Una pioggia di applausi alla 71° edizione della Mostra del Cinema di Venezia, che ha avuto l'onore di inaugurare nella giornata d'apertura; la vittoria di due Golden Globe per la sceneggiatura e per il suo protagonista, un superbo Michael Keaton in un ruolo in grado di consacrare un'intera carriera, oltre a una valanga di altri riconoscimenti; un totale di nove candidature agli Oscar, in attesa di una cerimonia che lo vedrà come probabile frontrunner in un serrato testa a testa con Boyhood.
Dopo aver incantato la critica di tutto il mondo, da giovedì arriverà finalmente anche nelle sale italiane, distribuito da Fox, uno dei film più acclamati dell'intera annata: Birdman (o Le imprevedibili virtù dell'ignoranza), pellicola prodotta, diretta e co-sceneggiata dal cineasta messicano Alejandro González Iñárritu, già autore di quattro opere estremamente apprezzate tanto in America quanto in Europa, ovvero Amores perros (suo dirompente lungometraggio d'esordio del 2000), 21 grammi - Il peso dell'anima, Babel e Biutiful.
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Il cinema di Iñárritu: dalla Babele dei destini incrociati al palcoscenico
Se i primi quattro film di Iñárritu hanno espresso una cifra stilistica ed una poetica decisamente peculiari, tanto da definire in maniera quasi inconfondibile le caratteristiche del cinema del regista messicano, Birdman al contrario è riuscito a spiazzare del tutto gli spettatori. Per Iñárritu, che ci aveva abituato a pellicole corali dal fortissimo impatto drammatico e ad un'osservazione quanto mai amara delle sorti umane dipinte nella loro ineluttabile miseria, Birdman ha rappresentato infatti un netto cambiamento di registro (tanto da aver messo a tacere anche i consueti detrattori di Iñárritu). Un ritmo brillante e un'ironia acuta e pungente, venata di una soffusa malinconia, sono gli ingredienti principali della prima commedia nella filmografia del cineasta messicano, che fra l'altro rinuncia ai meccanismi a base di storie parallele, tipici della penna del suo ex collaboratore Guillermo Arriaga, per dirigersi invece in una direzione diametralmente opposta: un'unità di luogo, di tempo e di azione tale da circoscrivere l'intero racconto all'interno di un teatro di Broadway nell'arco di tre giorni, aspettando l'attesissimo - e temutissimo - debutto dello spettacolo Di cosa parliamo quando parliamo d'amore, basato sull'omonima novella di Raymond Carver. L'umorismo, il pathos e la tensione, anziché frammentarsi su una pluralità di vicende e di piani narrativi, convergono quindi verso quel palcoscenico sul quale si deciderà il destino professionale - ma anche umano - di Riggan Thomson, maturo attore abbrutito dalle frustrazioni di una carriera rimasta indissolubilmente legata a quel personaggio così celebre, e proprio per questo tanto segretamente detestato da Riggan: Birdman, supereroe di una fortunata saga del passato, il quale non può non riportare alla mente quel Batman che, esattamente venticinque anni fa, aveva lanciato Michael Keaton nel firmamento hollywoodiano.
Adieu au montage: il piano sequenza
Il primo e più evidente tratto distintivo di Birdman rispetto alla produzione precedente di Iñárritu riguarda pertanto proprio la struttura drammaturgica, non più sviluppata in senso corale e secondo un'ottica quasi da film a episodi, ma contraddistinta al contrario da un effetto centripeto che ci riporta sempre e puntualmente ai pensieri, alle idiosincrasie e agli incubi di Riggan, con il quale devono confrontarsi anche tutti gli altri personaggi: la sua collega e fidanzata Laura (Andrea Riseborough), la nevrotica attrice Lesley (Naomi Watts), il talentuoso ma eccentrico ed imprevedibile divo teatrale Mike Shiner (Edward Norton) e la figlia nonché assistente di Riggan, l'introversa Sam (Emma Stone). Ed è appunto il carattere 'chiuso' e circoscritto della storia di Birdman ad aver favorito una scelta registica assolutamente anticonvenzionale e con pochissimi precedenti nella storia del cinema: quella di realizzare l'intero film in modo da far apparire come se fosse stato girato tutto in un lunghissimo piano sequenza di quasi centoventi minuti di durata, con i rari momenti di raccordo fra una ripresa e l'altra abilmente mascherati in fase di montaggio.
Una tecnica, quella del piano sequenza (ovvero un'unica inquadratura ininterrotta di notevole lunghezza), che ha illustri precedenti negli annali della settima arte, benché in genere sia limitata a una singola scena e non venga utilizzata per tutta la durata di una pellicola. Esistono, naturalmente, delle importanti eccezioni, a partire da Nodo alla gola, il rivoluzionario thriller di Alfred Hitchcock del 1948, che agli occhi dello spettatore si mostra come se fosse composto da una sola inquadratura di quasi ottanta minuti (in realtà, furono girati otto piani sequenza montati però come se costituissero una singola ripresa), per arrivare ad un esempio più recente e, dal punto di vista della messa in scena, davvero stupefacente: Arca russa, il film del regista Aleksandr Sokurov del 2002 ambientato all'interno del Palazzo dell'Ermitage, con una singola ripresa di novantasei minuti (resa possibile grazie all'ausilio della camera digitale). Un espediente le cui potenzialità furono esplorate in passato da registi quali Alfred Hitchcock ed Orson Welles, ma che ancora oggi continua a riscuotere una notevole fortuna al cinema, grazie ad autori come Brian De Palma, Quentin Tarantino, Paul Thomas Anderson e Michael Haneke, e perfino in televisione (si veda Cani sciolti, quarto episodio della serie True Detective, per la regia di Cary Fukunaga).
Riprese no stop: Iñárritu ed Emmanuel Lubezki
La decisione di girare Birdman come se fosse realizzato con una sola inquadratura non è stata affatto casuale ma, come ha dichiarato lo stesso Alejandro González Iñárritu, è stata presa con coscienza fin dal momento della scrittura e ha influito inevitabilmente anche sul processo di stesura del copione, firmato a otto mani da Iñárritu insieme a Nicolás Giacobone, Alexander Dinelaris e Armando Bo. "Mi sono reso conto - e probabilmente sono l'ultima persona al mondo ad essersene resa conto - che noi viviamo le nostre vite senza alcun montaggio", ha affermato Iñárritu in un'intervista a Variety; "Dal momento in cui apriamo gli occhi viviamo in un formato Steadicam, e l'unico 'montaggio' è quando parliamo delle nostre vite oppure ci affidiamo ai ricordi. Perciò volevo che questo personaggio fosse sommerso da una realtà ineludibile, e che il pubblico dovesse vivere queste tre giornate disperate accanto a lui". E per un cineasta quale Iñárritu, per il quale il montaggio ha sempre rappresentato una sorta di "marchio di fabbrica" nei suoi film, costruire un racconto di ben tre giorni con un 'falso' piano sequenza si è rivelata una sfida non indifferente e dai considerevoli rischi: "Quando giri un film del genere, sai che nulla che non accada al momento delle riprese potrà mai accadere nel film. E la commedia è tutta questione di tempistica e di ritmo; è basata sulle reazioni. Dunque ha richiesto un incredibile grado di consapevolezza".
E larga parte del merito di aver reso possibile tale impresa, superando le varie difficoltà insite nell'operazione del piano sequenza e mantenendo un senso di armonia e di "continuità", per l'appunto, da una scena all'altra, va attribuito senz'altro al direttore della fotografia di Birdman, Emmanuel Lubezki, collaboratore fra gli altri di Terrence Malick (The New World - Il nuovo mondo, The Tree of Life) ma soprattutto del connazionale Alfonso Cuarón, fin dal suo esordio nel 1991. La magistrale capacità di Lubezki di impiegare le luci e le ombre per la costruzione dell'inquadratura si è manifestata in particolare l'anno scorso con Gravity, thriller ambientato nello spazio e capace di catturare lo spettatore fin dal suo sorprendente incipit: un magnifico piano sequenza lungo ben diciassette minuti (non a caso Lubezki si aggiudicò il premio Oscar per la miglior fotografia). Cuarón e Lubezki, del resto, avevano già sfruttato il piano sequenza con risultati strepitosi, in primis nella spettacolare scena dell'assalto all'automobile nel film di fantascienza I figli degli uomini, del 2006.
La cinepresa come flusso di coscienza
Rispetto ad opere come I figli degli uomini e Gravity, l'uso del piano sequenza in un film quale Birdman comportava però degli ulteriori ostacoli: a partire dalla presenza di numerosi personaggi, impegnati ad alternarsi davanti alla macchina da presa come in un'elaboratissima coreografia, e dalla necessità di una sceneggiatura 'blindata', che tenesse in considerazione ogni variabile in gioco, senza concedere spazio a imprevisti o ripensamenti. Una necessità rimarcata anche da uno dei quattro autori di Birdman, Armando Bo: "Il film funziona come un'unica ripresa perché è stato scritto così. È stata una delle prime idee di Alejandro, prima ancora del personaggio. Abbiamo scritto tutto quando pensando a quest'unica ripresa, e molte delle decisioni che sarebbero state prese in sala di montaggio sono state prese invece prima di girare. Dato che il film avrebbe richiesto un'enorme quantità di coreografia, dovevamo assicurarci che ogni dialogo funzionasse a dovere".
Una scommessa, però, che di fronte all'esito finale può considerarsi vinta su tutta la linea. Perché in Birdman, il piano sequenza non può essere assimilato ad un mero esercizio di stile, un virtuosismo di regia abile ma in fondo gratuito, ma assolve una funzione ben più importante: far piombare lo spettatore nell'atmosfera di eccitazione, di frenesia e di angoscia della vigilia di un debutto teatrale, calandolo quanto più possibile in quel microcosmo - a tratti addirittura claustrofobico - costituito dalle quinte e dai camerini di un teatro newyorkese. La Steadicam che si muove incessante fra i corridoi e il palcoscenico, con alcune occasionali incursioni all'esterno dell'edificio (ad esempio nella scena onirica della comparsa di Birdman), non solo conferisce alla narrazione un ritmo spedito ed incalzante dal primo all'ultimo minuto, ma arriva al punto di diventare l'ideale 'veicolo' del flusso di coscienza del protagonista: un viaggio senza sosta nella sua mente e attraverso i suoi occhi, tale da permettere di instaurare una densissima empatia fra il Riggan Thomson di Michael Keaton e lo spettatore, testimone silenzioso ma partecipe delle crisi del personaggio e della sua definitiva rivincita. La cifra registica adottata assurge così a fondamentale elemento di storytelling e di fascinazione per uno dei film di maggior valore degli ultimi anni.
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