Da 1917 a Piccole donne, la ‘storia’ dei candidati all’Oscar come miglior film

La nostra analisi della storia delle nove pellicole in corsa per l'Oscar come miglior film e delle ragioni del loro successo fra i membri dell'Academy.

Oscar
Le statuette degli Oscar

Come accade con infallibile puntualità, l'annuncio delle nomination agli Oscar torna a sollevare un'annosa questione: premi e candidature possono essere ritenuti un metro oggettivo di giudizio artistico? Ovviamente no, o almeno solo in parte. Perché gli Oscar, forse più di qualunque riconoscimento cinematografico, sono il prodotto di un gran numero di fattori: alcuni legati al valore di un film, altri invece al suo 'contesto'. E in fondo, gli Oscar servono soprattutto a questo: aiutarci a definire o a ricordare il contesto in cui un film è stato ideato e realizzato, nonché la sua storia, intesa non come intreccio narrativo, ma come genesi, percorso e ricezione dell'opera stessa.

Analizzare da questo punto di vista i nove candidati all'Oscar come miglior film significa pertanto provare a illustrare i motivi per cui proprio questi nove titoli sono stati selezionati dall'Academy, senza limitarsi alle loro specifiche qualità estetiche; e di conseguenza, tentare di capire come stia cambiando la percezione della settima arte, a Hollywood ma non solo, e quali siano i nuovi equilibri nella dicotomia fra tradizione e modernità. Di seguito, applichiamo dunque a ciascuno dei nove contendenti il medesimo quesito: cosa l'ha portato alla prestigiosa nomination come miglior film?

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La forza della tradizione: 1917 e Le Mans '66

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1917: una scena con George MacKay

Sono i due "titoli da Oscar" per eccellenza nella rosa dei candidati: due produzioni ad alto budget, dotate di un impressionante apparato tecnico e ascrivibili a due generi paradigmatici del cinema americano fin dalle sue origini. 1917, il kolossal di Sam Mendes con lo statuto di attuale frontrunner, è stato uno dei favoriti fin dalla primissima ora: perché, come si poteva evincere già dal soggetto e dal calibro dei nomi coinvolti, rappresenta la potenza della macchina hollywoodiana (a partire da quei lunghissimi, arditi piani sequenza) messa al servizio di un edificante racconto di coraggio e di sopravvivenza nella cornice di uno dei capitoli più tragici nella storia del Novecento.

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Le Mans '66 - La grande sfida: Matt Damon in una scena del film

Pochi generi, del resto, sono amati dall'Academy quanto il dramma bellico: Ali e All'Ovest niente di nuovo sono stati il primo e il terzo vincitore come miglior film negli annali degli Oscar, mentre dieci anni fa assistevamo al trionfo di The Hurt Locker (ma si pensi anche al recente successo di Dunkirk). Nel solco della tradizione classica di Hollywood si colloca pure Le Mans '66 di James Mangold: un esempio di biopic sportivo volto a celebrare l'ambizione e la grinta dei suoi protagonisti, interpretati da due star quali Christian Bale e Matt Damon. 1917 e Le Mans '66 sono insomma i portabandiera di un cinema 'classico', che può (e deve) ancora contare sui numeri del box office a dispetto dell'avanzata di nuove forme di fruizione (ma il fenomeno Netflix meriterebbe un discorso a parte).

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I grandi maestri: C'era una volta a... Hollywood e The Irishman

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C’era una volta a… Hollywood: Brad Pitt e Leonardo DiCaprio in un'immagine del film

Ma nell'ambito della tradizione rientrano, sebbene in maniera diversa, anche le nuove, fluviali opere di due fra i cineasti più importanti ed influenti della nostra epoca: C'era una volta a... Hollywood di Quentin Tarantino e The Irishman di Martin Scorsese. E come per i due casi precedenti, l'inclusione nel novero dei candidati come miglior film non è certo una sorpresa: l'Academy ha tenuto quasi sempre in altissima considerazione entrambi i registi, che nel 2019 hanno firmato due fra le migliori prove della propria carriera. E, benché da due prospettive opposte, hanno rievocato un immaginario cinematografico lontano nel tempo: la Hollywood di fine anni Sessanta nella malinconica elegia di Tarantino, il gangster movie e i suoi intrecci con la storia americana nel crepuscolare capolavoro di Scorsese.

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The Irishman: una scena dal film di Martin Scorsese

La pioggia di nomination (dieci a testa) per i due film non è legata solo all'ammirazione per i loro registi: C'era una volta a... Hollywood e The Irishman si attestano fra le punte di diamante del 2019, oltre ad aver suscitato enormi dosi di entusiasmo. In C'era una volta a... Hollywood, Tarantino dipinge un affresco ironico e affettuoso del mondo del cinema e del mestiere dell'attore; e il risultato è una pellicola indubbiamente tarantiniana, ma attraversata da un palpabile senso di dolcezza. The Irishman, di contro, segna un nuovo traguardo nella filmografia di un gigante della settima arte pronto a cimentarsi con nuovi mezzi tecnologici per rimodellare i volti, iconici e inconfondibili, di tre fra gli attori di maggior talento dell'ultimo mezzo secolo.

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Voglia di tenerezza: Storia di un matrimonio e Piccole donne

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Storia di un matrimonio: Scarlett Johnasson e Adam Driver in un'immagine del film

Accanto al costosissimo The Irishman, Netflix può vantare un'altra sua produzione fra i candidati come miglior film: Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, cronaca di una separazione e di quel che resta di un amore. Il meraviglioso dramedy con Adam Driver e Scarlett Johansson è in lizza fra l'altro insieme alla nuova fatica della compagna dell'autore newyorkese, la regista e sceneggiatrice Greta Gerwig, che con Piccole donne ha riportato sullo schermo il classico di Louisa May Alcott. E per entrambi i film, la presenza in competizione agli Oscar è legata principalmente all'aver saputo coinvolgere e commuovere un pubblico trasversale offrendo uno sguardo intimo e profondo sui propri personaggi.

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Little Women: una foto delle protagoniste

Storia di un matrimonio e Piccole donne sono accomunati infatti da una scrittura raffinatissima che riesce a restituirci i palpiti della vita quotidiana e dei sentimenti, pure per merito di due formidabili squadre di attori. Per Baumbach, si tratta della consacrazione 'popolare' di un cineasta già ben noto a critici e appassionati, che ci consegna il suo film più felice e compiuto; per la Gerwig, è la conferma di una vena creativa e di una sensibilità registica già rivelate due anni fa nel suo debutto da 'solista' dietro la macchina da presa, Lady Bird, nonché la meritata ricompensa per aver riadattato con un tocco personale un classico che ha accompagnato intere generazioni di lettori.

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La Shoah e l'aspirante crowdpleaser: Jojo Rabbit

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Jojo Rabbit: Roman Griffin Davis e Scarlett Johnasson in una scena

Chiunque sia interessato agli Oscar sa bene come la principale calamita per i membri dell'Academy sia costituita dal peso etico del tema al cuore di un film; e i temi 'nobili' per antonomasia, nel cinema in "zona premio", sono la Seconda Guerra Mondiale e l'Olocausto. Come evidenziato nel nostro approfondimento su Jojo Rabbit, la surreale commedia diretta e interpretata da Taika Waititi ha costruito appunto i suoi consensi sulla capacità di descrivere la vita durante il conflitto, la propaganda antisemita e la "banalità del male" del regime nazista mescolando humor, fantasia e dramma e adottando la focalizzazione del protagonista eponimo, un bambino di dieci anni. Non sarà una pellicola allo stesso livello della maggior parte dei suoi concorrenti, ma in compenso Jojo Rabbit possiede - e sa amalgamare fra loro - molti di quegli ingredienti in grado di renderlo un piccolo crowdpleaser.

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Un atipico cinecomic con ambizioni da Oscar: Joker

Joaquin Phoenix Joker
Joker: Joaquin Phoenix in una foto del film

A differenza dei sette candidati già presi in esame, gli ultimi titoli di cui ci accingiamo ad occuparci sono due opere le cui speranze per gli Oscar, un anno fa, sarebbero apparse niente affatto scontate; e in tutti e due i casi, del resto, si tratta di nomination dalla portata storica, per una ragione o per l'altra. Joker di Todd Phillips, lanciato da un rivoluzionario Leone d'Oro, è addirittura il capofila dei prossimi Academy Award con un totale di undici candidature, un primato assoluto per un cinecomic. Un cinecomic atipico, dai toni estremamente cupi e legato a doppio filo al cinema di Scorsese, ma che proprio per questo ha scandito un nuovo capitolo nel filone d'appartenenza; e così, un anno dopo il caso Black Panther, l'Academy si è lasciata conquistare da questa rivisitazione di Taxi Driver nell'universo di Batman, aprendosi ad un genere relegato - con rarissime eccezioni - nell'ambito dei prodotti di puro intrattenimento.

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Dalla Corea con furore: Parasite

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Parasite: Woo-sik Choi durante una scena

Ma perfino più sorprendente, nonostante un unanime consenso critico sugellato dalla vittoria della Palma d'Oro, è stata la valanga di nomination per Parasite: il terzo film in lingua straniera dello scorso decennio, dopo Amour e Roma (e solo l'undicesimo nella storia degli Oscar), a competere come miglior film. Com'è riuscito in un simile miracolo il regista coreano Bong Joon-ho? Certo, Parasite è stato definito a più voci come un capolavoro; ma questo non sempre è sufficiente, specie per opere provenienti dall'Asia. Pertanto il "bacio accademico" degli Oscar, favorito anche da uno strepitoso successo di pubblico, è un segnale a dir poco incoraggiante: perché testimonia un'attenzione finora pressoché inedita nei confronti di culture e linguaggi troppo spesso tenuti ai margini, in America ma non solo. È un argomento complesso e avremo occasione di riparlarne nel dettaglio, ma il fatto che agli Oscar 2020 si sia infiltrato questo "parassita" è una splendida notizia per tutti gli amanti del cinema.

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