Un personaggio come Gale Anne Hurd, per chiunque si sia formato cinematograficamente negli anni '80, ha una rilevanza incalcolabile. La produttrice americana, infatti, ha scritto alcune delle pagine più importanti del cinema di quel decennio, così come dell'inizio del successivo: creando, insieme all'ex marito James Cameron, almeno un'icona (Terminator), ridefinendo una saga (con Aliens - Scontro finale) e modificando la concezione stessa di blockbuster (Abyss, Terminator 2 - il giorno del giudizio). La serialità televisiva, nuova frontiera per la sperimentazione di linguaggi e narrazioni, era un tassello che, fino all'inizio di questo decennio, ancora mancava alla carriera della Hurd; e un prodotto come The Walking Dead si è incaricato di riempire questa "falla", se così la si può chiamare, nel migliore dei modi. noi
La serie tratta dal fumetto di Robert Kirkman, la cui quinta stagione è ormai ai nastri di partenza, è infatti divenuta un fenomeno di massa, al pari di altri storici prodotti televisivi; gli ascolti da record, e l'estrema fidelizzazione del pubblico, senza precedenti per un prodotto horror, ne fanno già un pezzo di storia (tuttora in atto, ma pur sempre storia) della "nuova" fiction. E' quindi con estremo piacere, e un pizzico di emozione, che ci siamo apprestati a incontrare Gale Anne Hurd, ospite di questa ottava edizione del RomaFictionFest. Una chiacchierata incentrata sullo straordinario successo della serie AMC, sui suoi possibili motivi, sulla sua evoluzione, nel corso degli anni, vista dal lato produttivo; seguita poi da una stimolante masterclass, aperta al pubblico, in cui la Hurd ha parlato del mestiere di produttrice, del passato e del presente del cinema e della televisione, degli inizi della sua carriera e dei classici che le diedero il successo.
Zombie da piccolo schermo
Perché gli zombie sono così attraenti?
Gale Anne Hurd: Le motivazioni sono tante: c'è il fatto che rappresentano il lato oscuro dell'uomo, e l'ipotesi peggiore su cosa potrebbe succedere dopo la morte: alcuni immaginano ci sia il paradiso, altri credono non ci sia nulla, altri ancora hanno dubbi, ma questo è in assoluto lo scenario peggiore possibile. È una cosa che la gente teme da morire, perché può portare a fare scelte terribili: Carl ha dovuto ammazzare sua madre, per esempio. Sono scelte estreme, che si fanno proprio perché si ama qualcuno. Però gli zombie sono anche divertenti: tutte le persone che conosco dicono che trovarsi in compagnia di uno zombie sarebbe spassoso. Credo quindi che abbiano successo perché incarnano entrambe le componenti.
Il fatto che gli zombi appaiano meno spaventosi rispetto al passato, è dovuto forse a una forma di rispetto verso la loro precedente natura umana?
In realtà, quello che abbiamo scoperto dalla seconda stagione in poi è che tutti gli esseri umani sono infetti: quando muori, anche se per un'influenza, ti trasformi. La consapevolezza di essere condannati a diventare uno zombie apre dei problemi non da poco. Parlando col nostro pubblico, abbiamo scoperto che loro vedono lo show perché amano i personaggi, e si identificano: si chiedono "cosa farei io nei loro panni?".
I personaggi, il pubblico e i progetti non realizzati
La serie ha un andamento diverso rispetto ad altri prodotti recenti, come Il trono di spade. Qui troviamo una continuità nei cambiamenti, dei personaggi che si spostano, sono sempre in cammino.
C'è un modo di scrivere diverso: nel nostro caso, l'autore è concentrato, coinvolto, spesso non ci dice neanche cosa sta pensando di scrivere: noi ci facciamo guidare. Magari qualche errore viene commesso, in fase di scrittura, ma spesso i fans ci incalzano, non vedono l'ora che la storia evolva.
Ogni serie deve giungere alla sua fine, anche se alcune si trascinano oltre il dovuto, come Lost. Voi avete già pensato a una conclusione?
No, e perché avremmo dovuto? Se una serie ha successo e può ancora coinvolgere, perché porsi il problema della fine? Tornando a Il trono di spade, per fare, un esempio, lì c'è una storia con un termine preciso. Nel nostro caso non è così, anche se i creatori hanno ammesso fin dall'inizio che una conclusione dovrà esserci. Noi, però, abbiamo materiale che può dare adito a vari sviluppi.
Il fatto che alcuni attori, da una stagione all'altra, possano non voler tornare nel cast, può creare problemi?
A dire il vero, è il contrario: tutti ci pregano di non far morire il loro personaggio! Nessuno vuole perdere il suo ruolo. È vero, ci sono stati un paio di attori che hanno voluto lasciare la serie per iniziare la carriera nel cinema; ma noi continuiamo a introdurre storie e personaggi, a cui i fans si affezionano.
La vostra è una serie violenta, ma di grande successo. Come vi rapportate a questo problema?
Ne parliamo spesso, il problema ce lo poniamo: anche se la nostra non è stata pensata come una serie per famiglie. La violenza, comunque, si limita al necessario: a volte non c'è bisogno di entrare nei dettagli, basta creare atmosfera. Non è pensata per famiglie, ma sappiamo che alcune famiglie lo guardano.
Lei era venuta qui già due anni fa, quando avrebbe dovuto girare un pilot per una serie sci-fi targata CBS. Che fine ha fatto quel progetto?
La sceneggiatura procedeva a rilento, chi l'ha scritta non è stato nei tempi, e alla fine il progetto è stato cancellato. Forse era una buona idea, ma la tempistica è sempre importante.
Gli inizi
Ci può parlare dei suoi inizi nel mondo del cinema?
Io sono sempre stata interessata alla narrazione di storie, in tutte le sue forme: fin dai libri. Da giovane, vedevo due film al giorno, li andavo a vedere al cinema uno dopo l'altro. All'università ho capito che questa sarebbe stata mia carriera: è stato lì che ho potuto incontrare grossi registi e produttori.
Lei ha un po' reinventato il genere fantastico, i suoi film ne hanno cambiato la percezione. Ci vuole coraggio a pensare "out of the box" come fece lei.
Mi sono ispirata soprattutto al Kubrick di 2001: Odissea nello spazio, e più in genere a quei film di fantascienza che venivano considerati "di serie A" rispetto agli altri. Più tardi, mi sono resa conto di quanto quella concezione del genere mi abbia influenzato.
Lei ha la caratteristica di trovare sempre gli attori giusti: ad esempio, ha "inventato" la carriera di Arnold Schwarzenegger.
Forse lei mi sopravvaluta: nella visione mia e di James, il personaggio doveva essere recitato da qualcun altro. Inizialmente avevamo pensato a Lance Henriksen per il Terminator, mentre Arnold doveva fare il personaggio di Reese. Fu una cena con lui a convincerci: quello del cyborg doveva essere un personaggio senza emozione, uno squalo implacabile, e alla fine abbiamo visto che lui avrebbe saputo renderlo. Non avevamo neanche i soldi per pagarlo, ma lui voleva farlo e quindi alla fine siamo riusciti ad averlo.
Che caratteristiche bisogna avere per fare questo lavoro?
Bisogna percepire la buona idea, da qualsiasi parte provenga. Inoltre, il lavoro del produttore, di solito, è quello di convincere il regista, l'autore del copione, o l'attore, che bisogna fare qualche cambiamento. Per certi versi è quasi un cheerleader, un animatore, ma deve essere anche uno psicologo.
Lei e Cameron avete inventato saghe che sono rimaste nell'immaginario. Qual è il vostro rapporto con questi "figli" cinematografici?
Beh, Alien veramente è di Ridley Scott. Quando Jim voleva scriverne il seguito, ha detto che voleva completamente reinventarlo, farne un film d'azione. Infatti, rispetto al film di Scott, è un tipo di fantascienza molto diverso; poi sarebbe arrivato David Fincher, a cambiare ulteriormente la saga. Terminator è stata invece una nostra creatura, ma dopo il secondo episodio non siamo stati più coinvolti: anche perché poi è seguito un periodo difficile, eravamo sull'orlo della bancarotta.
Proprio la saga di Terminator, infatti, ora non è più nelle vostre mani. Prima di "passare il testimone" ad altre persone, non avete mai pensato di opporvi, come ha fatto George Lucas con la saga di Guerre stellari?
Il mio libretto di assegni, e il mio conto in banca, non sono così ricchi da permettermi una scelta del genere. Tra l'altro, in Europa c'è una legge che stabilisce la necessità di approvazione da parte dell'autore per l'utilizzo dei suoi soggetti; negli USA, invece, non c'è nessuna legge del genere.
Quanto l'ha influenzata, nel suo lavoro, la conoscenza di Roger Corman?
Tantissimo. Io ero appassionata da sempre di cinema e tv di genere, e ho avuto il privilegio di lavorare con un produttore che la pensava esattamente come me. All'epoca, poi, le donne potevano fare molto poco nell'industria cinematografica; Roger credeva invece molto nelle donne, ne aveva che dirigevano e scrivevano per lui. Lui mi ha aiutata molto a credere in me stessa. Quando mi ha assunta, credevo mi avrebbe fatto fare la segretaria, e invece mi chiese cosa avrei voluto fare nella vita, qual era il mio sogno. All'epoca, la maggior parte delle donne non pensava in termini di carriera. Lui ha cambiato il mio destino. E' stato lui stesso a farmi credere che io e Jim avremmo potuto realizzare Terminator.
Il presente e il passato
Comunque, le vostre invenzioni continuano a essere sfruttate successivamente. La cosa interessante è come un racconto viene serializzato negli anni.
E' una delle ragioni per cui amo la tv: con la stessa quantità di tempo che impieghi a girare la metà di un film, fai 16 ore di serie tv. Per me, girare per la televisione è una gioia: il cast per cinque anni è sempre lo stesso, è un'esperienza vincolante, caratterizzata da grande collaborazione.
Il "suo" cinema è diverso da quello di oggi. Voi avevate idee originali, mentre ora si tende a riciclare materiale esistente. Come vede questa transizione, e perché, secondo lei, Hollywood fatica a produrre storie innovative?
Questo dipende dalla paura degli studios. Abyss lo girammo con 40 milioni di dollari, Aliens - Scontro finale con 13, Terminator con non più di 5-6. Ora, un film costa 300 milioni: è una cifra che non puoi rischiare di perdere. Si fanno quindi delle scelte sicure: sequel, remake, reboot, ecc. Gli studios reagiscono a ciò che il pubblico sembra chiedere: ovvero storie che non analizzino in profondità i personaggi. E' difficile vedere qualcosa di nuovo, anche se Christopher Nolan con Inception, e lo stesso Jim con Avatar, hanno fatto film innovativi. Ma si tratta di casi rari.
Anche l'atteggiamento del pubblico verso il cinema è cambiato...
Dovremmo iniziare a convincere il pubblico a non andare a vedere sempre le stesse cose: oggi, andare al cinema non è più necessario, i film si possono avere anche sullo smartphone. Il pubblico va a vedere solo film che considera "must", gli altri li scarica o li guarda in streaming. Io spero che sapremo offrire al pubblico sempre più "must".
Nella sua produzione c'è anche un film intitolato Vita di cristallo, un progetto molto diverso dal solito. Cosa la spinse a produrlo?
Tempo fa, qualcuno mi chiese: "ma perché non fai anche film più intimisti?" Io ho risposto che li avevo fatti, ma che nessuno era andato a vederli. E' il caso di quel film. Io amo le storie sulla condizione umana, mi piacciono anche i documentari. In quel caso, era una storia in parte autobiografica, del regista/sceneggiatore Neal Jimenez: aveva avuto un incidente, era caduto da una scogliera, perdendo la sensibilità dalle gambe in giù. La storia mi coinvolse molto.
Che caratteristiche deve avere una storia per interessarla?
Io sono attratta soprattutto dal viaggio del personaggio o dei personaggi principali; un viaggio in cui sia possibile riconoscersi. Mi piacciono i film sulla condizione umana. Sia nelle storie fantastiche che in quelle realistiche, gravito sempre intorno a persone ordinarie che si trovano in circostanze straordinarie.
I generi possono essere usati anche per trattare tematiche serie... l'esempio è un film da lei prodotto come Alien Nation - nazione di alieni, che sfruttava il genere fantascientifico per parlare di razzismo.
Noi, come esseri umani, ogni giorno dobbiamo fare delle scelte, piccole o grandi che siano: percorriamo comunque una strada che è segnata dalle scelte che facciamo. A me piacciono le storie di scelte morali, etiche, e credo che il pubblico apprezzi i personaggi che fanno scelte "oneste".
Tipologie di serialità
In The Walking Dead, come si rapporta con ciò che il pubblico si aspetta?
Robert Kirkman è molto coinvolto nel progetto, ed è lui a darci la direzione per ogni nuova stagione. Noi, però, viviamo in una piccola "bolla": The Walking Dead è girato in una cittadina della Georgia nel bel mezzo del nulla, e stare lì è come stare in famiglia. Ci sentiamo protetti da questo isolamento, ci aiuta a non sentire la pressione. Comunque, siamo molto impegnati verso i nostri fan: li rispettiamo molto, loro sono i nostri grandi sostenitori, ma possono trasformarsi anche nei critici più spietati.
Com'è evoluta, secondo lei, la serialità televisiva nel corso degli ultimi anni?
Le serie tv, almeno negli USA, sono molto diverse dal passato: sono più incentrate sui personaggi. Vista la loro lunghezza, possono analizzare a fondo i singoli caratteri, le loro vicende. Se ci si perde un episodio, la puntata successiva non ha senso; per anni, questo tipo di storie sono state evitate dai produttori, visto il rischio in termini di audience che comportavano. Ora, invece, con gli attuali mezzi tecnologici, si possono recuperare gli episodi eventualmente persi.
Cosa le ha fatto decidere di produrre una serie horror, ovvero un prodotto potenzialmente a rischio in termini di risultati?
Io non ho mai avuto paura del rischio: se non provi strade nuove, e non sbagli, non farai mai progressi. Se poi si trova un cineasta di talento come Frank Darabont, uno che ha realizzato alcuni dei più grandi film del nostro tempo, che si dedica a una serie del genere, è facile venire coinvolti. Anche l'AMC e la Fox volevano un prodotto di qualità: i network invece l'avevano rifiutato così com'era, avrebbero imposto pesanti modifiche.
C'è una serie che le sarebbe piaciuto produrre?
Una è senz'altro I Simpson. Inoltre, mi piacciono serie come The Americans, House of Cards, Breaking Bad, e via dicendo. Oggi ci sono molte serie basate su personaggi interessanti e complessi, comprese anche serie di animazione o web series. Ormai, in televisione lavorano persone che vogliono raccontare storie, che magari non riuscirebbero a raccontare al cinema; e anche gli attori, oggi, ambiscono a lavorare nelle grandi produzioni televisive.