Possiamo ancora chiudere gli occhi sul mondo, se vogliamo, o, come abbiamo sempre fatto con gioia, riaprirli davanti al fascino di uno schermo cinematografico, dove (quasi) sempre gli eroi trionfano, tutti sono felici e nessuno soffre la fame e la paura. Ma il film finisce, i titoli scorrono e noi lasciamo la sala per ritrovare ciò che abbiamo lasciato oltre la soglia del cinema. È palese che l'ingiustizia sociale, il cambiamento climatico, il terrorismo, lo sfruttamento delle risorse, la sovrappopolazione, e altri fattori preoccupanti e inarrestabili stanno facendo del nostro mondo un posto sempre più precario e pericoloso. Ma vedere i frutti amari dell'odio nelle nostra città e nelle nostre case è uno shock di fronte al quale ci scopriamo impreparati. La conoscete tutti ormai la storia di Emmanuel Chidi Namdi, fuggito dall'orrore che gli aveva sterminato la famiglia in Nigeria per finire ucciso da un orrore diverso in Italia; il suo ultimo gesto, difendere la donna che amava da minacce e insulti razzisti; il suo destino finale, quello di essere utile ad altre vite grazie all'espianto degli organi.
Nel frattempo, oltreoceano, le forze dell'ordine statunitensi hanno ucciso 175 giovani afroamericani solo dal gennaio dello scorso anno, e, mentre il movimento Black Lives Matter porta avanti una protesta per lo più pacifica ma ferma, la tensione ha portato a numerosi episodi di violenza culminati con la strage di poliziotti a Dallas. A ciò si aggiunga il clima di sospetto e chiusura che serpeggia un po' ovunque, suggellato dallo sconfortante risultato del referendum sulla Brexit nel Regno Unito.
E, solo poche ore fa, la devastante strage di famiglie in festa a Nizza, sulla Promenade des Anglais. Un colpo durissimo che possiamo iniziare a elaborare soltanto ricordando le cose preziose da coltivare e proteggere da chi cerca solo la morte e l'annichilimento.
Ci illudiamo, mentre gli anni passano e ci trasformano in persone più disilluse che sagge, che la memoria sia l'antidoto agli errori dell'umanità. È certamente vero che imparare dal passato è fondamentale per anticipare e interpretare scenari futuri e futuribili; ma non bastano i libri di scuola, gli insegnamenti inerti, non bastano le testimonianze né l'arte per sè stessa se non c'è impegno personale, un percorso cosciente di ricerca interiore: per contrastare l'odio dobbiamo conoscere innanzitutto profondamente, intimamente, coraggiosamente noi stessi. Perché nessuno è immune al razzismo; al razzismo e ad altre forme di odio, intolleranza e oppressione, come il classismo, l'omofobia e la misoginia. Il pregiudizio e la paura, da cui nasce l'odio, fanno parte della natura umana e per iniziare a superarli, senza la prospettiva concreta di liberarcene nei pochi anni che ognuno di noi ha a disposizione, il passo fondamentale è la consapevolezza. Ogni percorso di consapevolezza è a sé ma per noi - e probabilmente per chi ci legge - il linguaggio cinematografico ha avuto un ruolo cruciale nel dispiegare verità, creare emozioni, convinzioni e legami empatici verso l'unica soluzione possibile: la solidarietà e il rispetto.
In un momento tanto difficile e angosciante, la certezza di avere, come tutti, una responsabilità in quanto persone e cittadini ci induce a raccontarvi, con umiltà e senza la pretesa di suscitare un risveglio di coscienze, qualcosa di questo nostro percorso. Abbiamo chiesto ai nostri redattori e collaboratori di ricordare i film - recenti e non - che hanno indotto in loro le riflessioni più incisive e profonde su questo tema. E siamo molto orgogliosi di ciò che è emerso.
12 anni schiavo: la dignità violata, la solidarietà calpestata
Uno dei titoli più citati dal gruppo è un'opera recente, e, nonostante i tentativi compiuti da più parti di liquidarlo come "il solito filmone da Oscar", se l'avete visto conoscerete le ragioni dell'impatto che ha avuto su di noi. Con 12 anni schiavo, il britannico Steve McQueen ci restituisce, con tutti i dettagli più dolorosi e una ricerca estetica che sublima le emozioni senza edulcorarle, un'esperienza umana che è alla base dello sviluppo della società americana attuale. Ci racconta la nostra Serena Catalano: "12 anni schiavo racconta di un mondo che non esiste più, ma quel tipo di violenza, quell'annullamento della dignità umana, quella distruzione psicologica del prossimo purtroppo ci circonda ancora oggi. E leggerne le conseguenze negli occhi di una Patsey che chiede il favore di poter morire così da terminare quella vita è tanto doloroso quanto importante. "
Leggi anche: Tutto d'un fiato! I migliori piani-sequenza cinematografici degli ultimi 25 anni
"In una straordinaria sequenza di tre minuti composta da poche inquadrature", rileva Luca Ottocento, "il protagonista viene lasciato appeso per il collo a una corda legata al tronco di un grande albero. Allo stremo fisicamente, cerca di salvarsi tenendo le punte dei piedi a contatto con il terreno. Il tutto nella totale indifferenza di diversi schiavi neri che si trovano nei paraggi, timorosi di eventuali ritorsioni dei proprietari terrieri. Oltre alla barbarie degli schiavisti mostrata in maniera molto cruda nel corso dell'intero film, in questa scena McQueen sottolinea con coraggio anche la mancanza di solidarietà tra schiavi."
Laurence Anyways: l'amore, l'identità, la libertà
Un altro titolo piuttosto recente, tra l'altro arrivato da pochissimo anche nelle nostre sale, ed opera di un fenomenale e giovanissimo regista che risponde al nome di Xavier Dolan, Laurence Anyways racconta il percorso di un uomo alla scoperta della propria identità di genere, e l'impatto di questa scoperta sulla sua vita e sul suo rapporto con la donna che ama. Ancora nelle parole di Serena: "Il terzo film di Xavier Dolan è una sinfonia di dolore, sgrammaticata e bisognosa, urlata al mondo senza regole e senza alcun freno: una vera e propria lirica del sentimento che racconta la riscoperta identitaria del suo protagonista, pronta a sconvolgere l'esistenza della sua compagna e di tutto ciò che lo circonda. Laurence Anyways racconta l'amore per gli altri ma soprattutto per se stessi, un amore che non chiede giustificazioni e che si presenta al prossimo senza limiti e pregiudizi. Perché sentirsi a proprio agio nel proprio corpo è un diritto di chiunque, e nonostante tutto dopo dieci anni di rotture, riconciliazioni, litigi, urla, lacrime, sorrisi, per i due protagonisti c'è solo l'amore che conta davvero, e la prima scintilla del loro incontro. E così, in una carezza, Xavier Dolan ci insegna che sia nei panni di un uomo che di una donna, Laurence è sempre Laurence. Anyways."
E aggiunge Elisabetta Bartucca: "Mai inno alla tollerenza fu più commovente. Un film per me immenso nel suo monumentale sforzo di sublimare la libertà, e nel raccontare quanto possa essere forte una vita vissuta nella più totale assenza di limiti. Amate follemente chiunque e in qualsiasi modo vogliate."
Amate follemente chiunque e in qualsiasi modo vogliate.
The Look of Silence: lo sguardo nell'abisso
A parlarci dello straordinario documentario dell 2014 di Joshua Oppenheimer, seconda parte di un'indagine condotta sulla dittatura in Indonesia negli anni '60 e sul massacro di oltre un milione di militanti comunisti, dopo l'altrettanto acclamato The Act of Killing - L'atto di uccidere, è il nostro Francesco Bruni: "The Look of Silence impone una riflessione e una forte denuncia etica, per tirar fuori lo sporco nascosto sotto il tappeto che squarci infine la tela, lo schermo, l'indignazione di un Paese quanto del mondo intero. Che ponga eterni interrogativi opposti e quasi sempre irrisolti: come è stato possibile arrivare a tutto ciò? Più che al 'collettivo', forse, la risposta risiede allora nelle profondità dell'animo umano. Capace a volte di atrocità che sconfinano nell'abisso meschino - e proprio per questo orripilante - della buona fede. Mentre vediamo i volti bui e i corpi martoriati di chi porta ancora con sé i segni di un grido di morte, un vortice di nuova consapevolezza ci spinge ad andare avanti e smetterla di far finta di nulla. Per una testimonia preziosa che nello sguardo filmico diviene il simbolo di un intero genocidio, silenzioso ma non per questo incapace di comunicare. All'Unanimità."
Leggi anche: Da Amy a The Look of Silence, come sta evolvendo il documentario?
Lontano dal paradiso e Carol: bellezza è verità, verità è bellezza
Uno dei registi più apprezzati degli ultimi anni per la sua capacità di assimilare, rielaborare e attualizzare modelli e generi cinematografici, Todd Haynes è anche un autore che ha saputo scandagliare i pregiudizi ed esaltare i sentimenti: per questo merita, secondo Serena, un posto d'onore nel nostro piccolo tributo: "Carol è una gioia per gli occhi e per il cuore; nonostante racconti di un amore quasi impossibile - quello tra Carol (Cate Blanchett) e Therese (Rooney Mara), due donne immerse nella cultura e il bigottismo degli anni 50 - Haynes viaggia nei loro sentimenti con una delicatezza che ha del surreale, e che accarezza ogni loro sentimento come se fosse preziosissimo. Attraverso il suo modo così particolare e morbido di avvolgere le sue protagoniste, Haynes ci dimostra che il loro amore non è sbagliato nel modo più giusto possibile: semplicemente raccontandolo, così com'è, in ogni sguardo e ogni sorriso. Perché una cosa così bella non può essere sbagliata."
Rosa Maiuccaro, invece, ci consiglia Lontano dal paradiso: "Se con Carol Todd Haynes ha dimostrato di essere uno dei registi contemporanei più devoti ai sentimenti e al romanticismo, il principale indizio del valore umano della sua opera è questa struggente storia d'amore tra una donna di famiglia bianca (la notevole Julianne Moore) e il suo giardiniere di colore ostacolata dal razzismo dell'America degli anni Cinquanta." E aggiunge Federica Aliano: "Nel tormento amoroso di Cathy Whitaker, nel suo piangere silenzioso, in camera sua, con un grido strozzato che nessuno sentirà mai, Todd Haynes racchiude tutto il razzismo della quotidianità. Quando improvvisamente ti accorgi che anche le "brave persone", persino la tua migliore amica è in realtà disgustosamente razzista."
Leggi anche: Carol e il cinema di Todd Haynes: fra avanguardia ed emozione, in cerca del paradiso
The Elephant Man: la ricchezza nella diversità
Passiamo a un'opera un po' più datata, ma immortale: The Elephant Man, tappa fondamentale del percorso cinematografico e umano di molti di noi. Ne scrive Stefano Lo Verme: "Il capolavoro di David Lynch è una delle più potenti rappresentazioni cinematografiche del valore della solidarietà umana e della nostra paura dello "sconosciuto" e del "diverso". E la parabola di John Merrick continua a rammentarci che, dove la maggior parte delle persone vedono un uomo-elefante, a volte basta guardare davvero per riconoscere invece la bellezza del Romeo di Shakespeare."
Leggi anche: I 70 anni di David Lynch: 10 personaggi indimenticabili fra Twin Peaks e Mulholland Drive
Aggiunge Valentina Ariete: "Il film di Lynch è un vero e proprio schiaffo all'ipocrisia: il protagonista John Merrick, nato deforme, viene accettato solamente quando si mette una maschera e si comporta da lord bene istruito. Nonostante cerchi disperatamente di integrarsi, nessuno lo vede per quello che è realmente, un essere umano come gli altri: in uno dei meccanismi più crudeli della società, il diverso può far parte del gruppo solo se è etichettato come tale e quindi tollerabile, perché non fa più interrogare chi lo guarda. Nel climax del film Merrick si ribella a questa spietata falsa accettazione, urlando: 'Io non sono un elefante! Io non sono un animale! Sono un essere umano!'."
Clint il "reazionario"
Una leggenda vivente, un regista che veneriamo; un itinerario artistico e umano semplicemente impareggiabile. Emblema, un tempo, di un'America violenta e chiusa su sé stessa, Clint Eastwood è diventato un cantore della fratellanza e della dignità umana. Luca Ottocento esalta in particolare Invictus: "In questo film la particolare vicenda della squadra sudafricana di rugby - su cui Nelson Mandela con lungimiranza scommise per ricucire le lacerazioni nel tessuto politico, economico e sociale di un paese appena uscito dall'apartheid - diviene un mirabile ed efficace racconto di formazione di un popolo. Nell'essenzialità della sequenza finale che narra la storica vittoria in finale della Coppa del Mondo degli Springboks, alternando ruvide immagini di gioco ad altre che mostrano diversi sudafricani mentre seguono la partita con eguale passione (per la prima volta sintonizzati su una stessa lunghezza d'onda emotiva), c'è tutto il cinema di Eastwood. Un cinema capace di emozionare nel profondo con poche, scarne pennellate: in questo caso, attraverso il ricorso a un semplice montaggio alternato. La storia di Mandela e del Sudafrica nel periodo che va dal 1990 al 1995 si fa così in Invictus toccante inno universale alla tolleranza e alla solidarietà."
Rosa Maiuccaro ci parla invece del toccante Gran Torino: "In tema di integrazione non c'è forse film più bello degli ultimi vent'anni. Il maestro Clint Eastwood si cala nei panni di un burbero reduce dalla guerra in Corea, ancorato nella propria solitudine e nel rancore. Solo l'incontro con un giovane asiatico, predestinato ad una vita d'inferno a causa delle proprie origini, potrà riaccendere in lui la volontà di amare." E Antonello Rodio: "Si può cambiare dai propri pregiudizi, inevitabile retaggio di certe culture e di alcuni ambienti? Sì, se lo sostiene anche un duro come Clint, che quella famiglia asiatica che ha come vicina la digerisce proprio poco in un quartiere sempre meno americano. Ma attraverso la reciproca conoscenza, l'approfondimento delle usanze altrui, arriverà la comprensione. I pregiudizi cadranno e il protagonista arriverà perfino al sacrificio totale pur di salvare gli innocenti."
Spike Lee: l'impegno militante
Protagonista assoluto di tante battaglie contro la discriminazione e il razzismo fuori e dentro Hollywood, Spike Lee non può mancare nella nostra selezione. Ci parla di lui la nostra Valentina D'Amico, prendendo in esame l'emblematico Jungle Fever: "L'amore non conosce colore della pelle? Il cinema di Spike Lee ha come scopo primario quello di rovesciare il dualismo che contrappone le vittime di pregiudizio afroamericane ai carnefici bianchi. Flipper ed Angie appartengono a due comunità che mal si digeriscono. Architetto di successo nero, sposato con figli lui, bianca, di origini italiane lei. L'unione dei loro corpi, frutto di una debolezza reciproca, scatena scintille nei rispettivi mondi, entrambi reciprocamente ostili e diffidenti. Ma la questione si fa più complessa quando il regista punta il dito sulla misoginia, comune a entrambi i gruppi, e sulla perversa visione degli italoamericani per cui l'unione tra uomo di colore e donna bianca è da biasimare, mentre quella tra italoamericano e donna di colore è accettabile. L'autoassolvimento della comunità dai propri peccati è la forma di autodifesa di un mondo in cui il razzismo serpeggia ovunque."
Rosa Maiuccaro rievoca invece l'impatto di Fa' la cosa giusta: "Negli anni Ottanta nessuno nel panorama cinematografico americano è riuscito a raccontare il fallimento dell'integrazione razziale come Spike Lee. Tra i film che realizzò tra il 1986 e la metà degli anni Novanta questo è quello che rimane più impresso per la violenza del linguaggio accompagnata dalle note di Fight the Power dei Public Enemy, che diventò una sorta di inno generazionale."
Philadelphia: tragico sogno d'amore e giustizia
Ci parla di questo film fondamentale, che vanta anche quella che probabilmente è la migliore interpretazione di Tom Hanks, Valentina D'Amico: "Nel 1993, quando Jonathan Demme mette mano alla sceneggiatura di Ron Nyswaner, attivista per i diritti LGBT, l'AIDS è al culmine così come i pregiudizi legati alla malattia. Serve un'opera coraggiosa come la sua a mostrare come un "morbo" che il perbenismo americano ritiene qualcosa di avulso dalla buona società colpisca non solo trans o ragazzi di strada, ma un professionista affermato nel proprio lavoro.
Leggi anche: AIDS: nastro rosso sul grande schermo
Un avvocato di successo, che ha nascosto la propria omosessualità per far carriera e che ha volto rassicurante di Tom Hanks. Se la malattia, l'omosessualità e la diversità fanno paura agli yuppies wasp americani, Demme scompiglia le carte in tavola dimostrando che non esiste un 'noi' e un 'loro', non esistono argini o barriere che proteggano dall'HIV, dall'amore o dall'amicizia. Simbolicamente Denzel Washington in un primo tempo rifiuta di rappresentare Hanks, in causa contro i suoi ex datori di lavori che lo hanno licenziato con una scusa, proprio perché teme di contrarre la malattia di cui sa poco o niente. La riscossa arriverà dall'unione di due vittime di pregiudizio (che sia per il colore della pelle o per i gusti sessuali) non esenti dalle stesse debolezze che accomunano tutti gli uomini."
Sottolinea poi Antonio Cuomo: "Il personaggio di Denzel Washington rappresenta tutti noi, da quell'istintivo ritrarre della mano dopo aver salutato il personaggio di Hanks fino alla comprensione che arriva nel modo più ovvio e spesso trascurato: con la conoscenza. Solo quella può sconfiggere l'ignoranza e la discriminazione."
Leggi anche: Buon compleanno Tom Hanks: i 10 ruoli simbolo
La parola ai giurati: il valore del dubbio
E torniamo ancora più indietro, al 1957, quando Sidney Lumet consegnò alla storia del cinema il suo straordinario esordio, La parola ai giurati; così ce ne parla Stefano Lo Verme: "Dietro l'apparenza da dramma giudiziario, il sensazionale esordio di Lumet è innanzitutto un'opera profondamente umanista: un'apologia sull'importanza della riflessione e del dialogo contro ogni forma di pregiudizio, nonché un'efficacissima replica a chi è sempre pronto a sfogare la propria rabbia puntando il dito verso il capro espiatorio di turno."
Il film di Lumet, un trascinante e tesissimo kammerspiel, indaga con intelligenza le radici del pregiudizio, tanto profonde in uomini "normali", cittadini rispettabili, ma umanamente confusi e "arrabbiati", come il personaggio interpretato da Lee J. Cobb, il più irriducibile dei colpevolisti, su cui aggiungiamo personalmente due righe: "C'è chi è subito conquistato al valore del dubbio e lo abbraccia nell'istante in cui lo incontra, ma c'è anche chi fatica immensamente a separarsi dalle proprie certezze; certezze che sono state l'unico punto fermo di un'intera vita. Così è proprio il giurato più ruvido e apparentemente insensibile, quello che ha il volto di Lee J. Cobb, a commuoverci più di ogni altro nell'ultimo monologo del film. La sua interpretazione è forse l'elemento più prezioso di una pellicola densa e memorabile dal primo all'ultimo fotogramma."
Il buio oltre la siepe: lo sguardo degli innocenti
Pochi anni dopo il film di Lumet, arriva nelle sale americane un altro grande film dedicato a una vicenda legale - l'ispirazione di Harper Lee, scrittrice del romanzo da cui è tratto il film, fu suo padre e la sua esperienza come avvocato nell'Alabama degli anni della Depressione - e a una storia splendida, edificante ed emozionante. Ci illustra Stefano: "Attraverso la purezza dello sguardo della piccola Scout, cresciuta nell'America razzista degli anni Trenta, il regista Robert Mulligan e la scrittrice Harper Lee ci parlano della necessità di conservare l'innocenza dell'infanzia, lo spirito di fraternità e il senso di giustizia, e di non accettare mai di restare in silenzio davanti all'odio e alle discriminazioni."
Leggi anche: I 100 anni di Gregory Peck: il fascino discreto del gentleman di Hollywood in 5 film
Indovina chi viene a cena?: la chiamata dell'uomo comune
Un altro classico, un film che ha un posto speciale nel cuore di chiunque ami il cinema americano, Indovina chi viene a cena? affronta a viso aperto il tema, ancora decisamente controverso, del matrimonio interraziale (la sentenza della Corte Costituzionale che rese nulle tutte le leggi che lo ostacolavano è proprio del 1967). Ce ne parla Federica Aliano: "Quando si tratta di razzismo, omofobia o altre discriminazioni, siamo tutti bravi a parole, ma che succede quando la cosa ti tocca in prima persona? E se tua figlia arrivasse un giorno con il suo fidanzato di altra etnia? L'ultimo film di Spencer Tracy è un'eredità preziosa, per comprendere quanto forti debbano essere l'impegno e l'autoanalisi di ciascuno di noi."
Il colore viola, Spielberg racconta l'odissea delle donne di colore
Tratto da un romanzo epistolare premio Pulitzer e candidato a 11 premi Oscar, Il colore viola, fu, ci racconta Antonio Cuomo, "accolto con sorpresa, perché è il primo film dichiaratamente impegnato di quello che sarà il regista di Schindler's List, ma pensiamoci un attimo: E.T. L'Extraterrestre non è forse la storia di una grande amicizia tra due esemplari di razze diverse?"
Anche Valentina Ariete ci parla del film di Steven Spielberg, come di "una summa di ingiustizia e intolleranza: la protagonista, Celia, è una donna, è di colore ed è anche povera e non di bell'aspetto, un mix che le porta sventura e odio, semplicemente perché è nata in questo modo e non perché faccia qualcosa di sbagliato o condannabile. Nonostante tutto, la sua voglia di vivere è più forte della natura matrigna e della ferocia del prossimo, tanto da farle dire, in una scena commovente e catartica: 'Io sono povera, sono negra, sono anche brutta... ma buon Dio, sono viva! Sono viva!'."
La civiltà si ferma a Fruitvale Station
Più che mai attuale in questi giorni drammatici, Fruitvale Station è il bellissimo esordio del regista black più promettente del momento, Ryan Coogler. Nelle parole di Rosa Maiuccaro: "Ispirata all'omicidio del giovane afroamericano Oscar Grant da parte di un agente delle forze dell'ordine, l'opera prima di Coogler (futuro regista di Creed - Nato per combattere) offre una grande occasione per riflettere su quanto ancora il razzismo sia radicato nella nostra società."
Leggi anche: Michael B. Jordan: nome da campione, talento da fuoriclasse
E chiosa Giuseppe Grossi: "Prima di essere nato per combattere, Michael B. Jordan è morto per niente. O forse un motivo c'è: è il razzismo, è l'odio insensato di due poliziotti che ammazzano un ragazzo all'alba di un nuovo, maledetto anno. Ryan Coogler si limita a raccontare i fatti, a riprendere (con la sua camera e i cellulari della gente) una vita normale e una fine assurda, stando tutto il tempo accanto ad Oscar Grant. Dalla mattina alla sera. Impariamo a conoscere un ragazzo che ha sbagliato, ma prova in tutti i modi a rimettersi in riga. Al supermercato, a casa con sua figlia, accanto a sua moglie. Prima di finire dentro una metro, lungo quel tunnel da cui non l'hanno fatto più uscire."
Strange Days: il futuro delle ragioni inconciliabili
Il film di di Kathryn Bigelow non è soltanto un bellissimo, ambiguo e affascinante film di fantascienza distopica, come ci racconta Luca Ottocento: "Ispirata dai giorni di rivolta avvenuti a Los Angeles nel 1992 dopo il pestaggio della polizia ai danni del tassista afroamericano Rodney King, Kathryn Bigelow in Strange Days volle fortemente inserire una linea narrativa legata agli aspri contrasti tra comunità bianca e nera, dando allo stesso tempo maggiore centralità al personaggio di Mace. Nella prima versione dello script firmato da James Cameron, più che sulla dimensione sociale e sulle dinamiche di gender, ci si concentrava infatti quasi esclusivamente sulla trama noir e fantascientifica. In molti nel 1996 criticarono il finale, che sembra risolvere tensioni e problematiche apparse fino a quel momento insanabili. In realtà però la tesa e suggestiva sequenza conclusiva, che termina con il bacio interrazziale di Ralph Fiennes e Angela Bassett tra la folla in festa per l'arrivo del nuovo millennio, rappresenta la speranza di un mondo migliore caratterizzato da giustizia, integrazione e un ritorno alla condivisione dei sentimenti."
Leggi anche: Distopie e proiezioni di un futuro che fa paura
E ora dove andiamo?, la via femminile per la pace
Ci porta nella polveriera mediorientale per parlare con leggerezza e ironia, ma anche intelligenza e coraggio, di conflitti insanabili il bel film di Nadine Labaki ambientato in un villaggio libanese che vede la convivenza (precaria) tra cristiani e musulmani. Ci racconta il nostro direttore editoriale Luca Liguori: "In un momento storico in cui il mondo sembra spezzato in due tra occidente e oriente, tra posizioni apparentemente inconciliabiali, tra fanatismo religioso e laicità, un film come quello della Labaki con la sua ironia, con la sua leggerezza, con la sua joie de vivre serve davvero a ricordarci l'assurdità di conflitti pronti ad esplodere in qualsiasi momento ma che in realtà si basano su aspetti che, nel grande schema delle cose, in fondo non sono altro che sciocchezze. Ed è una bellissima e felice provocazione quella di affidare proprio alle donne un ruolo fondamentale per la riuscita di una convivenza pacifica e armonica e di far notare come possano essere proprio i media, l'informazione spesso distorta e superficiale, a minare la possibilità e la speranza di tutti noi. Ed il finale splendido ma amarissimo ci ricorda l'unica cosa che conta, ovvero che una volta morti e sepolti siamo tutti uguali. Ce lo dice la Labaki con il suo divertentissimo e coloratissimo musical che ha vinto il premio del pubblico a Toronto, ce lo diceva anche il Principe della Risata Totò con la sua poesia 'A livella. Che sia forse vero?."
Paradise Now: umani fino alla fine
Tra i pochi a rivolgere lo sguardo, non per giustificare ma per indagare il punto di vista di chi abbraccia l'odio, di chi si immola per quella che vede come l'unica causa giusta, c'è il regista palestinese Hany Abu-Assad, in particolare con il suo Paradise Now, candidato all'Oscar come miglior film straniero nel 2006. Ce ne parla Stefano Lo Verme: "In un'epoca in cui l'ascesa del terrorismo, oltre ad essere costata la vita di migliaia di persone ed aver incrinato le nostre sicurezze quotidiane, contribuisce ad acuire un clima sempre più diffuso di sospetto e di odio, il film di Hany Abu-Assad lancia allo spettatore una scommessa tutt'altro che semplice: mostrare l'essere umano che si cela dietro l'assassino, raccontando il fenomeno dell'integralismo da un punto di vista 'interno' e spiazzante."
Babel: siamo interdipendenti
Senza capirci, ci parliamo. Ignorandoci, abbiamo bisogno gli uni degli altri. Fare del male agli altri è fare del male a noi. Questo racconta, stordente, illuminante, il film di Alejandro González Iñárritu. Elisabetta ci dice: "Uscii da quella visione fermamente convinta di quanto ogni nostro gesto sia destinato a influenzare la vita degli altri, vicini o lontani che siano. La responsabilità è prima di tutto del singolo, e per sopravvivere alla babele linguistica e sociale nella quale viviamo non si può fare altro che guardare oltre i pregiudizi e soppesare ogni nostra piccola mossa. Non ce ne accorgiamo, ma siamo interdipendenti."
E aggiunge Erika Sciamanna: "Il film di Iñárritu, nel raccontare le vicende geograficamente distanti dei personaggi, non pone al centro solo il tema, richiamato nel titolo, dell'incomunicabilità, ma traccia un punto di riflessione su come il senso di diversità si annulli al cospetto del dolore e delle emozioni umane. I personaggi sono collegati tra loro da un filo di sofferenza, mostrando allo spettatore che i concetti di ricco, povero, udente, non udente, occidentale, orientale... non ci rendono immuni da dolore e disperazione conseguenti ad una grave perdita. Le diversità, spesso, sono nelle menti di chi vuole vederle, si insinuano nel quotidiano e vengono imposte più che provate, come sembra ribadire un finale che dividerà sei vite e quattro vicende in due diversissimi esiti."
Miracolo a Le Havre: il sodalizio tra gli umili
Una deliziosa favola moderna, il film di Aki Kaurismäki ritrae Le Havre come una sorta di "paradiso dei poveri" e racconta l'incontro tra un giovanissimo immigrato clandestino e un adorabile lustrascarpe. Ce ne parla ancora Serena: "Forse uno dei film più umani e delicati sulla diversità, la pellicola di Aki Kaurismäki è un vero e proprio miracolo di candida umanità, che racconta di uno dei sentimenti più primordiali eppure difficili da ritrovare al giorno d'oggi: l'empatia verso un altro essere umano di qualsiasi età, genere o razza. La favola di Marcel Marx, che da scrittore diventa un maltrattato lustrascarpe e che nella sua miseria trova comunque la forza di aiutare un ragazzino africano immigrato è una grandissima lezione per ognuno di noi, e dimostra con spontanea semplicità come due mondi così opposti e apparentemente incompatibili possano avvicinarsi fino a diventare inseparabili."
Philomena, l'amore sopra ogni cosa
Una coppia meravigliosa e improbabile, costituita da Steve Coogan e Dame Judi Dench, anima la commovente storia che racconta la purezza dell'amore di fronte alla più crudele delle ingiustizie, come ci racconta Fabio Fusco: "A stemperare la rabbia che si prova per i diritti che sono stati negati a Philomena, una signora ormai anziana che si mette alla ricerca di un figlio che era stata costretta a dare in adozione, nel periodo in cui era ospite di un convento di suore, c'è la dolcezza e la tenacia della protagonista. Judi Dench è straordinaria nei panni di una madre che neanche per un istante perde la speranza di trovare un figlio ormai adulto, e di abbracciarlo, anche quando scopre che era omosessuale e gravemente malato, anzi in una delle scene più ironiche del film di Stephen Frears dice che in fondo lo aveva sempre saputo. Tanti adolescenti gay, ancora oggi, nell'illuminato Occidente, non hanno la fortuna di crescere in un ambiente sereno e vengono cacciati di casa per ritrovarsi, nel migliore dei casi, in una casa d'accoglienza. E poi ci sono persone come Philomena, a cui viene negato il diritto di essere madre. In entrambi i casi si nega l'amore e la possibilità di costruire una società solida, serena e civile."
Pride: oppressi e solidali
Uno dei film britannici più apprezzati degli ultimi anni, Pride di Matthew Warchus rievoca la bizzarra alleanza che legò, alla metà degli anni '80, le organizzazioni londinesi di gay e lesbiche ai minatori che protestavano contro le regolamentazioni promulgate dal governo di Margaret Thatcher: un'occasione per trattare anche delle difficoltà dei giovani nel fare coming out in famiglia, dell'esplosione dell'AIDS e della violenza omofobica. Ci racconta Rosa: "Le unioni civili sono state riconosciute ma c'è ancora chi si ostina a giudicare e a reagire con violenza a chi sceglie di amare una persona dello stesso sesso. Tra i tanti film a loro dedicati (da Philadelphia a Milk, da La vita di Adele a Freeheld - Amore, giustizia, uguaglianza) di recente ci ha commosso fino alle lacrime questa bellissima storia di solidarietà tra la comunità di gay e lesbiche e una piccola comunità di minatori. Ideale per chi ha voglia di ridere ed emozionarsi."
Leggi anche: L'omosessualità nel cinema inglese in 12 film cult
L'odio e La classe - Entre les murs: la rabbia dei giovani e dei reietti della banlieue
Secondo film per Mathieu Kassovitz, che firma anche la sceneggiatura, L'odio fu premiato al festival di Cannes ma ebbe un'accoglienza controversa per il modo scoperto in cui ritrae la brutalità della polizia; noi ricordiamo il vigore e l'empatia con cui dà voce ai suoi giovani protagonisti. Nelle parole di Rosa: "In seguito agli attentati di Parigi non c'è stato giorno in cui i giornalisti non facessero riferimento al fantastico film di Mathieu Kassovitz. Oltre a descrivere il degrado delle banlieue, le vite degli emarginati, delle oppressi (con un grande omaggio alla New Hollywood) questo cult è in grado di spiegare più di ogni altro come nascono le radici dell'odio. L'ideale prequel de Il profeta di Jacques Audiard."
Ma Rosa ci parla anche di un altro film francese più recente, il bellissimo La classe di Laurent Cantet Palma d'oro nel 2008: "Se avete voglia di mettere in gioco le vostre convinzioni vale la pena confrontarsi con l'intelligente film di Cantet che filma le turbolente lezioni di un professore in una scuola media della Francia di Sarkozy. In questo incantevole ritratto corale il regista francese ragiona sulle difficoltà di integrazione tra ragazzi di origine straniera con sensibilità e rigore."
Quasi amici: diversi si attraggono
Un altro film francese, molto diverso nei toni da quelli di cui abbiamo parlato poco sopra, e un'incredibile successo di pubblico; a parlarci di Quasi amici è Fabio Fusco: "Un disabile ricco e bianco e la sua amicizia con un ragazzo di colore appena uscito di galera. Solo una favola buonista che ha incassato tanti soldi al boxoffice? No, una storia realmente accaduta che dimostra che si può essere amici pur essendo diversi dalla testa ai piedi, e che la diversità può essere una risorsa oltre che una possibilità di fuga da un mondo che ci vorrebbe incasellati in stereotipi troppo stretti e rigidi ai quali ci troviamo costretti nostro malgrado ad aderire, per non scomparire del tutto agli occhi della società. Alla fine si tratta di una commedia, ma seguire l'evolversi di questa improbabile amicizia e di come riesca a dare nuove possibilità a due vite senza grandi prospettive scalda il cuore e diverte."
Brokeback Mountain e Crash: il contatto è possibile
Infine, un po' a emblema dello spirito di questo articolo, vogliamo mettere insieme due "nemici" - se ne parla infatti come due film rivali nella corsa all'Oscar nel 2006, quando Crash vinse a sorpresa mentre Ang Lee fu premiato con la statuetta per la migliore regia per I segreti di Brokeback Mountain. In realtà, forse, hanno più elementi in comune di quanto non sembri. Se non altro, la bellezza delle parole che gli dedicano i nostri Giuseppe Grossi ed Elisabetta Bartucca:
Dice Giuseppe su Brokeback Mountain: "Ruscelli, vallate, quiete e pace ovunque: il silenzioso e incontaminato Wyoming tace, ma intanto c'è una Natura che urla a squarciagola. Ennis e Jack possono essere loro soltanto lì, possono amarsi soltanto lontani da tutto e da tutti. Ennis taciturno e ispido, Jack dolce e accogliente. Sono loro i due amanti tanto diversi, costretti a travestirsi da duri cowboy a cui Ang Lee dedica la sua dolorosa ballata d'amore, piena di rinunce, di vuoti riempiti dal ricordo e di baci rubati. Da una parte c'è la chitarra di Gustavo Santaolalla che vale come una carezza, dall'altra i calci, i pugni, il suono dell'odio. A noi e ad Ennis resta la camicia di Jack, da abbracciare con tutto l'amore possibile."
Leggi anche: I 10 anni di Brokeback Mountain: la Top 10 delle più belle love story gay del decennio
Elisabetta invece su Crash ci ricorda le parole di Graham Waters, interpretato nel film di Paul Haggis da Don Cheadle:
In una città vera si cammina. Sfiori gli altri passanti, sbatti contro la gente... qui a Los Angeles non c'è contatto fisico con nessuno, stiamo tutti dietro vetro e metallo. Il contatto ci manca talmente che ci scontriamo contro gli altri solo per sentirne la presenza
E scrive: "Epifanico. È stato come guardare il mondo allo specchio, le sue crepe, le sue distanze incolmabili, i suoi cortocircuiti, le sue fobie secolari. L'odio genera odio, i muri alzano altri muri, solo il contatto può restituirci la dimensione di un umano sentire."
E le serie TV?
Per quanto riguarda la narrazione seriale in TV, oltre a trovarci di fronte a una produzione sterminata, abbiamo a che fare con show che difficilmente hanno soltanto una linea narrativa o un unico tema centrale (con l'eccezione recente di due serie ottimamente realizzate che hanno particolarmente a cuore il tema delle tensioni razziali, American Crime e American Crime Story): per questo è più difficile individuare momenti ed episodi che hanno avuto un particolare effetto su di noi da questo punto di vista.
Si può guardare certamente in questa prospettiva al lavoro sul piccolo schermo di Ryan Murphy, e infatti ce ne parla Antonio Cuomo: "Il tema dell'accettazione è centrale anche nell'opera televisiva che porta la firma di Ryan Murphy, sin dai tempi di Popular, indirettamente anche in Nip/Tuck, per trovare sublimazione definitiva in Glee, rivalsa dei losers attraverso l'unica arma in loro possesso, il canto, e la successiva The New Normal, che racconta di una coppia omosessuale che decide di avere un figlio usando una madre surrogata. Il diverso, in ogni sua accezione, è centrale nelle tematiche di Murphy, anche nella sua creazione più di genere, quell'American Horror Story che con la sua quarta stagione, dall'inequivocabile titolo di Freak Show.
Federica cita invece un episodio di Saranno famosi: "Seconda stagione, episodio 6, I primi passi; l'insegnante di danza classica è accusata di razzismo poiché una bravissima ballerina di colore viene incoraggiata a lasciare la classe e a darsi alla danza moderna. L'episodio svela il razzismo nei luoghi comuni. Alla battuta 'Sono bianca, adulta e vaccinata', Lydia Grant esplode carica di disgusto: 'Non è un modo di dire, è un modo di pensare!'. Una frase che dovrebbe farci riflettere tutti."
È uno degli show più diversificati, originali e apprezzati del momento, e alla sua quarta stagione non accenna a perdere di rilevanza; è Rosa che ci parla di Orange Is the New Black: "In particolare, il penultimo episodio della quarta stagione (interamente disponibile su Netflix) rappresenta uno dei momenti più memorabili della storia televisiva recente. Il pathos e la commozione che ne derivano si aggravano se vissuti in relazione alle morti di Michael Brown a Ferguson, di Eric Garner a New York, dei centinaia di giovani afroamericani uccisi accidentalmente dalla polizia o nelle carceri."
Leggi anche: Dalla carta al piccolo schermo: quando le serie TV nascono dalle pagine di un libro
Per chiudere, vogliamo lasciare la parola di nuovo a Luca Liguori, che ci parla di uno show indimenticabile che ha un posto speciale nel nostro cuore e nella storia del piccolo schermo: "Se il Presidente Bartlet nato dalla geniale mente di Aaron Sorkin è a detta di tutti, perfino i detrattori, il miglior presidente possibile il motivo è uno soltanto: perché riesce ad essere il presidente di tutti, perché riesce ad andare oltre le proprie credenze, oltre i propri valori e la propria testardaggine per il bene della gente e per il bene del suo paese. Ed è per questo che in West Wing ci sono alcuni dei momenti più belli ed emozionanti che la storia dello schermo (piccolo e grande) ricordi, perché ai dialoghi meravigliosi di Sorkin si unisce la volontà di guardare sempre oltre il personale ma verso l'universale.
Ed è così che cattolici o islamici, repubblicani o democratici, bianchi e neri, uomini e donne, eterosessuali ed omosessuali, non sono altro che cittadini per cui mettersi al servizio, e nulla di più. E non è quindi un caso che nel 2001, a pochi giorni dall'11 settembre, mentre tutti gli altri show dei network americani sospendevano la propria programmazione per rispetto o per paura di apparire indelicati, Aaron Sorkin con il suo West Wing scriveva dal nulla un episodio speciale intitolato Isacco e Ismaele in cui i personaggi dello show parlano di intolleranza, di terrorismo e di differenze culturali e religiose senza retorica, ma anzi mostrando tutta la fragilità di chiunque di noi; che siano spettatori, autori o coloro che governano. Perché è evidente che i primi passi, i più importanti, verso un futuro migliore, più tollerante, più aperto e più rispettoso devono partire comunque da chi ha il potere. West Wing ci racconta di personaggi che questo potere lo hanno e molto spesso lo usano per porsi delle domande, spesso difficile e senza risposta. E sono le stesse domande che dovremmo porci tutti noi, più spesso."
Leggi anche: West Wing: 10 motivi che ne fanno (ancora oggi) la migliore serie network di sempre