paura a prendersi un tempo mostruoso come questo per un racconto biografico; utilizzandolo per infilarci dentro tutti i dettagli di una vita vissuta costantemente tra high e higher, in un caleidoscopio surriscaldato di giornate lavorative trasformate in happening orgiastici, nani scagliati contro improvvisati tiri a segno, droghe dall'effetto ritardato ed esilarante, discorsi motivazionali a metà tra quelli di un predicatore televisivo e un sergente dei marines, riti collettivi di appartenenza che sfociano in danze tribali. Il tutto all'insegna di una lisergica illusione di immortalità, mutuata direttamente dal decennio precedente a quello in cui il film è ambientato: dai seventies post-Woodstock, periodo vissuto a fondo dal regista, in cui l'uso di droghe aveva già perso l'innocenza che lo aveva caratterizzato in precedenza, agli edonistici eighties, alla dipendenza da bond e transazioni finanziarie, con l'ebbrezza dell'accumulazione smisurata di capitale. Dagli hippies agli yuppies, dall'anarchia dei figli dei fiori a quella dei nuovi tossici di Wall Street. Con lo stesso fare estremo, fuori controllo, intimamente votato all'autodistruzione.

Un mattatore, tanti (incomprimibili) comprimari

The Wolf of Wall Street: Leonardo DiCaprio conta i soldi
The Wolf of Wall Street: Leonardo DiCaprio conta i soldi

In tutto ciò, DiCaprio offre una delle migliori prove della sua carriera, in un istrionismo controllato che è perfettamente in linea con l'essenza del film: barocco e smisurato, apparentemente troppo nelle sue ambizioni, con la sensazione di essere sempre a un passo dal deragliare; in realtà, attentamente studiato, fin nei dettagli degli eccessi che mette in scena, con una sceneggiatura dalla perfetta tenuta, e un ritmo narrativo che sfida e vince le tre ore di durata. Non è comunque un one man show, quello offerto dal protagonista di Titanic, né una sequenza di assoli che consentano qualche mera intrusione alla spalla designata, un Jonah Hill dal volto tanto amabile quanto, nel fondo, inquietante. Il Mark Hannah di Matthew McConaughey, per fare solo un esempio, vero e proprio "sacerdote" che inizia il protagonista ai misteri del suo nuovo mondo, resterà a lungo nella testa degli spettatori; nella fattispecie, come uno dei più memorabili personaggi che abbiano occupato solo pochi minuti, in questo caso quelli iniziali, in un film. C'è spazio persino, nel ruolo del padre del protagonista, per un Rob Reiner che qualsiasi cinefilo dovrebbe essere felice di ritrovare (e accontentiamoci, per ora) davanti alla macchina da presa; e per un esilarante e irriconoscibile Jon Bernthal, delinquente dai modi spicci e dalla lealtà a prova di arresto. Per un'opera che nasce come biopic, e che resta informata tanto a fondo della personalità (e delle doti) del suo protagonista, il risultato "d'insieme" è senz'altro ragguardevole. Così com'è ragguardevole la capacità del suo regista, a oltre 70 anni, di proporre un cinema capace di rinnovarsi e adattarsi continuamente ai tempi; mantenendo sempre, alla sua base, quello sguardo penetrante su una società americana che pochi, come lui, dimostrano di conoscere.

Movieplayer.it

4.0/5