L'uscita nelle sale italiane di Nebraska, ultima fatica di Alexander Payne presentata in concorso a Cannes 2013, rimette in scena uno dei generi americani per eccellenza, il road movie. Payne è un regista indipendente che ha esordito nel 1996 con Citizen Ruth (in Italia uscì solo in home video col titolo La storia di Ruth - Donna americana) e ha poi confermato la tendenza ad analizzare i labili rapporti familiari e i contrasti interpersonali lungo tutta la sua carriera, contrassegnata da tre atipici on the road. Il primo è A proposito di Schmidt, dove Jack Nicholson - forse all'ultima monumentale interpretazione - dà forma a un personaggio in fuga dalla terza età che vuole sfruttare la vedovanza per dare un senso alla sua vita; il viaggio in Sideways diviene, al contrario, un modo per fuggire dalle responsabilità, per essere liberi un'ultima volta, prima che la quotidianità matrimoniale incateni il vulcanico Jack, e si intravvede il bilancio esistenziale di una generazione (quella di Payne), alle prese con un'immaturità di fondo e con la difficoltà a prendere decisioni importanti; per ultimo arriva Nebraska, un progetto che il regista accarezzava almeno dal 2004, l'anno di Sideways. Superficialmente appare come una sintesi delle anime del cinema di Payne: Woody Grant è un vecchio scorbutico e alcolizzato (Bruce Dern, Palma d'Oro come miglior interprete), che crede di aver vinto un milione di dollari grazie a una di quelle missive che arrivano per posta, promettenti una clamorosa vittoria. Uno dei figli decide di assecondarlo e inizia così un viaggio, dal Montana al Nebraska, che fa tappa a Hawthorne, la cittadina nella quale Woody ha trascorso gran parte della sua vita; la narrazione sviluppa una serie di quadretti e di situazioni singolari che servono sia a speculare sul mancato rapporto padre-figlio (che si estende al resto della famiglia di Woody) che a osservare la malinconica ricerca di quelle radici ormai perdute.
Payne e il suo viaggio familiare ci offre il destro per rivisitare un filone prolifico per il cinema stelle e strisce, ma è forse opportuno fare prima una breve premessa: un approfondimento su un genere così vasto e trasversale non può considerarsi onnicomprensivo, né esaustivo. Abbiamo qui dunque voluto riportare una serie di titoli, schegge impazzite per le strade americane (e solo americane), che hanno a loro modo segnato o fotografato un'epoca, avvicinandosi allo spirito della 'strada' cantata in letteratura da Kerouac.
Nel segno di Kerouac
Sebbene le sue speranze furono frustrate, Kerouac continuava in cuor suo a credere in quel sogno e in una visione metafisica che conferiva al viaggio una dimensione spirituale e, pertanto, sia intima che universale. La contrastata genesi di On the Road, romanzo cardine della letteratura americana del secondo Novecento, inizia da qui, dalla personale percezione delle strade d'America del suo autore, dalla speranza sotterranea di rientrare in contatto col padre morto, cercando il padre di Neal Cassady, perso chissà dove, sulla strada. Ed è ciò che più di ogni altra cosa è sfuggita al pessimo adattamento cinematografico di Walter Salles, On The Road (2012), che appiattisce la narrazione episodica e jazzistica di Kerouac in un dispiegarsi di eventi e di azioni che affliggono la libertà e i risvolti imprevedibili della fonte originaria. Il mix di sesso e droghe leggere con un cast di giovani attori fornisce solo la patinatura da "belli e dannati" tipica ormai di una certa e deteriore produzione da Sundance, mancando completamente il bersaglio della marginalità a cui erano costretti i protagonisti. Per non parlare del servizio reso a Dean Moriarty (Cassady), l'eroe della strada, che dovrebbe assumere connotati religiosi solo perché Old Bull Lee (William S. Burroughs, interpretato da Viggo Mortensen) spiega al pubblico il punto di vista dell'autore tramite qualche didascalica battuta. Al lavoro di Salles manca la forza cinematografica per diventare un testo generazionale e, a causa della brutale normalizzazione, non può nemmeno cercare di essere il contraltare filmico del romanzo kerouachiano.
Per nostra fortuna nella storia del cinema americano ci sono state opere di ben altra caratura che hanno raccontato "la strada" e l'America attraverso l'on the road, divenendo impareggiabili documenti dello spirito del tempo. A partire dal genere mitografico per eccellenza, il western, fino al noir e al gangster, le narrazioni "sulla strada" sono state spesso centrali, ma è stato indubbiamente dopo gli anni 50 e il successo generazionale del romanzo di Kerouac, oltre al diffondersi della Controcultura, che il road movie abbia trovato spazio e abbia iniziato a essere codificato come genere a sé stante.
Easy Rider: l'inizio della New Hollywood
Prima di passare a Easy rider (1969), punto di partenza convenzionale di questo viaggio, conviene snocciolare qualche titolo precursore. Uno di questi è indubbiamente Accadde una notte (1934), commedia romantica di Frank Capra (vincitrice dei cinque Academy Awards fondamentali: film, regia, sceneggiatura e interpreti protagonisti), che racconta di un viaggio nell'America post-crisi del '29 che la viziata ereditiera Ellie Andrews (Claudette Colbert) deve fare in compagnia del giornalista Peter Warne (Clark Gable) da Miami a New York, per raggiungere il suo scapestrato fidanzato. Un altro è Furore di John Ford, tratto dal classico omonimo di John Steinbeck, e anch'esso fortunato agli Oscar, visto che portò a casa il premio per la miglior regia e quello per l'attrice non protagonista andato a Jane Darwell. Due titoli europei sono invece spesso citati dai filmmaker americani quale fonte di ispirazione: si tratta dei capolavori di Dino Risi, Il sorpasso (1962), e di Jean-Luc Godard, Il bandito delle ore undici (1965). Non a caso, l'autore che insieme a Robert Altman è uno dei padrini della New Hollywood, vale a dire Arthur Penn, esplose nel 1967 con Gangster story per la cui regia i produttori volevano inizialmente proprio Godard, e Easy Rider si ispira alla pellicola di Risi, il cui titolo americano era The Easy Life.
Da Coppola a Scorsese, ritratti di donna sulla strada
Sempre nel 1969 esce di soppiatto uno dei primi lungometraggi indipendenti di Francis Ford Coppola, Non torno a casa stasera. Si tratta di un singolare road movie al femminile, dove una donna, atterrita dalla notizia di essere rimasta incinta, decide di fuggire dalla tranquillità medio-borghese. In questo caso il tema del viaggio è legato a una ricerca identitaria che si svolge per le strade americane e per mezzo delle quali la donna si confronta con varie realtà che finiranno per sconvolgerla. Dà un passaggio a un ragazzo, Killer, il quale, nonostante il nickname inquietante, è un ragazzo di cui scopre un deficit mentale causato da un grave incidente mentre giocava a football; la donna lo accompagna dalla famiglia della fidanzata, dalla quale viene umiliato. Coppola fa un ritratto autunnale (come il titolo originale The rain people fa presupporre) di una provincia americana irrequieta e profondamente infelice, con una carrellata di personaggi disillusi e perdenti. Il celebre critico Roger Ebert, considerata l'uscita a breve distanza con "Easy rider", paragonò la protagonista coppoliana Nathalie Ravenna, interpretata da Shirley Knight, al Wyatt di Peter Fonda, poiché entrambi rappresentano la peculiarità del viaggiatore americano che parte alla ricerca di un "qualcosa" che, però, evidentemente non può più trovare.
Questi film, che possono sembrare oggi convenzionali (ma solo sulla carta), avevano una forte carica di originalità: la donna veniva infatti sbalzata fuori dalle gabbie domestiche, rivendicava la sua indipendenza e, sconfinando nei vasti spazi americani, affermava il proprio io. Nel caso dei suddetti film, inoltre, si affronta anche un interessante conflitto familiare: Alice ha un figlio che è costretto a badare a se stesso, nonostante la giovanissima età, e avverte molto l'assenza del genitore; Nathalie fugge essenzialmente per la paura di diventare madre ma finisce per prendersi cura di Killer come fosse suo figlio.
Il rapporto genitori-figli è centrale sia nella letteratura della beat generation, sia nel cinema di questi anni, come si nota dalla rabbiosa opposizione di Robert Eroica Dupea nei confronti del padre e dei suoi fratelli in Cinque pezzi facili (1970). Bob Eroica, chiamato così in onore della sinfonia di Beethoven, pianista in una famiglia di musicisti, si vede costretto a tornare a casa per fare visita al padre gravemente malato. Qui ritrova la soffocante famiglia così come l'aveva lasciata quando aveva deciso di recidere il cordone ombelicale. Finisce per sedurre la fidanzata del fratello che, però, non lo seguirà quando decide di ritornare a casa, perché - come gli dice esplicitamente - lui non è capace di amare se stesso né nessun altro; irritato anche dalla presenza della sua compagna, Rayette, che all'inizio del viaggio gli aveva confessato di essere incinta, la abbandona in un autogrill, accettando il passaggio di un camion che va verso l'Alaska. È uno dei film più celebri di Bob Rafelson (che in quegli anni inanellò una serie di opere oggi sottostimate come Il re dei giardini di Marvin), che sfrutta il volto arcigno e ribelle di Jack Nicholson per farne il simbolo di quella generazione, figlia dell'alta borghesia ormai in crisi, che preferisce la strada e l'emarginazione piuttosto che la vita in un'aurea mediocrità. Il disagio esistenziale di Eroica (secondo nome mai così tristemente sarcastico) si proietta quindi in un viaggio dove l'unica meta è l'alienante distanza tra sé e il mondo, lasciandosi dietro affetti infranti e relazioni mozzate.
L'anti-Easy Rider di Monte Hellman
Con questo finale enigmatico, Hellman chiude un'opera che si rivolta anche contro i canoni del road movie, non rispettando quasi nessuna promessa drammaturgica, filmando con perizia il vuoto e l'alienazione di una generazione che si sente libera solo grazie a un mezzo meccanico, senza nemmeno il barlume della volontà di cimentarsi in un rapporto umano.
Come abbiamo già scritto, il road movie è un genere trasversale che può trovare interessanti incroci con il thriller o il noir. Citiamo quindi un paio di titoli degli anni 70 che sono dei cult a tutti gli effetti: stiamo parlando di Punto Zero (1971) e di Driver, L'imprendibile (1978). Il film di Richard C. Sarafian è stato riportato in auge da Grindhouse - A prova di morte di Quentin Tarantino e ha non poche cose in comune con Thelma & Louise. Kowalski è "l'ultimo eroe americano": un uomo sbucato apparentemente fuori dal nulla che corre sulla sua Dodge Challenger sfuggendo alla polizia per ben quattro stati per il solo gusto di farlo. Questo sberleffo all'ordine pubblico non passa inosservato, generando l'entusiasmo delle comunità attraversate da Kowalski, che viene aiutato pur non sentendosi affatto un eroe. Al contrario, è un uomo finito che va psicoticamente incontro alla morte e su cui pesa l'ombra del Vietnam. Differente il caso di The Driver, nel quale Walter Hill compie una rivisitazione del Frank Costello faccia d'angelo di Jean-Pierre Melville, col "driver" al posto del sicario ma con la stessa idea di metodica alienazione; il film di Hill è un road movie raffinato e astratto che gioca più che altro con gli spazi e gli archetipi del genere (anche qui, tra l'altro, i personaggi rimangono senza nome).
Gli anni 70 sono anche gli anni della "trilogia della strada" di Wim Wenders che lo porteranno sul suolo americano col celebre Paris, Texas. Ma, come annunciato, ci siamo proposti di evitare escursioni che esulino da uno sguardo indigeno (per quanto questa definizione suoni ambigua nel caso di un americano) e la prospettiva con la quale un regista europeo guarda al continente americano è forzatamente altra. Ed è per questa ragione che manca all'appello anche l'ingombrante nome di Michelangelo Antonioni che ha influenzato sia Coppola che Wenders e realizzò un interessante saggio sull'epilogo delle illusioni sessantottine con Zabriskie Point (1970).
I vecchi cowboy di Eastwood e i giovani vagabondi di Jarmusch
Nei reaganiani anni 80 i registi sentono meno la necessità di spostarsi e per le strade d'America si avventura un uomo di mezz'età che si chiama Clint Eastwood, con ben due film, Bronco Billy (1980) e Honkytonk man (1982). Non è un caso che in questo decennio a un genere "giovane" si approcci un regista di mezz'età e, in particolare, con film nostalgici e malinconici che anticipavano quel tono crepuscolare che, da Gli Spietati in poi, diverrà quasi una fastidiosa etichetta, applicata a prescindere sul cinema eastwoodiano.
Wenders ebbe, però, anche il merito di far partire la carriera di un regista che ha consacrato il suo cinema al viaggio e alla vacua ricerca di sé sulla strada. Parliamo di Jim Jarmusch che diresse il suo secondo lungometraggio (dopo la tesi di laurea alla NY University, Permanent Vacation) grazie alle bobine non utilizzate da Wenders per Lo stato delle cose. Jarmusch è uno degli ultimi registi veramente indipendenti del cinema americano e, di quel movimento newyorchese che fu la "No Wave", fu l'unico a raccogliere l'eredità della stagione neo-hollywoodiana, quando essa aveva ormai esaurito il suo ciclo vitale. Il 1984 è l'anno di Stranger than Paradise, dove dirige il suo amico musicista John Lurie (nel successivo Daunbailò dirigerà Tom Waits, insieme a uno spaesato Roberto Benigni).
La Generazione X, tra rabbia e rivoluzioni mancate
Negli anni 90 il regista che più di ogni altro segue i personaggi ai margini della strada è Gus Van Sant. Belli e dannati (traduzione modaiola del ben più ficcante My own private Idaho) esce nel 1991 ed è per il regista ispirato all'"Enrico IV" di Shakespeare. Il dramma vede due personaggi dai caratteri differenti ma uniti da una grande amicizia, Scott e Mike, due tossicomani che si prostituiscono. Il primo è il figlio benestante del sindaco di Portland che cerca in tutti i modi di differenziarsi e creare scandalo, mentre il secondo è un giovane omosessuale che sopravvive facendo marchette e ha spesso attacchi di narcolessia. Mike è ossessionato dall'idea di ritrovare sua madre e un giorno decide di andare a trovare suo fratello Dick, nell'Idaho. Scott lo accompagna senza remore e qui il ragazzo ottiene le informazioni che gli servono per continuare la sua ricerca; Mike scopre nella tappa successiva che sua madre potrebbe essere partita per Roma e i due ragazzi fanno la stessa cosa. Inutile sottolineare come si riverberino anche nel film di Van Sant le tematiche peculiari del genere, anche se mescolate alla personale sensibilità del regista di Portland che nell'on the road di My own private Idaho condensa sia l'omosessualità di Mala Noche (il suo esordio) che la dipendenza da droghe di Drugstore cowboy, realizzando un compiuto manifesto della disorientata Generazione X.
Un regista che i turbolenti anni 60 e 70 li ha vissuti in prima persona è l'unico americano dei Monty Python, Terry Gilliam. Uno dei suoi titoli divenuti cult è Paura e delirio a Las Vegas, realizzato dopo lunghe vicissitudini produttive nel 1998 e tratto dall'omonimo romanzo di Hunter S. Thompson. I protagonisti sono il giornalista Raoul Duke, alter-ego dello scrittore, e il suo avvocato samoano, Dott. Gonzo: interpretati dall'inedito duo Johnny Depp-Benicio Del Toro, all'apice del loro istrionismo, Duke e Gonzo attraversano il deserto del Nevada per raggiungere Las Vegas, dove si terrà la gara motociclistica off-road Mint 400, di cui Duke dovrà curare il reportage. Il viaggio è sin da subito una sarabanda di situazioni grottesche prodotte dalla reiterata assunzione di droghe e di sostanze psicotrope che si protrarrà senza sosta fino alla fine, causando equivoci, incidenti e disorientanti allucinazioni. La regia barocca di Gilliam, allucinata almeno quanto i suoi protagonisti, regala un corrosivo ritratto d'epoca, oltre al miglior film sul cosiddetto "Gonzo Journalism", quello stile di scrittura di cui Thompson fu il creatore e che elude il punto di vista oggettivo, sottolineando la presenza di un osservatore partecipe agli eventi che racconta. Dopo tanti chilometri macinati, una gran quantità di droga ingurgitata e stanze d'albergo sfasciate, Duke e Gonzo si dividono per continuare le loro vite al massimo, simboli di un'epoca che proprio quando aveva trovato la spinta per rivoluzionare il Sistema si ripiegava su stessa nell'euforia lisergica, nascondendo uno spaventoso vuoto collettivo. Gilliam, seppur nei toni e nello stile che gli sono consoni, si ricollega quindi allo spirito amaro dell'on the road degli anni 70, dove il viaggio era una fuga dal reale, da un'America che aveva smesso presto di essere foriera di nuove possibilità.Gli Anni Zero, tornando a guardare dentro di sé
Negli Stati Uniti sconquassati dagli attentati dell'11 settembre 2001 e inquieti per la minaccia terroristica, il cinema torna a guardare nei territori interni, costringendo i protagonisti a fare i conti coi propri problemi. Questa nuova fase di auto-auscultazione chiude il cerchio proprio con la produzione di On the Road, patrocinato anche da Francis Ford Coppola che lo inseguiva - si dice - da trent'anni e che lo stesso Kerouac voleva trasposto al cinema, con Marlon Brando protagonista. Se dovessimo elencare brevemente i film più interessanti, dovremmo tornare a citare Jim Jarmusch con Broken flowers, dove un meraviglioso Bill Murray, don Giovanni in pensione, si mette in viaggio per ritrovare le donne della sua vita e provare a capire quale di queste abbia messo al mondo suo figlio. Ancora una volta il rapporto genitoriale mette alla berlina i dissesti del mattone primario di ogni civiltà e, questa volta, viene rivoltato di segno: è il genitore - potenziale - a mettersi sulla strada, andando a ritroso nel tempo (e quindi con un viaggio che sarà per definizione nostalgico), cercando di dare senso a un'esistenza tanto frenetica da divenire apatica.
Concludiamo questa rassegna con l'on the road forse più rappresentativo degli ultimi anni, anche perché, oltre a riuscire a catturare il senso di vuoto di ultima generazione, si riconnette nuovamente alla stagione del New American Cinema.
La narrazione imbastita da Penn impone a questo nuovo "santo della strada" i limiti del viaggio: la crescita, il cambiamento, la ricerca di "qualcosa", agognata dalla maggior parte dei protagonisti di road movie, in continuità col primigenio spirito americano, sono elementi afferrati da McCandless. Perché crescere vuol dire sacrificare parte di sé stessi, perdersi, e in tal senso un viaggio estremo può anche essere senza ritorno. Il fatale approdo di Chris, durissimo perché "realmente accaduto", è d'altra parte perfettamente contestualizzabile nei codici del genere alla cui fonte si abbevera la regia nervosa e sorprendente di Penn.
Con Into the Wild si conclude il nostro viaggio nel road movie americano, anche se si tratta di un'interruzione momentanea, appena il tempo di prendere fiato e di ripartire: la strada non è ancora finita.