È stato un verdetto in buona parte preannunciato ed estremamente applaudito, quello con cui sabato scorso la giuria presieduta da Sam Mendes ha assegnato il Leone d'Oro della 73° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia a The Woman Who Left. Un'opera suggestiva ed emozionante, quella diretta dal regista filippino Lav Diaz: la storia del ritorno a casa di una donna, Horacia Somorostro (la superba Charo Santos-Concio), dopo un lungo periodo trascorso in carcere, per riallacciare rapporti familiari e sociali, instaurare nuove amicizie, ma anche per confrontarsi con un passato doloroso e trovare una serenità quasi insperata.
Un'incoronazione che, per quanto accolta con estremo favore da gran parte degli addetti ai lavori, ha lasciato purtroppo anche uno sterile codazzo di "polemiche del giorno dopo", sollevate da alcuni critici e giornalisti che non hanno perso l'occasione per accusare il Festival di Venezia di elitarismo e di una presunta distanza dal grande pubblico (ma per paradosso, osservazioni simili sono arrivate in prevalenza da chi il film non l'ha visto affatto o ha abbandonato la sala in anticipo). Polemiche francamente scialbe e inutili, generate soprattutto dal pregiudizio nei confronti della durata 'imponente' di The Woman Who Left (duecentoventisei minuti) e da una regia costituita quasi interamente da piani sequenza con camera fissa.
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Ma a voler mettere da parte i pregiudizi (come perlomeno la critica sarebbe tenuta a fare), in realtà nel film di Lav Diaz tanto la durata quanto le scelte di messa in scena, incluso un bianco e nero magnetico che definisce con sorprendente precisione la profondità di campo, sono funzionali ad un'esperienza immersiva di rara potenza, offrendo fra l'altro, in ogni inquadratura, immagini talmente ricche e complesse da stimolare costantemente il proprio pubblico. Il Leone d'Oro 2016, pertanto, potrebbe contribuire non poco ad accrescere la visibilità di un cinema dalle modalità narrative anticonvenzionali; e per Lav Diaz si tratta del maggiore riconoscimento di una carriera che, negli ultimi anni, l'ha visto partecipare ad altri Festival di rilievo come Cannes (Norte, The End of History, proiettato nel 2013 nella sezione Un Certain Regard), Locarno (From What Is Before, vincitore del Pardo d'Oro nel 2014) e Berlino (A Lullaby to the Sorrowful Mystery, ricompensato nel 2016 con il premio Alfred Bauer, riconosciuto a opere che "aprono nuove prospettive all'arte cinematografica").
D'altronde l'obiettivo dei Festival dovrebbe consistere proprio in questo: celebrare il buon cinema e, com'è auspicabile, permettere a film in apparenza lontani dalla sensibilità del grande pubblico di ricavarsi un loro spazio e di essere scoperti e apprezzati pure in altre nazioni e in continenti lontani. Com'è stato appunto per il cinema asiatico, la cui impressionante rinascita, proprio a partire dalla fine degli anni Ottanta, probabilmente non avrebbe avuto un impatto così significativo sul mercato occidentale se non fosse stato per vetrine prestigiose quali Cannes e Venezia. E il trionfo di Lav Diaz, con il primo Leone d'Oro attribuito a un regista filippino, ci offre l'opportunità di indagare il fruttuoso rapporto fra la Mostra di Venezia e il cinema asiatico, ripercorrendo la storia dei "Leoni orientali" dal 1989 ai giorni nostri.
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La Cina è vicina: i Leoni di Hou Hsiao-hsien e Zhang Yimou
Il 1989, appunto, è l'anno in cui lo sguardo del pubblico festivaliero (e non solo) si sposta finalmente verso Est, in direzione di paesi come la Cina e Taiwan, rimasti per decenni lontanissimi dall'attenzione degli spettatori europei. Ad "aprire le danze", perlomeno in ambito veneziano, è il taiwanese Hou Hsiao-hsien, che alla 46° Mostra di Venezia si aggiudica il Leone d'Oro per il miglior film grazie a Città dolente: una straordinaria saga familiare in cui gli sconvolgimenti politici di Taiwan dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale (il ritorno alla Cina, la guerra civile, la strage del 28 febbraio 1947, il "Terrore bianco") sono rievocati attraverso i drammi privati della famiglia Lin. All'epoca, Hou Hsiao-hsien aveva già firmato opere importanti come I ragazzi di Feng Kuei, In vacanza dal nonno e A Time to Live, a Time to Die, ma è Città dolente a sdoganarlo definitivamente in Europa: le sue narrazioni sommesse ed ellittiche, lo stile rigoroso e quasi distaccato, ma capace di generare un intenso coinvolgimento, diventano i marchi di fabbrica di un cinema fino ad allora sconosciuto. Città dolente, per quanto mai distribuito nelle sale italiane (è uscito direttamente in home video), è stato consacrato in breve tempo come uno dei massimi capolavori del cinema orientale, mentre Hou diventerà un habitué del Festival di Cannes (fino al premio alla regia nel 2015 per The Assassin ).
Ed è sempre Hou a produrre, nel 1991, il film che avrebbe segnato il "punto di non ritorno" per la diffusione del cinema asiatico nel mondo: Lanterne rosse, iconico capolavoro del regista cinese Zhang Yimou. Già fattosi apprezzare dalla critica grazie a Sorgo rosso (Orso d'Oro al Festival di Berlino 1988) e Ju Dou (nomination all'Oscar come miglior film straniero del 1990), nel 1991 Zhang vince il Leone d'Argento al Festival di Venezia con la sua trasposizione del breve romanzo Mogli e concubine di Su Tong, ambientato nella Cina degli anni Venti: la struggente parabola della giovane Songlian, la "quarta signora" del nobile Chen Zuoqin, costretta a dividere l'affetto del marito con le altre tre mogli, ritrovandosi coinvolta in un gioco al massacro che si consuma tutto all'interno dello spazio claustrofobico della dimora di Chen. Opera ammirevole per la fredda eleganza della messa in scena e per l'impietoso ritratto della condizione femminile (al punto da essere bandita in Cina), Lanterne rosse non solo ottiene la nomination all'Oscar come rappresentante di Taiwan, ma registra un inaudito successo di pubblico a livello internazionale, Italia inclusa; e all'improvviso non solo la critica, ma anche i distributori si rendono conto delle enormi potenzialità del cinema orientale.
Il legame fra Zhang Yimou e Venezia non si limita però a Lanterne rosse: soltanto un anno dopo, Zhang torna al Lido con La storia di Qiu Ju, eccellente esempio di "realismo sociale" che vede protagonista la stessa, meravigliosa interprete del film precedente, la diva Gong Li, questa volta nella parte della moglie incinta di un contadino, impegnata in una snervante lotta contro la burocrazia cittadina allo scopo di ottenere giustizia per il marito. Pellicola asciutta e amarissima, La storia di Qiu Ju riceve il Leone d'Oro al Festival di Venezia 1992 insieme alla Coppa Volpi come miglior attrice per Gong Li. Un secondo Leone d'Oro per Zhang Yimou arriverà appena sette anni dopo, nel 1999, con Non uno di meno (rifiutato al Festival di Cannes): un altro esempio di dramma a sfondo sociale e di ambientazione contemporanea, nonché il racconto di un altro viaggio dalla campagna alla città. Il viaggio in questione è quello compiuto da Wei Minzhi, una supplente tredicenne nella scuola di una disagiata comunità rurale, disposta ad ogni sforzo pur di rintracciare uno dei suoi piccoli alunni. Nella stessa edizione della vittoria di Non uno di meno, anche il Leone d'Argento batte bandiera cinese: si tratta di Diciassette anni di Zhang Yuan, dramma sulla Cina contemporanea vista attraverso lo sguardo di Tao Lan, una donna che fa ritorno in famiglia dopo diciassette anni in prigione.
Così lontano, così vicino: storie di ordinaria solitudine fra Taiwan, Vietnam e Giappone
Al Festival di Venezia 1994, una giuria spaccata fra vari ex aequo distribuisce un doppio Leone d'Oro, premiando - accanto al film macedone Prima della pioggia - l'opera seconda di Tsai Ming-liang, altro esponente della Nouvelle Vague taiwanese insieme al quasi coetaneo Ang Lee: Vive l'amour. In questo caso, la giuria veneziana sceglie di celebrare un cinema ermetico, in cui i rapporti fra l'agente immobiliare Mei-Mei Lin, il venditore ambulante Ah-Jung e il giovane omosessuale Hsiao-kang, che si incrociano in un appartamento disabitato di Taipei, vengono dipinti attraverso lunghi silenzi e piani sequenza fissi, volti ad esprimere l'inesorabile solitudine dei tre protagonisti. Un approccio ancora più estremo, tanto da sfociare nel manierismo, sarà quello adottato da Tsai nel più recente Stray Dogs, inquietante spaccato della miseria di una famiglia di Taipei, che al Festival di Venezia 2013 si porta a casa il Gran Premio della Giuria. Un anno dopo Vive l'amour è un altro semiesordiente, il vietnamita naturalizzato francese Tran Anh Hung, ad aggiudicarsi il Leone d'Oro con Cyclo: e anche in questo caso, il crudo realismo della materia narrativa - il sottobosco malavitoso di Saigon raccontato mediante una serie di storie parallele - è declinato secondo uno stile astratto e quasi visionario, basato soprattutto sui silenzi e sul potere delle immagini.
E con Venezia ha un debito considerevole pure uno dei nomi di punta del cinema giapponese, conosciuto in patria in qualità di attore e comico prima di affermarsi come uno dei più originali registi del paese del Sol Levante: Takeshi Kitano. Dopo aver attirato l'interesse dei critici nel 1993 con Sonatine ed essere incappato nel mezzo disastro del demenziale Getting Any?, nel 1997 Kitano raggiunge un'improvvisa consacrazione con Hana-bi - Fuori di fuoco, che incanta il pubblico veneziano e si aggiudica il Leone d'Oro come miglior film. La vicenda dell'ex poliziotto Nishi (interpretato dallo stesso Kitano), con una moglie malata terminale di leucemia, e quella del suo collega Horibe, rimasto paralizzato a causa di una sparatoria, è raccontata da Kitano con un andamento contemplativo, del tutto agli antipodi rispetto ai canoni del genere poliziesco, in un insolito amalgama fra poesia, umorismo e una profonda malinconia. Da allora il regista giapponese porterà a Venezia quasi tutti i suoi titoli successivi, incluso il bizzarro film di cappa e spada Zatoichi, ironica rivisitazione delle pellicole sui samurai, che al Festival del 2003 ottiene il Leone d'Argento.
Banchetti di nozze e case vuote: l'India di Mira Nair e la Corea di Kim Ki-duk
A Venezia, il nuovo millennio è inaugurato da una clamorosa doppietta per il cinema indiano, relegato solitamente ai margini dell'attenzione mediatica. Al Festival del 2000, Buddhadeb Dasgupta riceve il Leone d'Argento per la miglior regia per Uttara - I lottatori, una storia d'amicizia e di violenza ambientata in una piccola comunità rurale del Bengala, mentre nel 2001 un verdetto molto controverso (probabile frutto di divisioni interne alla giuria) spedisce il Leone d'Oro nelle mani di Mira Nair, regista lanciata nel 1988 dal successo di Salaam Bombay! e incoronata a Venezia grazie a Monsoon Wedding: una commedia corale che, attraverso un caotico e problematico ricevimento nuziale, mette in evidenza con umorismo le contraddizioni dell'India contemporanea. Il Festival del 2002 vede invece fare capolino per la prima volta sul podio del palmarès veneziano la Corea del Sud, che sarà fra i paesi protagonisti dei circuiti festivalieri degli ultimi quindici anni: è infatti l'edizione del Leone d'Argento per Oasis di Lee Chang-dong, sofferta storia d'amore fra un giovane con un ritardo mentale e una ragazza affetta da una paresi cerebrale, osteggiati dalle rispettive famiglie.
Ma l'incontrastato alfiere del cinema sudcoerano è senz'altro Kim Ki-duk, che proprio al Festival di Venezia, nel 2004, raccoglie lodi entusiastiche e trova il trampolino per un inaspettato successo con Ferro 3 - La casa vuota. Attivo dalla metà degli anni Novanta e decisamente prolifico, nel 2004 Kim Ki-duk colleziona sia l'Orso d'Argento a Berlino con La samaritana, sia il Leone d'Argento a Venezia con Ferro 3, sua terza pellicola in concorso al Lido dopo L'isola e Indirizzo sconosciuto: un'opera surreale ed enigmatica costruita attorno all'amore 'senza parole' fra Tae-suk e Sun-hwa, il cui romanticismo fantasmatico riesce ad ammaliare anche gli spettatori europei. A Venezia, a Kim Ki-duk andrà perfino meglio nel 2012, quando Pietà strappa a sorpresa il Leone d'Oro a The Master: una narrazione più tradizionale rispetto agli altri film di Kim, condita da simbolismi cristologici e da una gestione disturbante della sessualità e della violenza, per esplorare il rapporto fra Lee Kang-do, scagnozzo al soldo di un usuraio, e Jang Mi-sun, una donna misteriosa che afferma di essere sua madre.
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La Cina di ieri, oggi e domani: Jia Zhang-ke e Ang Lee
Fra i cineasti asiatici più rappresentativi e acclamati dell'ultimo decennio, Jia Zhang-ke si è impegnato a portare sullo schermo le storture e i lati oscuri di una Cina proiettata verso una modernizzazione sfrenata, ma che non riesce a porre rimedio alle differenze sociali, al senso di disagio e di solitudine dei suoi abitanti e all'ineluttabile perdita delle radici e dei legami. Un controcanto alle "magnifiche sorti e progressive" avviato già in Still Life, vincitore del Leone d'Oro al Festival di Venezia 2006: un film basato su due storie parallele (in entrambi i casi si tratta di ricerche di coniugi scomparsi) e ambientato a Fengje, centro urbano in fase di evacuazione e destinato ad essere distrutto per far posto alla costruzione di una diga. Il discorso sui cambiamenti e sul malessere della Cina odierna sarà ripreso da Jia nei suoi film più recenti, presentati invece a Cannes: Il tocco del peccato e Al di là delle montagne.
Un anno dopo, al Festival del 2007, è il taiwanese Ang Lee, il regista de La tigre e il dragone, ad assicurarsi un secondo Leone d'Oro ad appena due anni di distanza da quello vinto per la produzione americana I segreti di Brokeback Mountain. Il bis avviene grazie a Lussuria - Seduzione e tradimento, dramma spionistico ambientato a Shanghai all'inizio degli anni Quaranta, nel periodo dell'occupazione giapponese, e incentrato sul personaggio di Wong Chia-chi, giovane attivista della resistenza cinese che intraprende una relazione clandestina con Mr. Yee, capo della polizia segreta. La fedeltà alla causa, tuttavia, si scontrerà con la forza dell'eros e dei sentimenti. Nel 2011, infine, è il regista cinese Cai Shangjun a ricevere il Leone d'Argento per People Mountain, People Sea: la triste parabola di Lao Tie, ossessionato dal proposito di vendicare l'omicidio del fratello, nel corso di un viaggio che offre un affresco desolante e senza speranza di un paese devastato dalle ingiustizie e dalla corruzione. Altre "città dolenti", altre testimonianze di un cinema che non ha paura di osservare con lucidità il passato e il presente, cercando al contempo di aprire qualche spiraglio per un futuro meno cupo.
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