Il 2010 resterà nella storia come l'anno in cui la prima regista donna è riuscita a far breccia nella muraglia di conservatorismo eretta dall'Academy conquistando il premio Oscar. Kathryn Bigelow, fisico da top model e piglio da generale, ha ottenuto il primo Oscar tributato a una regista sconfiggendo il supercolossal Avatar, tripudio di effetti speciali, ecologia e tridimensionalità, con una pellicola bellica indipendente costata quindici milioni di dollari. Va detto che la Bigelow ha sempre amato cimentarsi in settori tradizionalmente maschili come l'action adrenalinico (Speed, Point Break, Blue Steel - Bersaglio mortale), l'horror (suo è il gioiello da riscoprire Il buio si avvicina), la fantascienza (Strange Days) e il war movie (prima di The Hurt Locker, si era fatta le ossa dirigendo il claustrofobico K-19), ma questo non sminuisce assolutamente la portata della sua impresa. E' la stessa regista, cresciuta nella liberale California dei primi anni '70, a spiegare: "Quando lavoro non valuto i film in base alle categorie 'maschile' e 'femminile'. Mi piacerebbe vedere più donne registe, questo è vero, ma non sono abituata a parlare di donne matematiche o donne astrofisiche. E non mi capita mai di pensare: "Oggi verrò intervistata da un giornalista uomo". Allora perché usiamo questo tipo di distinzione con i registi? Sarebbe il caso di smettere di ragionare in questi termini una volta per tutte".
Purtroppo il machismo imperante a Hollywood e dintorni sembra dar torto alla bella e volitiva Bigelow, visto che nella discussione post-Oscar (ovviamente il verdetto non ha soddisfatto tutti) l'argomentazione emersa più di frequente riguarda lo stile della regista, che "gira come un uomo". Difficile capire se si tratti di un'accusa o di complimento. Fortunatamente all'età di 58 anni, forte di una solidissima carriera, la regista può finalmente lasciarsi alle spalle questo tipo di polemiche per dedicarsi al suo prossimo progetto, Triple Frontier, pellicola in stile Traffic scritta dal giornalista Mark Boal (compagno della Bigelow) e girata al confine tra Argentina, Brasile e Paraguay, regione di frontiera ad altissima densità criminale.
La regista di The Hurt Locker, ormai, resterà comunque nella storia per essere riuscita a imporsi conquistando l'ambita statuetta in un settore prettamente maschile. Prima di lei pochissime donne erano entrate in nomination in questa categoria. Al riguardo l'Italia vanta un doveroso primato: la prima regista a essere candidata nella cinquina per la miglior regia è stata proprio la nostra Lina Wertmuller, nel 1976, con Pasqualino Settebellezze. Curiosamente la Wertmuller non fu sconfitta dai grandissimi Ingmar Bergman o Sidney Lumet, ma da Rocky di John G. Avildsen. Ancora un trionfo di muscolare machismo per l'Academy. Dopo la Wertmuller è stata la volta di Jane Campion con Lezioni di piano (1993) e Sofia Coppola con Lost in Translation - L'amore tradotto (2003). Una media bassissima che evidenzia come le registe donne siano ancora troppo poche per contare a livello statistico. Il cinema di Jane Campion è quanto di più lontano si possa immaginare da quello di Kathryn Bigelow. Concitato e spettacolare quello della regista californiana, colto e introspettivo quello dell'autrice neozelandese che, dopo una fase sperimentale, si è dedicata alla rappresentazione di indimenticabili ritratti di figure femminili, dalla tormentata Janet France di Un angelo alla mia tavola alla fragile Isabel di Ritratto di signora, passando per la folle protagonista di Holy Smoke - Fuoco Sacro incarnata da Kate Winslet. Nella sua produzione la Campion ha alimentato l'attitudine naturale alla riflessione e alla profondità, scandagliando in profondità la psiche femminile fin nei suoi più oscuri recessi, senza timore di mostrarne crudezza, debolezza, ferocia. Lo dimostra una volta di più la sua ultima pellicola, il delicato Bright Star, biopic dedicato a immortalare la passione mai consumata tra il poetica romantico John Keats e la sua vicina di casa Fanny Brawne, dove la protagonista femminile viene rappresentata in forma di gran lunga più vivace e approfondita rispetto all'esangue e sfortunato poeta. A differenza delle sue colleghe più mature, la trentanovenne Sofia Coppola, appena premiata con il Leone d'oro a Venezia 67. per il suo ultimo lavoro Somewhere, appartiene alla generazione del post-femminismo. Figlia d'arte, cresciuta con un genitore come Francis Ford Coppola, l'eclettica Sofia ha trovato rapidamente la propria strada dietro la macchina da presa facendo dimenticare i fortunati natali grazie a uno stile intimista e inconfondibile. La Coppola si è imposta come autrice con una manciata di pellicole, diventando la prima regista americana capace di conquistare una nomination all'Oscar all'età di 32 anni. Il film in questione è l'ondivago Lost in Translation che ha lanciato nell'olimpo nelle star un'altra volitiva giovane donna, la bionda e morbida Scarlett Johansson. Il cinema rarefatto ed enigmatico della Coppola ha preso forma in una trilogia dell'inquietudine, portando sullo schermo la figura tragica e moderna della regina Maria Antonietta e l'agghiacciante romanzo di Jeffrey Eugenides Il giardino delle vergini suicide. Di recente la regista ha scelto di misurarsi con un universo che conosce a fondo fin dall'infanzia, quello dei divi di Hollywood, costruendo un'acuta riflessione sullo stardom e sulla percezione distorta della realtà che la fama comporta. Il risultato è appunto il Leone d'oro Somewhere, pellicola ambientata quasi interamente nel leggendario Chateau Marmont.La cinematografia americana si barcamena tra grandi produzioni e cinema indipendente e l'universo registico femminile non può che essere specchio di tale situazione. Campionesse d'incasso capaci di attingere al bacino degli amanti della lacrima facile sono le registe-sceneggiatrici-produttrici Nora Ephron e Nancy Meyers. La Ephron, dopo l'Insonnia d'amore dell'ex fidanzatina d'America Meg Ryan, si ricicla proponendo le raffinate pietanze, con contorno di sentimentalismo, di Julie & Julia, mentre Nancy Meyers esplora le mille facce delle relazioni sentimentali in età matura con gioiosa levità. Se l'Academy è avara di premi al femminile, lo stesso non si può dire per i festival indipendenti come il Sundance, dove la metà dei riconoscimenti vengono assegnati a pellicole dirette da donne. Dal sottobosco indie sono
emersi piccoli gioielli come l'agghiacciante Frozen River, opera prima di Courtney Hunt, una storia di donne provate dalla vita che combattono per tirare avanti in un territorio inospitale, il bellissimo Winter's Bone di Debra Granik, la rivelazione The Kids Are All Right di Lisa Cholodenko , dove la realtà della maternità in una coppia omosessuale viene scandagliata grazie all'irresistibile prova lesbo di Annette Bening e Julianne Moore, e il toccante Away from her, affresco che affronta con eleganza il tema dell'amore nella terza età diretto dall'attrice canadese Sarah Polley.L'Europa e l'Italia, svincolate da un concetto di 'industria' rigido come quello americano vedono un numero di donne dietro la macchina da presa comunque limitato rispetto al corrispondente maschile. Nel nostro paese le pioniere Lina Wertmuller e Liliana Cavani hanno aperto la strada ad autrici cresciute in ambito cinematografico come Cristina Comencini, alla delicatezza e al gusto fotografico di Francesca Comencini, alla solarità di Roberta Torre. Oggi, con la cronica carenza di fondi e le difficoltà strutturali insite nella cinematografia nostrana, il vivaio più interessante è concentrato nel mondo del cortometraggio, da cui è emersa l'autrice di Cosmonauta Susanna Nicchiarelli, o del documentario, a cui si dedicano con passione autrici come Marina Spada, Giovanna Gagliardo, Alina Marazzi, Barbara Cupisti. La speranza è che la moltiplicazione delle possibilità espressive fornita dal web e dalla diffusione delle tecnologie digitali favorisca un continuo ricambio generazionale che permetta a nuove autrici di talento, capaci di leggere il presente dietro l'obiettivo di una macchina da presa, di imporsi sulla scena italiana e internazionale.