Venezia 2003

Un'edizione disastrosa sotto il profilo organizzativo e complessivamente mediocre sotto quello artistico; tuttavia, pur tra polemiche e recriminazioni, anche quest'anno il buon cinema non è mancato.

Venezia, domenica 7 settembre: una piacevole spruzzata di vento rinfresca un'aria più umida rispetto ai precedenti giorni. Le strade sono leggermente più sporche, e vederle vuote fa uno strano effetto. La mostra smobilita e la vita cittadina attende un ultimo giorno per riprendere il suo corso normale, per quanto possa essere "normale" la vita sul Lido.
La 60'esima edizione del Festival si è chiusa ieri, non senza polemiche, risentimenti e insoddisfazioni; di certo, lasciando ai posteri un'annata francamente mediocre sotto il profilo dei film presentati, aberrante, a dir poco, sotto il profilo organizzativo.
Eppure, nella giornata dei resoconti e delle consuete inevitabili polemiche, rifletto e penso che, se queste poche righe le avessi scritte qualche giorno fa, avrebbero avuto di certo un carattere più negativo, se non perfino grottesco. Vi avrei parlato a lungo e con toni da caricatura, di film strazianti, di costi esorbitanti, di addetti alla sicurezza scorbutici e maneschi, di situazioni da raduno heavy metal. E invece non lo farò!
Sarà stata l'abitudine alla fila, alle incongruenze del programma, alle poche sale e alla cattiva alimentazione, saranno stati soprattutto gli ultimi tre giorni, in cui si sono susseguiti finalmente degli ottimi film (nessun capolavoro intendiamoci), ma personalmente mi sento riconciliato e forse, quindi anche più lucido, non per questo cieco.

I non visti: Facciamo un salto indietro e partiamo dagli inizi, o meglio da quello che mi sono perso (per molti, quello che ho avuto la fortuna di perdermi) nelle prime giornate, ma di cui tanto e con i medesimi accenti, ho sentito parlare. L'apertura del Festival è spettata al nuovo film di Woody Allen. Presentato tra i Fuori Concorso, il nuovo Anything Else, non ha raccolto particolari entusiasmi, un po' come tutti gli ultimissimi film del regista americano, alquanto ripetitivo ultimamente. Se comunque, da Allen, qualche buono spunto e una sana dose di intelligenti risate ce lo si può sempre aspettare, hanno deluso molto, sempre per la sezione Fuori Concorso: C'era una volta in Messico, del sopravvalutato Robert Rodriguez, La macchia umana e Le Divorce, che sono stati apostrofati con aggettivi tipo inutile, noioso, superficiale. Stessa fredda accoglienza è stata tributata ai film "In concorso" Les Sentiments e Immagini - Imagining Argentina, mentre maggior successo hanno riscosso il nuovo film del maestro Manuel De Oliveira, Un filme falado (per alcuni un vero e proprio capolavoro), Coffee and Cigarettes di Jim Jarmush, e gli italiani Segreti di Stato, Il Miracolo e, per la sezione Controcorrente, Il ritorno di Cagliostro, che pare aver strappato, specie nella prima ora, quantità illimitate di risate per il suo incedere grottesco. Meno divertente ma meritevole, pare essere stato Ballo a Tre Passi, film in dialetto sardo che ha vinto La Settimana Internazionale della Critica.

I film in concorso: L'impatto del sottoscritto con la caotica Venezia 60 è avvenuto con il ritorno della berlinese Margarethe von Trotta, autrice dell'interminabile Rosenstrasse. Storia di una ribellione attuata da alcune mogli ebree durante la persecuzione nazista, Rosenstrasse si presenta con una confezione di livello, ma con una dilatazione inverosimile della narrazione. Poco originale e anche alquanto televisivo nelle scelte registiche il film della von Trotta è in definitiva, per quanto mi riguarda, la prima pellicola, in ordine temporale, da dimenticare di questo Festival. Decisamente migliore, senza comunque essere niente di sorprendente, il film cantonese Floating Landscape. Melodrammone dalle tinte pittoriche (una giovane vedova va alla ricerca dei paesaggi dipinti dal suo amato defunto marito), con un'ottima fotografia e due avvincenti interpretazioni, forse un po' troppo minimali ma comunque struggenti. Qualche ora dopo, il primo evento vero della Mostra: Zatoichi di Takeshi Kitano. Presentato in un'atmosfera di meritato tripudio da stadio, per il regista probabilmente più amato dai giovani cinefili di tutto il mondo, il film di "Beat" Kitano non tradisce le aspettative e, pur non essendo del livello dei suoi irraggiungibili Sonatine e Dolls, si becca quindici minuti d'applausi e la plebiscitaria investitura del pubblico alla vittoria finale. Personale rivisitazione di un mito della cultura giapponese, il samurai cieco Zatoichi è l'ultima provocazione cinematografica di un regista che abbina al talento indiscutibile di cui è in possesso un raro divertimento nel fare film. Ci troviamo quindi di fronte a un miscuglio di azione, melodramma, comicità e musical. E se, come diceva una volta qualcuno, le arti marziali sono la forma visiva più vicina al musical, il platinato, irresistibile Takeshi ce lo dimostra a piene mani. Stanco ma felice vado a dormire ignaro che dopo 4 ore di sonno, mi attende uno dei peggiori giorni (cinematograficamente parlando) della mia vita. E' mattina, è il 3 settembre e il vostro umile scriba è costretto a cibarsi la solita metafora didascalica della società dominata da un futuro di tirannia tecnologica nel noioso Code 46 di Michael Winterbottom, prima di imbattersi nell'inguardabile, fintamente disperato e sconvolgente 29 Palms. Siccome la mia rabbia per tale insulsa pellicola è cosi forte da permettermi solo slogan tipo "Bruno Dumont fuori dal sistema solare" o "Bruno Dumont vai a friggere le patatine al MacDonald", piuttosto che sagge argomentazioni critiche, ve lo descrivo con le sapienti parole dell'ottimo Enrico Magrelli che su FilmTv scrive: "29 Palms è un film vecchissimo, atroce...Due deficienti (candidati dalla prima sequenza al disastro) si aggirano con una certa dilatata casualità nel deserto californiano. Lui è un fotografo e lei una donna forse amata, certamente desiderata... Tra litigi, lezioni di guida, polvere, risate, bronci, coiti disperati e ridicoli, esasperanti cambi d'umore, pipì all'aria aperta, urla violente, passano i giorni prima dell'annunciato, tragico, violento, scontato, finale di sangue". Dimenticate a forza le 29 palme, il giorno seguente è quello di Marco Bellocchio e del suo atteso Buongiorno, Notte. Il film, accolto da un esagerato consenso di critica (tanto da farlo considerare sicuro vincitore), è la storia del caso Moro, visto dagli occhi della brigatista Anna, continuamente combattuta tra il credo rivoluzionario e il sentimento umano per lo statista democristiano. Sorta di riproposizione in chiave privata di uno dei temi più saccheggiati dal nostro cinema, il film di Bellocchio ha dalla sua un eccellente rigore formale e l'acutezza nel sapere analizzare le dinamiche quotidiane della prigionia di Moro, ma pecca di alcune cadute di tono e di un soggetto troppo appesantito da alcuni giochetti cinefili, poco consoni alla tematica rappresentata. Siamo comunque di certo dalle parti dell'ottimo cinema; ulteriore conferma del progressivo miglioramento dei film presentati è infatti data dai film rimanenti: Il ritorno e l'eccellente 21 Grammi - Il peso dell'anima.
L'opera prima del russo Andrei Zvjagintsev (a sorpresa vincitore del Leone d'oro), è un film sorprendente e suggestivo, d'autore nell'accezione più positiva del termine. Storia di un uomo scomparso dalla famiglia per anni e improvvisamente rifattosi vivo, la pellicola lascia aperti molti interrogativi, concentrandosi molto più sulla cura dei dettagli di regia e sulla fotografia che sul plot, mostrando tutto il talento visivo e drammatico di questo esordiente di ferro. Duro e allo stesso tempo poetico. Di analoga drammaticità ma di differente consistenza narrativa è il nuovo film di Alejandro González Inárritu, eccellente colpo di coda di un Festival, come già detto, nel complesso poco interessante. Inarritu, prende in barca gli ottimi Sean Penn (coppa Volpi come miglior attore) e Benicio del Toro e la lanciatissima Naomi Watts e firma un grandissimo film, caratterizzato, come il precendente Amores Perros, da un controllo narrativo fenomenale e da un'avvincente strutturazione temporale. Qualche eccesso melodrammatico e intimistico non toglie al film la capacità di avvincere ed emozionare fino all'ultimo, in barba ai critici che lo hanno definito autocompiaciuto e addirittura ricattatorio.

Le altre sezioni: Molti nomi di spicco e pochi film realmente di livello hanno caratterizzato il programma collaterale della Mostra. Tra i Fuori Concorso non ancora citati, spiccano il nuovo Intolerable Cruelty (che uscirà da noi come Prima ti sposo, poi ti rovino) dei fratelli Ethan e Joel Coen (omaggio divertente, ma non trascendentale, considerando il talento degli autori, alla commedia americana degli anni 40'), il discreto Matchstick Men (Il genio della truffa) di Ridley Scott con un Nicholas Cage particolarmente su di giri e l'interessante documentario sulla storia della musica blues, coordinato da Martin Scorsese. Se Matchstick Men e Intolerable Cruelty confermano solo che Scott sa girare qualsiasi tipo di film ma ha perso la qualità delle storie e i Coen quando fanno un film minore comunque strappano sorrisi e applausi, delude invece The dreamers - I sognatori di Bernardo Bertolucci. Troppo nostalgicamente attaccato a un momento storico sul quale non riesce a non mentirsi, Bertolucci purtroppo si "muccinizza", presentandoci una pellicola stilisticamente ineccepibile ma falsa, banale e superficiale. E se neanche i cuori di tanti passionali, feticisti cinefili, accelerano il loro battito di fronte ai vacui trascorsi di tre borghesotti meno profondi di un tappo di bottiglia, probabilmente significa che qualcosa non torna in questo I sognatori.
Nella sezione Controcorrente si sono alternati film francamente inguardabili come Liberi di Tavarelli (vi prego ditemi che è un film per la televisione) e il polacco Pitons a ottimi titoli come Vodka Lemon e Casa de Los Babys del veterano indipendente John Sayles. Menzione a parte merita l'eccellente Lost in Translation (in Italia arriverà con il titolo L'amore tradotto), opera seconda della sorprendente Sofia Coppola. Sostenuta da un'interpretazione di irresistibile comicità del redivivo Bill Murray e da una leggerezza eccezionale, il film della Coppola è una delle cose migliori viste qui a Venezia e di sicuro avrebbe meritato ben altri palcoscenici.