Abbiamo già parlato, nella prima parte di questo approfondimento, dell'accoglienza, dei premi, e delle caratteristiche singolari del gioiello della filmografia di Quentin Tarantino, nell'occasione del ventennale dall'uscita; questa seconda parte del nostro articolo si concentra sui temi e sul retaggio del film che ha segnato un'intera generazione di cinefili.
La presunta violenza
Tarantino si è liberato parzialmente dal ghetto della violenza in cui era stato condannato solo grazie a Bastardi senza gloria e, soprattutto, a Diango Unchained. Fino ad allora, il suo cinema ha rischiato di rimanere recluso in un circuito di fan sfegatati - dunque rimanendo prigioniero di questi - come, in modo non troppo dissimile è successo in passato a un altro grande cineasta americano, John Carpenter, sottostimato perché ritenuto adatto solo a un pubblico di "orrorofili".
Pulp Fiction, vista la notorietà che diede al suo cineasta, segna ufficialmente questa forma di condanna per Tarantino, nonostante la Palma d'Oro. Si teneva poco in conto - e ancora adesso si tende a non ragionare abbastanza su questo punto - che la violenza di Pulp Fiction e, in generale, del cinema di Tarantino è più verbale che visiva, tanto che alcune scene clou molto dibattute all'epoca - come ad esempio la sodomizzazione di Marsellus o la "pugnalata" per risvegliare dal coma Mia o, ancora, l'uccisione involontaria del giovane Marvin in macchina per opera di Vincent - sono tenute fuori campo o montate in modo ellittico, in cui il sonoro (o il sangue) si limita ad evocarle. Addirittura la sequenza dell'incontro di pugilato di Butch non viene mostrata e si intuisce che si sia trattato di un momento particolarmente violento, visto che il suo avversario - ci viene detto - è morto. Il meccanismo della violenza in Pulp Fiction è infatti al servizio di un gioco sulla consapevolezza cinematografica, un gioco che supporta la teoria secondo cui stiamo assistendo semplicemente ad una "fiction"; la violenza perciò è sempre innocua e, anzi, liberatoria. In tal senso, si tende a dimenticare che la vera violenza è, spesso, quella che si muove al servizio di un'ideologia, quella ad esempio del cinema reaganiano degli anni Ottanta, degli eroi muscolari e tutti d'un pezzo che Tarantino, ripescando la maschera di Bruce Willis, mette al contrario in ridicolo e aiuta perciò a seppellire definitivamente. Il personaggio di Butch, pur preso da accessi di violenza, è ben distante dall'eroe anni '80, in particolare per via del rapporto tenero e infantile che ha con la sua donna. La stessa morte di Vincent Vega più che come un regolamento di conti - quel che potrebbe essere l'apice narrativo - viene mostrata come una tragica casualità e l'inquadratura che mostra il cadavere del gangster sembra quasi un'installazione pop. Forse l'unico momento di violenza non stilizzata e non parodistica di Pulp Fiction si ha quando, per un attimo, si vede nel bagagliaio dell'auto il corpo del ragazzo ucciso involontariamente. Qui Tarantino piazza un colpo che anticipa il discorso dei suoi ultimi due film, in cui la violenza non è più solamente parodica (o al servizio del crudele sadismo di alcuni personaggi come in Le iene): si è riso e si è scherzato e, grazie all'intervento di Mr. Wolf, tutto è stato risolto, ma in fin dei conti c'è pur sempre il cadavere di un povero disgraziato in un bagagliaio.
La cinefagia
Si potrebbero riempire pagine e pagine per elencare tutte le citazioni presenti in Pulp Fiction e, ovviamente, non lo faremo. La cinefagia di Tarantino può essere paragonata in tutta la storia del cinema solamente a quella di Takashi Miike e i due registi, non a caso, intrattengono degli stretti rapporti (Tarantino infatti ha recitato in Sukiyaki Western Django di Miike, prima ancora di realizzare il suo Django). Per evitare di dover stilare un elenco forse è meglio concentrarsi solo su alcuni aspetti, quelli relativi all'iconografia statunitense. Infatti, benché la passione cinefila di Tarantino sia per sua natura "bastarda" e meticcia, è inevitabile trovare un maggior numero di riferimenti - in particolare in Pulp Fiction - nel solco del cinema americano.
Da un lato la blaxploitation (e i capelli di Samuel L. Jackson sono lì a ricordarcelo), dall'altro la commistione con l'immaginario hongkonghese (la serie TV Kung Fu con David Carradine, citata sempre da Jackson), dall'altro ancora Robert Aldrich (la valigetta misteriosa viene da Un bacio e una pistola, lo storpio mascherato da I ragazzi del coro). Pare poi inevitabile ritrovare in Pulp Fiction, anche se in maniera indiretta, la lezione di Howard Hawks e quella - letteraria - di Raymond Chandler. Da entrambi Tarantino sembra aver mutuato un atteggiamento cinico e scanzonato verso la vita, un'idea di grande commedia umana al di là dell'ambientazione scelta (il western o il racconto gangsteristico) e una sorta di anti-epica che però, invece di essere scardinata dall'understatement, viene messa in ridicolo attraverso una serie di paradossi. Ma la vera grande citazione dell'immaginario della Hollywood classica la si ha in Pulp Fiction nel momento in cui Mia e Vincent vanno al Jackrabbit Slim's, un locale i cui camerieri sono dei sosia di Marilyn Monroe, di James Dean e di altre figure celebri dello star system. È questo il momento più post-moderno del film, quello in cui Tarantino "si mette a disposizione" l'intero universo della Hollywood classica, pronto a essere rielaborato e rivisto, un mondo osservato senza nostalgia quanto con sapido gusto parodico.
Le star
Pulp Fiction ha segnato l'immaginario contemporaneo anche per un altro motivo: il ripescaggio di star decadute e/o l'idea di metterle in scena in modo auto-ironico. E, in questo, sicuramente Tarantino si è ricordato di quel che fece Sergio Leone in C'era una volta il West, quando affidò il ruolo del cattivo al buono per antonomasia della Hollywood classica: Henry Fonda. In particolare, in Pulp Fiction l'operazione si palesa con John Travolta e Bruce Willis. Il primo veniva da una lunghissima fase di declino, lontano anni luce dai fasti di La febbre del sabato sera. Tarantino lo ripesca, lo mette in scena ingrassato e sempre svagato, come se ogni volta dovesse parlare controvoglia e poi lo fa esibire nel magnifico balletto in compagnia di Uma Thurman, permettendogli perciò di ricordarci le sue notevoli doti di ballerino. L'idea di Tarantino è che ogni star hollywoodiana porti con sé i segni - quasi le cicatrici - dei film precedenti in cui ha recitato; e che quel corpo divistico dialoghi necessariamente con il se stesso del passato. In tal senso Christopher Walken, quale reduce dal Vietnam, dialoga con Il cacciatore; mentre Rosanna Arquette, nei panni della ragazza il cui corpo è ricoperto di piercing, dialoga con il personaggio da lei interpretato in Fuori orario (in cui si fantasticava sul suo corpo interamente ricoperto di ustioni, per poi scoprire che non era vero). Bruce Willis, invece, la vera star del film, si fa carico di tutto l'immaginario dell'eroe anni Ottanta e, dopo alcuni insuccessi al botteghino, ritorna alla grande con Pulp Fiction mettendosi in scena in modo auto-ironico. Dopo Pulp Fiction, a Hollywood si capirà che è particolarmente divertente giocare con il personaggio che ci si è cuciti addosso e ribaltarlo. Brad Pitt in Burn After Reading o Tom Cruise in Tropic Thunder sono i primi esempi che vengono in mente, i più eclatanti; ma, addirittura, la trilogia di Ocean diretta da Steven Soderbergh sembra essere stata concepita proprio per questo, per un gioco d'attori-divi in cui si ragiona sia sulle commedie Rat Pack che sul post-moderno. Ed è stato possibile sia elaborare che realizzare queste intuizioni grazie a Pulp Fiction e al suo successo.
La musica
La colonna sonora di Pulp Fiction è altrettanto celebre, se non di più, del film stesso. Non solo per via del ripescaggio di canzoni del passato (su tutte il surf di Dick Dale del '62, Misirlou, rielaborazione di una canzone popolare greca) o per la cover di Neil Diamond fatta dagli Urge Overkill (Girl, You'll Be a Woman Soon), quanto per la concezione stessa della composizione sonora, in cui entrano a far parte anche alcune linee di dialogo (come ad esempio il monologo biblico di Samuel L. Jackson). In questo modo, pur non essendoci tracce scritte appositamente per il film, la colonna sonora di Pulp Fiction diventa immediatamente tarantiniana perché appare come un unico flusso, tra dialoghi e musica. L'operazione è identica e, anzi, organica al citazionismo cinematografico: da un immenso calderone si riesce a comporre un immaginario coerente, sia visivo che sonoro. Ed è forse l'uso che Tarantino fa della colonna sonora ad avvicinarlo a Martin Scorsese, più ancora che per l'ambientazione gangsteristica. In particolare, viene in mente l'esplosione sonora di Quei bravi ragazzi, con la differenza però che Scorsese insiste su alcuni grandi classici e sul rispetto della cronologia storica - dai Rolling Stones alle Ronettes, passando per la cover di My Way di Syd Vicious - mentre Tarantino salta con grande libertà da un genere all'altro, preferendo la scelta spiazzante. In tal senso, il citatissimo cambio di traccia sui titoli di testa (da Misirlou a Jungle Boogie) è sì l'anticipazione di una struttura narrativa acefala, da juke-boxe, ma è anche - più tecnicamente - un ricordo radiofonico di Le iene (il cui leitmotiv era dato dalla voce di un DJ) , oltre che un avvertimento sui mille volti sonori che avrà Pulp Fiction e sull'importanza che la musica avrà nel film, non semplice accompagnamento, quanto vera e propria protagonista.
Le influenze
Imitato per anni, il modello di Pulp Fiction - proprio perché irripetibile - non è stato mai seguito in pieno. Da un lato ha fatto scuola il modo di usare gli attori, dall'altro ha impresso un segno indelebile l'orchestrazione della colonna sonora, dall'altro ancora si è tentato di ricreare la particolare struttura narrativa. Un regista come Alejandro González Iñárritu e uno sceneggiatore come Guillermo Arriaga hanno costruito praticamente tutta la loro carriera partendo dallo spunto delle storie intrecciate e non è un caso che il loro primo grande successo, Amores Perros, sia stato definito il Pulp Fiction messicano. La differenza però - così come in Crash - contatto fisico di Paul Haggis - rispetto a Pulp Fiction è che in queste vicende intrecciate ci si muove alla ricerca di un disegno che vada al di là della comprensione umana. Tutto quindi è al servizio di una morale, quasi di una legge divina, mentre il film di Tarantino, al contrario, usa la sua struttura per scardinare le regole (anche se è vero che Vincent viene ucciso per non aver creduto al segno divino dei proiettili che l'hanno mancato, mentre Jules - che ci ha creduto - si salva; ma la struttura narrativa serve anche a nascondere questa morale).
La violenza e lo sberleffo tarantiniani - insieme o separatamente - hanno segnato parecchio cinema successivo, da Traffic a Seven, da Snatch a I soliti sospetti, passando per il dittico di Barry Sonnenfeld, Get Shorty e Be Cool (in cui Travolta e la Thurman tornano a ballare insieme), fino a tutto il cinema di Robert Rodriguez, grande sodale di Tarantino. Anche i fratelli Coen sembrano aver ripreso qualcosa da Pulp Fiction, in particolare ne Il grande Lebowski. Il Drugo interpretato nel film da Jeff Bridges è infatti molto simile nelle fattezze e nel modo di vestirsi allo spacciatore Lance. Ma, al di là, di questa somiglianza di facciata, forse è possibile cogliere anche un possibile parallelismo caratteriale tra il Drugo e un altro personaggio di Tarantino, Vincent Vega: entrambi danno l'impressione accettare malvolentieri i ruoli e le azioni in cui si trovano coinvolti ed entrambi appaiono distanti e quasi estranei rispetto a quanto avviene davanti ai loro occhi. Del resto, sia Vincent che il Drugo si comportano come se fossero sempre sotto l'effetto - e difatti lo sono - di stupefacenti di varia natura. Il modo in cui i due sono in scena quasi da autistici li connota in modo particolare e ne fa, di nuovo, un esempio e un modello di personaggio completamente diverso dall'eroe anni Ottanta.
Anche in Italia Pulp Fiction farà scuola, scatenando persino la nascita di un movimento letterario (il genere pulp) che, però, esploso alla metà degli anni Novanta, finirà ben presto per estinguersi. Ma, più che influenzare il cinema coevo, da noi il fenomeno Tarantino spingerà alla ri-lettura del cinema italiano del passato, inducendo a una serie di scoperte e di recuperi (a volte anche eccessivi) il cui momento istituzionale è stato segnato dalle retrospettive veneziane intitolate Italian Kings of the B's (e patrocinate dalla presenza dello stesso Tarantino). Del resto, persino un documentario recente, dedicato ai nostri grandi artigiani del passato, è stato intitolato I tarantiani, secondo un'ottica probabilmente esagerata, come se tutto il nostro B-movie debba ormai essere necessariamente legato al regista italo-americano.
Ma Tarantino e Pulp Fiction continuano ad essere ricordati ovunque e in ogni occasione, anche naturalmente nell'ambito del cinema americano. L'omaggio più recente lo ritroviamo in un blockbuster, Captain America: The Winter Soldier, in cui sulla lapide del personaggio interpretato da Samuel L. Jackson viene riportato l'inizio della celeberrima citazione dalla Bibbia (tra l'altro falsa, perché reinventata da Tarantino) che l'attore ripeteva in Pulp Fiction ogni volta che il suo personaggio doveva uccidere qualcuno: Ezechiele 25, 17, "Il cammino dell'uomo timorato..."
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