I Golden Globe 2021 saranno ricordati come un'edizione in clamoroso 'ritardo' rispetto al solito (quasi due mesi più avanti in confronto alle date abituali) e per una cerimonia segnata dal "distanziamento sociale", con i presentatori distribuiti fra New York e Los Angeles e i candidati collegati esclusivamente via internet. Una cerimonia inevitabilmente sottotono, pertanto, forse meno coinvolgente nel ritmo e nelle dinamiche, ma che ha contribuito a rendere merito ad alcuni dei titoli e delle interpretazioni più significativi di questo sciagurato 2020/2021, consegnandoci fra l'altro almeno un paio di colpi di scena e qualche risultato destinato ad entrare nella storia della Hollywood Foreign Press Association.
Un'associazione, quella della stampa estera di Hollywood, quanto mai ristretta ed esclusiva, che proprio nei giorni scorsi ha subito una serie di durissimi attacchi mediatici: sia per certi meccanismi non proprio trasparenti dell'associazione stessa, sia per la scarsa rappresentanza etnica fra gli ottantasette membri della HFPA (nessuno dei quali di etnia nera). Eppure, al di là delle critiche e di scelte talvolta discutibili (Bohemian Rhapsody proclamato miglior film del 2018, tanto per dirne una), i Golden Globe rimangono non solo i premi cinematografici più prestigiosi d'America dopo gli Oscar, ma un trofeo un grado di influenzare non poco la 'narrazione' in vista degli Academy Award.
Il realismo sociale di Nomadland e la storica vittoria di Chloé Zhao
E la narrazione di maggior peso, quest'anno, sembra essere legata a Nomadland, vincitore dei Golden Globe come miglior film drammatico e per la miglior regia: l'affresco di un'America ai margini e di una vita condotta in una perenne condizione di precarietà economica. Il successo di Nomadland, già certificato dal Leone d'Oro al Festival di Venezia, è foriero di una ventata di realismo sociale non così frequente nei "piani alti" dell'awards season, e non era scontato che la HFPA preferisse il film di Chloé Zhao a un'opera dal respiro più tradizionale e hollywoodiano quale Il processo ai Chicago 7, dramma giudiziario a sfondo storico-politico ricompensato con il premio per la sceneggiatura ad Aaron Sorkin (si tratta addirittura del terzo Golden Globe di Sorkin in questa categoria).
Co-prodotto dalla sua protagonista, la strepitosa Frances McDormand, Nomadland si è distinto anche per un importante traguardo: nell'anno in cui una tripletta di donne hanno conquistato un posto nella cinquina per la miglior regia, il trofeo è stato assegnato alla cinese Chloé Zhao, trentotto anni e quattro lungometraggi alle spalle (il quarto, di prossima uscita, è il blockbuster Marvel Eternals). Si tratta appena della seconda volta, nella storia dei Golden Globe, che il premio per la regia è andato a una cineasta donna, a ben trentasette anni di distanza dal primato stabilito da una pioniera quale Barbra Streisand con il suo debutto dietro la macchina da presa, il musical Yentl del 1983; e sembra inevitabile che pure l'Academy si metterà in fila in questo plebiscito in favore della Zhao.
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Chadwick Boseman, la "pantera nera" Daniel Kaluuya e la Billie Holiday di Andra Day
E in un'annata in cui la questione della rappresentatività, sia di genere sia dal punto di vista etnico, è avvertita con particolare urgenza, a ritagliarsi un posto di primo piano sono stati diversi film incentrati sull'esperienza, sulla storia e sulla cultura afroamericane. Dal Golden Globe postumo a Chadwick Boseman per la sua intensa performance in Ma Rainey's Black Bottom, basato sul testo teatrale di August Wilson, al premio come miglior attore supporter al talentuoso Daniel Kaluuya per il suo ritratto del giovane leader delle Pantere Nere Fred Hampton in Judas and the Black Messiah: due vittorie che, come già ampiamente previsto, saranno replicate più volte nelle settimane a venire, fino alla notte degli Oscar, per la quale Boseman e Kaluuya sono già i favoriti assoluti.
Del tutto inatteso, al contrario, è stato il Golden Globe come miglior attrice di dramma per la cantante Andra Day, al suo esordio sullo schermo in The United States vs. Billie Holiday, in cui presta volto e voce alla massima icona del blues. Andra Day è appena la seconda afroamericana premiata in questa categoria, trentacinque anni dopo Whoopi Goldberg per Il colore viola, e si è imposta contro tutti i pronostici per il più convenzionale dei "veicoli da premio": un biopic su una leggenda dello show business che, come Judy lo scorso anno, ha lasciato abbastanza tiepida la critica, ma ha galvanizzato le giurie dei premi. A scapito sia di un'altra interpretazione di una star del blues, quella di Viola Davis in Ma Rainey's Black Bottom, sia della frontrunner della vigilia, Carey Mulligan.
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Difatti, considerando che Andra Day è stata esclusa sia agli Screen Actors Guild Award, sia dalle liste dei semifinalisti per i BAFTA Award, quasi nessuno pensava che potesse superare la protagonista di uno dei titoli più acclamati dell'anno: Una donna promettente, l'esplosivo revenge movie diretto da Emerald Fennell, in cui Carey Mulligan si produce in una prova d'attrice degna di entrare negli annali. Quello della Mulligan non è il canonico "ruolo da premio", eppure il consenso per il film (quattro nomination ai Golden Globe e vari riconoscimenti della critica) pareva averle fatto ipotecare la statuetta; Una donna promettente al contrario è rimasto a secco, e a questo punto per l'Oscar si profila un duello all'ultimo voto fra la classica tradizione del biopic (Andra Day) e un'opzione più insolita e coraggiosa (Carey Mulligan).
Una donna promettente non è stato comunque l'unico "pezzo da novanta" a subire una fumata nera nella notte di domenica: una sorte analoga è toccata al drammatico The Father (quattro nomination), con un eccezionale Anthony Hopkins alla sua ottava candidatura infruttuosa, e all'ambiziosa ricostruzione dell'industria hollywoodiana fra gli anni Trenta e Quaranta di Mank di David Fincher, che ha visto sfumare tutte le sue sei nomination. Nel campo delle commedie, a cantar vittoria è stato invece Borat - Seguito di film cinema, sequel del cult campione d'incassi del 2006, che ha fatto stabilire anche un notevole primato al suo protagonista Sacha Baron Cohen: si tratta infatti del secondo attore in grado di vincere due Golden Globe per lo stesso personaggio, bissando così il record di Peter O'Toole con il suo Enrico II d'Inghilterra, a cui O'Toole aveva prestato il volto nei film Becket e il suo Re e Il leone d'inverno.
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I Golden Globe e gli Oscar: una variabile impazzita?
Se i Golden Globe hanno senz'altro un valore di per sé, sempre in base a se e quanto si decida di attribuire valore a questo tipo di riconoscimenti, parte del loro prestigio è legata però all'influenza che possono esercitare nel resto dell'awards season, essendo fra i primi trofei di peso della stagione. In questa prospettiva, i Golden Globe si dimostrano spesso delle semplici 'conferme' dei titoli e dei nomi più quotati fra gli addetti ai lavori, tanto da indurre il sospetto che i membri della HFPA si accontentino di "seguire la corrente"; altre volte, invece, sono in grado di tirare la volata a nuovi contendenti in ascesa (è accaduto, un anno fa, con il kolossal bellico 1917). Accade anche però che alcuni premi abbiano esiti totalmente inaspettati, tanto da rimettere in gioco alcune previsioni per gli Oscar.
È stato il caso, quest'anno, di Andra Day nella competizione come miglior attrice, con Rosamund Pike che al contempo si è imposta fra le interpreti di commedia per il thriller I Care a Lot (difficile, tuttavia, che possa trovare posto in zona Academy), e di un altro premio davvero sorprendente: quello come miglior attrice supporter alla Jodie Foster di The Mauritanian. Nessuno aveva ipotizzato che Jodie Foster, ignorata agli Screen Actors Guild Award e ai Critics' Choice Award, potesse prevalere su candidate ben più accreditate quali Glenn Close, Amanda Seyfried e Olivia Colman; e sebbene sia poco concreta l'ipotesi di un bis agli Oscar, il Golden Globe alla Foster rende ancora più incerta una categoria in cui, per una volta, le tendenze dell'Academy non dovrebbero allinearsi con quelle dei loro 'cugini' più elitari e, se possibile, perfino più controversi.
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