Da decenni, ormai, la definizione di "film da Oscar" è diventata quasi una categoria a sé stante all'interno dei generi cinematografici. I cosiddetti Oscar Bait (le "esche da Oscar") od Oscar hopeful sono infatti pellicole immediatamente riconoscibili: che si tratti della trasposizione di un importante soggetto letterario o teatrale, di un kolossal dal retrogusto epico o di un dramma edificante che celebra i valori alla base della cultura americana, gli Oscar Bait sono quelle produzioni in cui la caratura dei talenti coinvolti, la presenza di attori di comprovate capacità e il carattere da "film serio" costituiscono ingredienti chiave per una presenza di rilievo all'interno della relativa Awards Season... spesso e volentieri, anche a scapito di titoli ben più apprezzati dalla critica.
E non a caso, a tal proposito, i principali distributori con ambizioni da premio aspettano la fine dell'anno per lanciare sul mercato i suddetti "film da Oscar", creando l'ormai nota 'congestione' di drammi rivolti in prevalenza ad un pubblico più adulto e raffinato: pellicole la cui uscita viene spalmata nell'arco di una manciata di settimane, per sfruttare quanto più possibile la visibilità offerta dalla Awards Season e magari pure per avere maggior presa sui giurati. Basti pensare, solo quest'anno, a tipici "film da Oscar" in corsa per il premio principale, quali Revenant - Redivivo (il kolossal dalle impressionanti qualità tecniche), Il caso Spotlight e La grande scommessa (edificanti pellicole di denuncia con tematiche di 'peso' legate all'attualità), Il ponte delle spie (il dramma storico) e Brooklyn (il melodramma di origine letteraria), ma osservando le altre categorie anche le storie biografiche (Steve Jobs, L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo, Joy) e i sofisticati melodrammi in costume (Carol, The Danish Girl).
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L'Academy fra tradizione e innovazione
Ovviamente, la maggior parte di questi titoli meritano appieno, in virtù delle loro qualità artistiche, il successo riscosso nella Awards Season. Talvolta, però, l'Academy - o quantomeno una parte di essa - ama pure sparigliare le carte e contraddire la diffusa nozione di "film da Oscar" con delle scelte impreviste: vale a dire, candidare (o premiare) pellicole che, per un motivo o per l'altro, non sono percepite come i canonici titoli in odore di premio. E quest'anno, la testimonianza di come perfino la conservatrice Academy si conceda delle piacevoli 'trasgressioni' risiede in un'opera quale Mad Max: Fury Road: qualche mese fa, nessuno avrebbe scommesso che questo action movie post-apocalittico dal gusto postmoderno potesse ritrovarsi in prima fila per gli Oscar principali, e invece il blockbuster di George Miller, forte di un consenso trasversale, ha incassato ben dieci nomination, tra cui miglior film e regia. Talvolta, insomma, gli Oscar riescono a sorprenderci con decisioni anticonvenzionali, che contribuiscono ad abbattere i pregiudizi relativi a un genere filmico o addirittura a contrastare dei tabù di tipo sociale e culturale; e in questa Oscar Week, vogliamo celebrare appunto dieci premi 'rivoluzionari' nella storia dell'Academy, ciascuno a modo suo...
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PS: in questo elenco, strutturato per ordine cronologico, non abbiamo inserito alcun premio come miglior film straniero. Per quale motivo? Perché la statuetta al film in lingua straniera è stata fin dalle sue origini, ed è tuttora, l'Oscar più innovativo, progressista e 'anarchico' di tutte le categorie: dai classici del neorealismo di Roberto Rossellini e di Vittorio De Sica nelle primissime edizioni alle avventure dei samurai di Akira Kurosawa, passando per le bizzarrie oniriche di Federico Fellini, la densità psicologica di Ingmar Bergman e il surrealismo grottesco di Luis Buñuel, per arrivare allo struggente rigore di Michael Haneke, nel campo dei film stranieri l'Academy ha (quasi) sempre mostrato una profonda sensibilità e un'enorme apertura nei confronti di linguaggi, stili e approcci culturali di ogni tipo e provenienza...
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1939: gli #OscarsNotSoWhite nell'anno di Via col vento
Il 1939 è l'anno in cui il mondo del cinema assistette a un avvenimento di dimensioni epocali che risponde al nome di Via col vento: il gigantesco kolossal di Victor Fleming, tratto dal romanzo di Margaret Mitchell e ambientato nel Sud degli Stati Uniti durante la Guerra di Secessione, raggiunse livelli di popolarità ancora oggi insuperati, e la sua innegabile importanza dal punto di vista dell'arte cinematografica e del costume fu suggellata dalla vittoria di otto premi Oscar, a cui si aggiunsero due statuette speciali. Ma oltre ai premi per miglior film e regia e per la protagonista Vivien Leigh, Via col vento fece guadagnare a Hattie McDaniel l'Oscar come miglior attrice supporter per il ruolo di Mammy, la volitiva cameriera di Rossella O'Hara: si trattò del primo Oscar in assoluto conquistato da un interprete (uomo o donna) afroamericano.
Benché alle prese con un personaggio per molti aspetti stereotipato, la McDaniel incantò i membri dell'Academy e pronunciò un discorso di ringraziamento carico di commozione, in cui espresse anche la speranza di poter essere motivo d'orgoglio per la propria 'razza'. Ma affinché un interprete di colore si imponesse fra i protagonisti bisognerà attendere il 1963, con la vittoria di Sidney Poitier per I gigli del campo, mentre la prima attrice nera premiata come protagonista sarà Halle Berry nel 2001 per Monster's Ball - L'ombra della vita.
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1961: l'Academy dice "sì" all'italiana Sophia Loren
All'edizione degli Academy Award del 1961, l'Oscar come miglior attrice fu assegnato alla ventisettenne Sophia Loren, nome d'arte di Sofia Scicolone, per la sua intensa interpretazione di Cesira, giovane vedova che si prende cura della figlia adolescente Rosetta durante la Seconda Guerra Mondiale, ne La ciociara, trasposizione di Vittorio De Sica dell'omonimo romanzo di Alberto Moravia. Per la Loren, già eletta miglior attrice al Festival di Cannes 1961, l'Oscar rappresentò una vittoria clamorosa: per la prima volta, infatti, l'Academy ricompensava un'interpretazione in lingua non inglese (nel 1955 un'altra italiana, Anna Magnani, aveva ricevuto al statuetta come miglior attrice ma per un film in inglese, La rosa tatuata). L'Oscar a Sophia Loren, che per l'ansia non partecipò neppure alla cerimonia, segnò una storica apertura dell'Academy alle produzioni straniere, benché i casi di attori premiati per lingue diverse dall'inglese siano rimasti rarissimi: dopo la Loren toccherà solo a Roberto Benigni nel 1998 per La vita è bella e alla francese Marion Cotillard nel 2007 per La vie en rose. A dire il vero altri quattro attori (Robert De Niro, Benicio Del Toro, Penélope Cruz e Christoph Waltz) sono stati ricompensati per performance in lingua non inglese, ma comunque in produzioni anglo-americane.
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1969: l'Oscar "vietato ai minori" di Un uomo da marciapiede
Sul finire degli anni Sessanta, all'interno del cinema americano le cose stavano cambiando drasticamente: fra le mega-produzioni si facevano sempre più spazio film di rottura rispetto alle convenzioni dell'epoca, con titoli come Gangster Story e Il laureato, mentre le logiche dei grandi studios venivano incrinate dalle infiltrazioni della cosiddetta "politica degli autori" proveniente dall'Europa. L'America, insomma, si preparava all'avvento della New Hollywood. E nella cinquina per l'Oscar come miglior film del 1969, a riportare una vittoria tutt'altro che scontata fino a poco tempo prima fu Un uomo da marciapiede, dramma diretto dall'inglese John Schlesinger sull'insolita amicizia fra un giovane e aitante gigolò texano, Joe Buck (Jon Voight), e il subdolo truffatore newyorkese Enrico Rizzo (Dustin Hoffman). Molto discusso all'epoca per le sequenze di nudo e di sesso esplicito e per un argomento scabroso come la prostituzione maschile, raccontata con vivido realismo, Un uomo da marciapiede è diventato una pietra miliare della New Hollywood, riscuotendo un vastissimo successo di critica e di pubblico e vincendo tre Oscar (miglior film, regia e sceneggiatura): un sorprendente "nuovo corso" per quell'Academy che, nelle edizioni precedenti, aveva premiato opere ben più convenzionali. La pellicola di Schlesinger, inoltre, rimane tutt'oggi l'unico titolo vietato ai minori (la famigerata X del visto censura) ad aver ottenuto l'Oscar più importante.
1977: Io e Annie e il trionfo di Woody
Da quasi quarant'anni, ormai, Woody Allen è un indiscusso beniamino dell'Academy, con un totale da capogiro di ventiquattro nomination e quattro statuette nella sua bacheca. Fino al 1977, tuttavia, Allen era conosciuto soltanto come il comico che aveva diretto e/o interpretato esilaranti parodie quali Il dormiglione e Amore e guerra; e il genere demenziale, si sa, non è stato quasi mai preso in seria considerazione in termini di premi. Il successo di Io e Annie, intramontabile capolavoro di ironia e romanticismo, sancì pertanto una svolta non solo nella produzione di Woody, con una rinnovata maturità registica, ma anche per Hollywood, pronta a incoronare come miglior film dell'anno una commedia (un caso già di per sé ben poco frequente), ma soprattutto un'opera geniale e inclassificabile, capace di riscrivere il linguaggio della comicità e di apportare innovazioni fondamentali ai concetti di narrazione e di messa in scena. Io e Annie ricevette in tutto quattro premi Oscar per miglior film, regia, sceneggiatura e attrice protagonista alla deliziosa Diane Keaton: un trionfo che rimarcò il ruolo di Allen come vero e proprio 'autore', e che testimoniò l'intelligenza dell'Academy nell'incensare una pellicola fuori dagli schemi e di un'originalità in grado di lasciare ammirati, ieri come oggi.
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1985: l'omosessualità approda sul palco degli Oscar
È impressionante pensare che, per ben cinquantasette anni, l'Academy non abbia mai avuto occasione (o, più maliziosamente, volontà) di premiare alcun interprete per un ruolo esplicitamente gay, bisessuale o transgender. L'omosessualità, del resto, è rimasta un tabù a Hollywood almeno fino agli anni Sessanta, e da allora lo spazio concesso alle storie a sfondo LGBT al cinema è andato aumentando con discreta lentezza: fra i primi e più celebri ruoli gay candidati all'Oscar ricordiamo Peter Finch in Domenica maledetta domenica (1971), Al Pacino e Chris Sarandon in Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975), Robert Preston in Victor Victoria (1982), Tom Courtenay ne Il servo di scena (1983) e Cher in Silkwood (1983). Fu soltanto nel 1985, però, che un attore ottenne l'Oscar grazie a un personaggio omosessuale: William Hurt per la parte di Luis Molina, rinchiuso in carcere durante la dittatura in Brasile insieme al dissidente politico Valentin Arregui (Raul Julia), ne Il bacio della donna ragno di Hector Babenco, dal romanzo di Manuel Puig. L'eccellente performance di Hurt, premiato come miglior attore, avrebbe dato il La a un numero sempre crescente di ruoli gay nel cinema americano; ciò nonostante, ancora nessuna pellicola con un protagonista omosessuale ha vinto l'Oscar come miglior film (e l'omissione de I segreti di Brokeback Mountain, nel 2005, resta fra i più imbarazzanti passi falsi nella storia dell'Academy).
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1991: l'Oscar a tinte horror di Hannibal Lecter
Quando il regista Jonathan Demme venne ingaggiato per dirigere la trasposizione del best seller di Thomas Harris Il silenzio degli innocenti, pochi o nessuno avrebbero immaginato che un thriller incentrato su una caccia a un assassino seriale, e in cui uno dei personaggi principali era un cannibale psicopatico, avrebbe finito per fare incetta di premi in tutto il mondo. Eppure, per merito di una formidabile capacità di messa in scena e dell'estrema intelligenza di Demme nel riproporre la materia pulp del libro di Harris sul grande schermo, Il silenzio degli innocenti si rivelò da subito un capolavoro da antologia del cinema. E neppure l'Academy poté rimanere indifferente allo straordinario impatto della pellicola di Demme sull'immaginario collettivo, ricompensando Il silenzio degli innocenti con i cinque premi Oscar più prestigiosi: miglior film, regia, sceneggiatura, attore protagonista per Anthony Hopkins e attrice protagonista per Jodie Foster. Una scelta decisamente felice, e tutt'altro che scontata se pensiamo che l'Academy non ha mai mostrato troppo interesse verso il cosiddetto "cinema di genere": prima del cult di Demme, le sole altre pellicole ascrivibili all'horror candidate come miglior film erano state infatti L'esorcista (1973) e Lo squalo (1975).
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2003: undici Oscar nella Terra di Mezzo
Sempre a proposito della refrattarietà dell'Academy per i film di genere, una delle categorie troppo spesso relegate nell'ambito del semplice "cinema di intrattenimento" e considerate di scarso spessore artistico è senz'altro il fantasy. Impostosi nel mondo della celluloide soprattutto a partire dagli anni Ottanta (epoca di grande evoluzione degli effetti speciali), e in maniera piuttosto graduale, il fantasy ha ricevuto però un'improvvisa consacrazione critica - e una rinnovata fortuna commerciale - all'alba del nuovo millennio, in virtù del successo planetario e travolgente della neonata saga di Harry Potter e, ancor di più, per l'apprezzatissima trilogia diretta da Peter Jackson a partire dal capolavoro letterario di J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli.
Le avventure dello hobbit Frodo Baggins, del prode Aragorn, del saggio stregone Gandalf e dei loro compagni nella Terra di Mezzo e la lotta contro l'Oscuro Signore Sauron hanno generato un autentico fenomeno di massa, oltre ad aver rappresentato una pietra angolare per il cinema degli anni Duemila, e l'Academy non si è fatta pregare nel riconoscere i meriti dei tre spettacolari kolossal tolkeniani: nel 2001 il primo capitolo della saga, La compagnia dell'Anello, ha incassato quattro Oscar su tredici nomination (facendosi superare però nelle categorie principali da A Beautiful Mind), mentre l'anno seguente Le due torri si è aggiudicato due Oscar su sei nomination. Ma per Peter Jackson e il suo team, l'apoteosi presso l'Academy è arrivata nel 2003, quando l'episodio conclusivo della trilogia, Il ritorno del Re, ha registrato uno strepitoso en plein: undici premi Oscar su undici nomination, tra cui miglior film, regia e sceneggiatura, ovvero il maggior numero di statuette mai attribuite ad un singolo film (un record detenuto ex aequo con Ben Hur di William Wyler e Titanic di James Cameron). Il ritorno del Re è tutt'oggi l'unico fantasy incoronato come miglior film agli Oscar: un onore che, finora, non è mai stato conseguito invece da alcuna pellicola di fantascienza, altro genere assai sottovalutato dai membri dell'Academy.
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2008: Batman, il Joker e la riscossa del cinecomic
Se categorie quali l'horror, il fantasy e la fantascienza sono sempre state guardate con sospetto (o cordialmente ignorate) da parte dell'Academy, lo stesso discorso risulta ancor più valido per il genere che, per eccellenza, sintetizza nei propri caratteri distintivi il concetto di cinema disimpegnato e d'intrattenimento: il cinecomic. Filone esploso a partire dal 1978 grazie alla saga di Superman, il cinecomic non aveva mai riscosso troppa fortuna in termini di premi, con l'eccezione del Dick Tracy diretto e interpretato da Warren Beatty nel 1990, ricompensato con tre premi Oscar su sette nomination. A conquistare l'attenzione dell'Academy, nel 2008, è stato però Il cavaliere oscuro, secondo capitolo della nuova trilogia dedicata da Christopher Nolan all'Uomo Pipistrello di Gotham City.
Acclamato da critica e pubblico per i toni inesorabilmente cupi della narrazione e per la dimensione tragica del Batman di Christian Bale, Il cavaliere oscuro ha ricevuto otto candidature agli Oscar, ma soprattutto è valso una statuetta postuma come miglior attore supporter al giovane divo australiano Heath Ledger per merito della sua elettrizzante interpretazione nei panni del Joker, alfiere della distruzione e del caos e nemico giurato di Batman. Ad oggi, Ledger resta l'unico attore premiato con un Oscar per un film di supereroi, e il secondo ad essere anche solo candidato (il primo era stato Al Pacino, nella stessa categoria, proprio per Dick Tracy), impresa che non era riuscita neppure al suo 'predecessore' Jack Nicholson. Il cavaliere oscuro, in compenso, a dispetto del suo strepitoso successo è stato escluso dalle cinquine per miglior film e regia: un'omissione che avrebbe poi spinto l'Academy, già dall'anno seguente, ad ampliare la categoria per il miglior film a un massimo di dieci candidati.
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2009: Kathryn Bigelow e il 'miracolo' di The Hurt Locker
"Il momento è finalmente arrivato!", ha esclamato con un sospiro di soddisfazione Barbra Streisand, autentica pioniera delle registe donne a Hollywood, prima di annunciare la vittoria di Kathryn Bigelow come miglior regista dell'anno alla cerimonia degli Academy Award del 2009. Quarta e ultima donna nella storia degli Oscar ad aver ottenuto una candidatura per la miglior regia (dopo Lina Wertmüller nel 1976, Jane Campion nel 1993 e Sofia Coppola nel 2003), Kathryn Bigelow è finora l'unica donna ad aver conquistato la prestigiosa statuetta in questa categoria. Ma altrettanto encomiabile e sorprendente è il fatto che, nel 2009, l'Academy abbia deciso di ricoprire di trofei, con un totale di ben sei Oscar, una pellicola come The Hurt Locker, dramma bellico ambientato nell'Iraq occupato dalle truppe statunitensi. Produzione semi-indipendente, The Hurt Locker era passato pressoché inosservato alla sua uscita, con appena dodici milioni di dollari d'incasso negli USA (meno dei quindici milioni di budget): la critica, tuttavia, lo ha rilanciato a sorpresa durante la Awards Season, a dispetto del mezzo fiasco al box office, facendolo tornare nelle sale e portandolo fino alla conquista dell'Oscar come miglior film... una vittoria ancora più significativa, se si pensa che il 'piccolo' war movie della Bigelow ha battuto Avatar di James Cameron, ovvero il maggiore blockbuster di tutti i tempi!
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2011: il "ritorno alle origini" con The Artist
Da un certo punto di vista, The Artist dispone di tutti gli ingredienti per piacere ai membri dell'Academy: è una pellicola capace di amalgamare dramma, humor e sentimento, è contraddistinto da una perfetta ricostruzione tecnica e da un'eccellente squadra di interpreti e, per di più, costituisce una celebrazione di Hollywood e del potere della creatività. Tutto giusto, se non fosse per qualche altro particolare di non poco conto: si tratta di un film del 2011 muto, in bianco e nero e girato secondo i canoni del cinema di oltre ottant'anni prima! L'omaggio del regista Michel Hazanavicius alla Hollywood degli anni Venti ha incantato critica e pubblico fin dalla sua presentazione al Festival di Cannes ed è arrivato a vincere cinque premi Oscar: miglior film, regia, attore, colonna sonora e costumi. Ed è davvero incredibile pensare che, nel 2011, a trionfare agli Oscar sia stato un film totalmente in bianco e nero (oltre mezzo secolo dopo L'appartamento, nel 1960) e prevalentemente muto, soltanto il secondo nella storia dopo Ali, che nel 1928 aveva vinto alla prima edizione degli Academy Award. Ma non finisce qui: The Artist è stato infatti la prima pellicola non anglo-americana eletta miglior film dell'anno (si tratta infatti di una produzione francese), mentre Jean Dujardin, nel ruolo della star in declino George Valentin, è diventato il primo interprete di nazionalità francese premiato con l'Oscar come miglior attore.
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