Perdonateci. Nel dare un titolo a questo approfondimento non potevamo fare altro che buttare su carta una domanda destinata a restare aperta perché, fondamentalmente, una risposta in tal senso non c'è. Anche se viene inseguita dalla "notte dei tempi". È una domanda intorno alla quale a noi che amiamo la settima arte piace discutere a intervalli di tempo del tutto irregolari e casuali anche perché l'argomento viene affrontato, anche qua senza possibilità di prevedere il quanto o il come, pure e soprattutto da chi si occupa di dare forma a quelle "cose" chiamate film che permettono poi a tutti noi di chiacchierarne.
L'ultima opportunità di farlo ci è stata concessa da Brady Cobert, il regista di The Brutalist candidato all'Oscar che, prima delle nomination, e dal palco di quell'ottantaduesima edizione dei Golden Globes (durante la quale la sua pellicola è stata premiata in ben tre categorie), ha detto la sua.
Le osservazioni di Brady Corbet sulla libertà creativa
Nel momento in cui Brady Corbet ha accettato il premio per il miglior film drammatico ha improvvisato alcune osservazioni sul concetto di libertà creativa e su come questa venga vissuta a Hollywood. Una dichiarazione, la sua, sicuramente figlia della tanta fatica messa in un film come The Brutalist la cui lavorazione doveva partire nel 2020 e che poi fra Covid, invasione russa dell'Ucraina e rallentamenti di ogni sorta, è slittata fino al marzo del 2023.
Ecco, il filmmaker ha sostanzialmente detto che se qualcuno accorda a un regista una data cifra per realizzare un film non dovrebbe poi dirgli come spenderla. Per poi aggiungere che voleva "solo dire qualcosa su cui riflettere: la decisione sul final cut spetta al regista. È una dichiarazione controversa, in un certo senso. Ma non dovrebbe esserlo. Non dovrebbe essere affatto controversa". Parole che sono sia in linea con la trama del suo The brutalist e con il rapporto professionale che s'instaura fra l'architetto László Tóth di Adrien Brody e il mecenate Harrison Lee Van Buren di Guy Pearce sia con il percorso produttivo, fatto di porte chiuse in faccia, che Brady Corbet si è ritrovato a percorrere.
Della sua opera monstre lunga più di tre ore e costata poco meno di dieci milioni di dollari racconta infatti che gli era stato detto che si trattava di qualcosa che non poteva trovare una distribuzione nel panorama attuale perché nessuno sarebbe andato a vederlo e che "il film non avrebbe funzionato. Nessuno stava chiedendo un film di tre ore e mezza su un designer di metà del novecento girato in 70 millimetri. È invece ha funzionato".
È stata una maniera catartica per esorcizzare ciò che sia lui che sua moglie, la regista norvegese Mona Fastvold, si sono trovati a vivere con altri film fatti in precedenza. Dice che The brutalist "è stato scritto come una sorta di esorcismo e risposta a molte delle cose che io e mia moglie abbiamo vissuto. Non ho mai un problema con il budget. Posso fare un film con un carrello della spesa, un pezzo di spago e due bicchieri, nessun problema. Ma non voglio che mi dicano come spostare la sabbia nella scatola. Datemi quella cifra, ma non ditemi come spenderla".
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Il final cut privilege
Quello affrontato da Brady Corbet è uno di quei nodi gordiani della settima arte che mai verranno sciolti. E forse, paradossalmente, è meglio così.
Dai conflitti creativi fra committente ed esecutore posso nascere situazioni magmatiche capaci di dare vita a film mutevoli che, per chi ama il cinema, diventano delle vere e proprie ossessioni.
Prendete un'opera come C'era una volta in America di Sergio Leone o Blade Runner di Ridley Scott.
Entrambi capolavori riconosciuti della storia del cinema che esistono in più versioni, ognuna figlia di un contesto ben specifico e tutte meritevoli di essere viste, studiate, analizzate, discusse. E abbiamo citato solo un paio di esponenti illustri, poi in realtà l'elenco è ben nutrito, da L'orgoglio degli Amberson di Orson Welles alla Zack Snyder's Justice League. Attualmente, il "final cut privilege" è un lusso che pochi registi possono avere.
In questa lista, troviamo leggende, mostri sacri come Steven Spielberg, James Cameron, Peter Jackson, Ridley Scott, Michael Bay o Christopher Nolan, tutta gente che se lo è guadagnato a suon d'incassi stellari e/o Oscar vinti e autori non necessariamente "bankable", come direbbero gli americani, ma il cui marchio di fabbrica è ben noto. Pensiamo ai fratelli Coen, Woody Allen, Terrence Malick. Si tratta poi di qualcosa che non resta scritto nero su bianco.
Chi lo possiede, può comunque perderlo, come accaduto a Kevin Costner in passato. C'è chi non lo ha, come Sam Raimi, anche se all'attivo ha produzioni dagli incassi faraonici. E ci sono produttori che riescono ad assicurarlo ai registi con cui lavora, pensiamo a Jason Blum e alla sua Blumhouse, perché è abituato a muoversi con dei budget che, per gli standard di Hollywood, sono pari a quello che sul set di un blockbuster da 250 milioni di dollari viene speso solo per assicurarsi che le varie star del cast abbiano sempre a disposizioni ettolitri di acqua Voss.
L'importante è che se ne parli
Accordare il final cut a un regista equivale ad abbracciare in toto la sua reputazione artistica. Una mossa non esente da rischi.
Non è un caso che, nonostante la reputazione che Peter Jackson si era fatto col Signore degli Anelli, nel momento in cui la Universal gli garantì il final cut privilege su King Kong fece anche firmargli una clausola contrattuale in cui veniva stabilito a lettere chiarissime più che solo chiare che se il kolossal fosse andato over budget, il regista avrebbe dovuto aggiungere di tasca sua l'importo in eccesso.
Cosa che, puntualmente, avvenne.
E non è di certo un caso che, anche in un panorama profondamente mutato e mutevole come quello attuale, i figli della new hollywood degli anni settanta (che oggi sono per ragioni anagrafiche i burberi nonni del cinema americano), debbano o decidere di lavorare con gli streamer per il concretizzarsi di lungometraggi che vengono accolti come capolavori da alcuni e come dei film privi di equilibrio da altri.
Basterebbe pensare a Scorsese e ai suoi The Irishman e Killers of the Flower Moon prodotti rispettivamente da Netflix ed Apple e quindi al di fuori della "schiavitù da box office" o autoprodurseli come Francis Ford Coppola col suo Megalopolis.
È praticamente impossibile anche solo ipotizzare che autori abituati agli eccessi creativi e a focosi scontri con i produttori di quando avevano trent'anni cambino modo di fare a 80 anni suonati e passa anche se il mondo intorno a loro non è più quello di quando giravano Apocalypse Now o Taxi Driver. Quello che conta è che, in un modo o nell'altro e magari anche a prescindere dai risultati commerciali di un film, che d'altronde non sono un problema di noi che i film li guardiamo per lavoro o passione o entrambe queste cose insieme, tali opere vengano fatte.
E che la discussione sul privilegio di avere o non avere il final cut resti accesa.
Un po' perché è difficile stabilire con certezza chi debba avere l'ultima parola fra chi una determinata opera la concepisce e gira materialmente e chi la finanzia. Anche perché così facendo si dà importanza solo alla figura del regista e si sminuisce quella del produttore che non è solo il tizio che elargisce la pecunia necessaria.
Spesso e volentieri sono persone che vivono il cinema con la stessa passione di un regista o uno sceneggiatore, solo che lo fanno da una posizione diversa.
Per quanto strano possa sembrare, il punto dal quale operano, può anche far sì che abbiano una visione più sensata di quelle che sono le possibilità narrative, artistiche e commerciali di un film.
Vero è che l'arrivo degli streamer e di nuove entità produttive guidate da gente che fino a l'altro ieri si occupava di software e algoritmi ha un po' "imbastardito" la professione.
Ma anche qua: magari tratteremo questa tematica in un'altra sede.
Per ora, dopo aver ascoltato le parole di Corbet, non possiamo che continuare a sperare che il cinema continui a vivere di questi "conflitti" perché se poi quello che otteniamo sono Oppenheimer e The brutalist, come si suol dire... bene così!