Il meglio di Netflix nel 2017, tra cinema, TV e stand-up comedy

La piattaforma di streaming ha continuato ad ampliare la propria offerta, con alcuni risultati davvero notevoli. Ecco i titoli imprescindibili.

Okja: Tilda Swinton in una foto del film
Okja: Tilda Swinton in una foto del film

Per molti cinefili la parola "Netflix" nel 2017 sarà legata soprattutto alla polemica che ha dominato una fetta non indifferente delle conversazioni sul Festival di Cannes, "reo" di aver accettato in concorso due lungometraggi prodotti e/o distribuiti dalla società di streaming e quindi destinati a saltare l'uscita regolare in sala sul suolo francese. Questo ha portato a una modifica del regolamento della kermesse (dal 2018 in poi i produttori e registi che aspirano alla competizione principale devono impegnarsi a trovare una distribuzione tradizionale in Francia), nonché a discussioni su Netflix come "nemico" del cinema, sebbene anche un mostro sacro come Martin Scorsese abbia scelto la società californiana per poter realizzare The Irishman (il cui budget di oltre 100 milioni di dollari era ritenuto eccessivo dagli studios normali). Tralasciando la tempesta mediatica il 2017 è stato un anno piuttosto fruttuoso per Netflix, che ha notevolmente espanso la propria offerta puntando molto di più su produzioni internazionali (in lingua italiana c'è stato non solo Suburra, ma anche uno spettacolo comico di Beppe Grillo). Un autentico oceano di prodotti (almeno un film o una serie a settimana), nel quale è facile annegare. Per facilitare un po' la navigazione, proponiamo una panoramica del meglio del 2017, a cominciare proprio dal titolo che ha fomentato gli animi sulla Croisette...

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Grandi registi, altri schermi

Chi era presente alla proiezione stampa di Okja a Cannes ricorderà sicuramente l'inizio turbolento, con i fischi al logo di Netflix e i problemi tecnici che hanno portato al riavvio dello screening dopo meno di dieci minuti. Una volta superata quella fase ci siamo ritrovati di fronte a un'opera folle, libera, un misto esilarante tra favola per i più giovani (vedi l'amicizia tra la bambina protagonista e il "supermaiale" Okja) e satira sociale di stampo ecologista (impeccabili Tilda Swinton e Jake Gyllenhaal). A visione terminata era chiaro perché il regista Bong Joon-ho si fosse affidato a Netflix: col budget richiesto per portare sullo schermo la sua visione con il massimo della fedeltà il film rischiava di diventare un esperimento troppo costoso, senza troppe possibilità di sopravvivere in un ambito cinematografico tradizionale. Meno esuberante, ma anch'esso degno di nota, The Meyerowitz Stories, nuova fatica di Noah Baumbach che nel contesto del catalogo di Netflix serve soprattutto a dare un minimo di dignità alla voce "Adam Sandler". Difatti il celebre comico americano, qui al fianco di Ben Stiller e Dustin Hoffman, regala una di quelle occasionali interpretazioni meno demenziali e più umane, che il suo pubblico fedele tende a ignorare.

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Stephen King, il ritorno del Re

Il gioco di Gerald: Carla Gugino e Bruce Greenwood in una scena del film
Il gioco di Gerald: Carla Gugino e Bruce Greenwood in una scena del film

Per i fan di Stephen King il 2017 è stato un anno frustrante: da un lato il trionfo di It, dall'altro il fiasco de La Torre Nera (e, sul piccolo schermo, The Mist). Decisamente più vicino al versante positivo il contributo di Netflix (se si esclude la distribuzione internazionale del già citato The Mist), che nei mesi autunnali ha nutrito gli incubi dei suoi abbonati con ben due adattamenti delle storie del Re del brivido. Più modesto in termini d'ambizione, ma comunque notevole, 1922 è un buon racconto d'atmosfera, con un inquietante Thomas Jane al centro dell'attenzione. Ma il vero colpaccio è stato Gerald's Game, adattamento dell'omonimo romanzo a cura di Mike Flanagan (Hush - il terrore del silenzio), il quale ha approfittato della libertà creativa concessa dalla piattaforma di streaming per portare sullo schermo senza censure un libro i cui contenuti non sono facili (giochi erotici perversi, un serial killer necrofilo, flashback incestuosi). In particolare, ha fatto parlare di sé una scena che i lettori hanno sempre sognato di vedere coi propri occhi, divenuta oggetto di marketing creativo da parte di Netflix (vedi video sotto).

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Immaturità massima

American Vandal: Jimmy Tatro in una scena della serie
American Vandal: Jimmy Tatro in una scena della serie

Nel mese di settembre hanno attirato l'attenzione due serie comiche, legate da una certa puerilità a livello di umorismo. Parliamo di American Vandal, mockumentary che satirizza il genere del true crime (il riferimento esplicito è un altro serial di Netflix, Making a Murderer) nel contesto goliardico del liceo (il mistero da risolvere è quello di una serie di graffiti raffiguranti genitali maschili), e Big Mouth, ritratto animato piuttosto esplicito degli orrori della pubertà che si ispira liberamente all'adolescenza del creatore e protagonista Nick Kroll. Nel primo caso abbiamo a che fare con un programma dove la componente demenziale (ispiratissimo l'hashtag #whodrewthedicks) non soffoca mai l'integrità strutturale del mystery, mentre il secondo è un romanzo di formazione a dir poco folle e, una volta accettata la soglia di volgarità, spassosissimo. Non manca nemmeno l'autoironia: come sottolinea a un certo punto il Mostro Ormonale (manifestazione fisica degli impulsi puberali dei protagonisti), l'animazione è fondamentale per mettere in scena certi eventi senza accuse di pedopornografia.

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Miniserie d'autore

Godless: un'immagine della serie Netflix
Godless: un'immagine della serie Netflix

All'ultima edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia è stato possibile scoprire in anteprima due produzioni seriali di Netflix: una era Suburra, di cui sono stati mostrati i primi due episodi, l'altra era Wormwood, presentata integralmente (sei puntate) e accompagnata dal suo regista, Errol Morris. Il grande documentarista, premio Oscar per The Fog of War, ha applicato al meccanismo seriale il suo inconfondibile rigore stilistico, alternando interviste nel presente a scene che riproducono quello che presumibilmente è accaduto anni prima, nel tentativo di scoprire cosa sia successo a uno scienziato (Peter Sarsgaard) morto in circostanze misteriose durante la Guerra Fredda. C'è invece lo zampino di Steven Soderbergh, co-creatore insieme allo sceneggiatore e regista Scott Frank, nella produzione di Godless, un western brutale e magnifico incentrato sulla vendetta, con un impareggiabile Jeff Daniels nei panni dell'antagonista. Due prodotti molto diversi, ma entrambi indicativi del desiderio di Netflix di addentrarsi nei territori "di prestigio" solitamente associati al catalogo della HBO.

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Bentornato, Frank!

The Punisher: una foto del protagonista Jon Bernthal
The Punisher: una foto del protagonista Jon Bernthal

L'avevamo già visto e ammirato nella seconda stagione di Daredevil, il cui successo ha portato alla richiesta di un apposito spin-off. Parliamo di Frank Castle alias il Punitore, la cui serie personale è arrivata su Netflix alla fine dell'anno, una volta chiusa la storyline principale legata ai Difensori con Iron Fist e The Defenders. Questi ultimi erano ancora dei prodotti riconoscibilmente supereroistici, mentre The Punisher, fatta eccezione per il logo che appare nei titoli di testa, ha poco o nulla da spartire con le tipiche storie della Marvel: questo è un racconto di vendetta allo stato puro, intriso di complotti e rese dei conti ad alto tasso di sangue, con diverse sequenze capaci di mettere alla prova anche chi è abituato alle atmosfere più brutali delle altre serie Marvel su Netflix. E al centro di tutto c'è la grandissima performance di Jon Bernthal, quarto attore scritturato per la parte di Castle dal 1989 a oggi ma primo a renderne pienamente la complessità, convincendoci a fare il tifo per uno psicopatico senza possibilità di redenzione (o almeno così sembra). Aspettiamo ora la seconda stagione, già confermata.

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A volte ritornano

Stranger Things: Winona Ryder in una foto della seconda stagione
Stranger Things: Winona Ryder in una foto della seconda stagione

Per certi versi il 2017 è stato l'anno in cui molti si sono resi conto che anche Netflix, pur avendo risorse considerevoli, deve talvolta prendere delle decisioni motivate dal fattore economico. Certo, pochi sentiranno veramente la mancanza di Girlboss e Gypsy, prime serie della piattaforma a non avere diritto alla seconda stagione, mentre ha generato una certa controversia la cancellazione di Sense8, che si chiuderà con uno speciale di due ore anziché le tre stagioni ulteriori previste dai creatori. Ci sono però altri prodotti che vivono in perfetta salute, in particolare due delle rivelazioni del 2016 che sono tornate con i rispettivi secondi volumi: da un lato, i misteri paranormali di Stranger Things, più dark e ambizioso rispetto allo scorso anno, sempre legato all'iconografia degli anni Ottanta ma senza cedere alla tentazione della nostalgia fine a se stessa; dall'altro i drammi regali di The Crown, il cui secondo ciclo di episodi è l'ultimo per il cast attuale e sfrutta fino in fondo la bravura di Claire Foy (che sarà sostituita da Olivia Colman) e Matt Smith (il cui successore non è ancora ufficialmente noto).

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Nella mente dei killer

Mindhunter: un'immagine della serie
Mindhunter: un'immagine della serie

Nel 2013 David Fincher fu tra i primi esponenti della rivoluzione di Netflix, in quanto produttore esecutivo di House of Cards e regista dei primi due episodi. Quattro anni dopo è tornato alla corte di Reed Hastings e Ted Sarandos con MINDHUNTER, thriller psicologico nel senso più puro del termine, dove la tensione deriva non tanto da omicidi efferati quanto piuttosto da quello che si nasconde nella mente di chi li compie. Continuando a esplorare un argomento che lo appassiona dai tempi di Seven, Fincher firma un ritratto agghiacciante e irresistibile del peggio dell'umanità, con un duo strepitoso (Jonathan Groff, veterano di Broadway e Glee, e il caratterista Holt McCallany) a indagare sul lato oscuro che si cela in ognuno di noi.

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Risate catartiche

Patton Oswalt in una scena del film Big Fan
Patton Oswalt in una scena del film Big Fan

Da diversi anni Netflix coltiva un rapporto fruttuoso con la stand-up comedy, reclutando nomi di prestigio per accordi di un certo peso. Tra le chicche di quest'anno impossibile non segnalare Jerry Before Seinfeld, misto di documentario e performance con Jerry Seinfeld che rivisita i luoghi dove ha iniziato il suo percorso professionale prima di creare una delle sitcom più redditizie di sempre, o gli speciali multipli di Dave Chappelle, tornato in pista dopo anni di silenzio e portavoce del pensiero comico black che fa da contraltare al clima politico statunitense attuale. E poi c'è Annihilation, l'ultimo spettacolo di Patton Oswalt, un misto di dolore e ilarità che non lascia indifferenti. La vera raison d'être dello speciale viene infatti svelata in un secondo momento, quando Oswalt passa dalle solite battute su Donald Trump e sui nerd a un monologo personale e catartico, non per forza divertente (ma le parti comiche sono impeccabili), su come la sua vita sia cambiata dopo la morte della moglie nella primavera del 2016. Lo stand-up diventa in questa sede uno strumento terapeutico, e il comico si mette a nudo mostrando l'essere umano che si cela dietro la scorza di parolacce e rimandi alla cultura popolare. Come ha spiegato lo stesso Oswalt, il titolo Annihilation allude sia all'effetto devastante del lutto che al gergo dei comici americani, i quali tendono a usare il verbo kill, uccidere, per dire che hanno avuto successo sul palco. Una scelta doppiamente azzeccata.