È stata l'edizione dell'assenza di sorprese, del rispetto di un copione che ormai da giorni sembrava prestabilito e, di conseguenza, dell'annunciato trionfo di Everything Everywhere All at Once. La commedia sci-fi dei Daniels, che aveva già fatto piazza pulita a tutti i premi delle guild americane, conclude la sua marcia trionfale verso gli Oscar 2023 con un lauto totale di sette statuette, tra cui miglior film, regia e sceneggiatura originale. Un plebiscito, quello per l'opera firmata da Daniel Kwan e Daniel Scheinert, che ha sancito più di un record (ci torneremo a brevissimo), ma soprattutto che costituisce un connubio emblematico fra pretese di innovazione e rispetto della tradizione: perché Everything Everywhere All at Once è sì una pellicola d'azione incentrata sul tòpos del multiverso (non proprio il tipico "film da premio"), ma al contempo è pure un esempio perfetto di crowdpleaser in grado di conquistarsi i favori della vasta e variegata platea dell'Academy.
Delle ragioni del successo di Everything Everywhere All at Once in termini di trofei abbiamo già avuto occasione di parlare nel dettaglio, e l'edizione numero 95 degli Academy Award non ha disatteso i pronostici: quello dei Daniels è il film più premiato dai tempi di Gravity nel 2014 (sette Oscar, ma non quello principale); ha permesso alla diva malesiana Michelle Yeoh di diventare la prima attrice asiatica a vincere un Oscar da protagonista; ed è diventato il terzo titolo, nella storia dell'Academy, a ricevere tre statuette per i suoi interpreti, dopo Un tram che si chiama Desiderio e Quinto potere. Oltre alla Yeoh, infatti, Everything Everywhere All at Once ha visto premiati l'attore non protagonista Ke Huy Quan e l'attrice non protagonista Jamie Lee Curtis: nel primo caso, il riscatto di un ex-enfant prodige tornato di colpo alla ribalta; nel secondo, il tributo a una veterana di Hollywood (benché a scapito di un'altra veterana, Angela Bassett).
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Partiamo proprio da qui: l'entusiasmo trasversale per la commedia dei Daniels, presentata esattamente un anno fa, accolta da un ampio consenso in patria (quasi otto milioni di spettatori in Nord America) e capace di apparire come un'opera originale e dirompente pur seguendo le convenzioni del cosiddetto feel-good movie, per quanto declinate in una singolare chiave fantascientifica. Everything Everywhere All at Once ha stravinto per questi motivi, ma anche perché ha saputo correlare gli elementi di cui sopra ai problemi quotidiani di chi, come appunto la famiglia Wang, è giunto nella "terra delle opportunità" nella posizione di outsider. I sette Oscar sono comunque troppa grazia? Senz'altro, ma lo erano del resto pure le otto statuette assegnate nel 2009 a The Millionaire di Danny Boyle, forse il termine di paragone più prossimo al film dei Daniels: un'altra pellicola che faceva leva sull'empatia del grande pubblico, pur discostandosi in parte dalle formule hollywoodiane più abusate.
The Millionaire non era certo un capolavoro, come non lo è Everything Everywhere All at Once: era però un altro film 'giusto' uscito al momento 'giusto', cioè che ha saputo coinvolgere in maniera non banale un target assai variegato (e pazienza che, col senno di poi, quella valanga di statuette non sia invecchiata proprio benissimo). I trionfi di Everything Everywhere All at Once e di The Millionaire, così come di molti altri best picture winner degli scorsi anni, ci ricordano che gli Oscar sono innanzitutto questo: non proprio una medaglia al miglior film, ma piuttosto a quello che riesce a mettere d'accordo più persone. E in tale ottica, non sorprende affatto che l'altro grande vincitore, nella notte di domenica, sia stato Niente di nuovo sul fronte occidentale, trasposizione del regista tedesco Edward Berger del celebre romanzo di Erich Maria Remarque, già alla base del classico di Lewis Milestone (premio Oscar come miglior film del 1930).
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Tutto quanto allo stesso tempo a due singoli film
Forte di nove candidature, Niente di nuovo sul fronte occidentale si è aggiudicato i premi come miglior film internazionale e per la colonna sonora, la fotografia e la scenografia, stabilendo a sua volta un record: si è aggiunto infatti al novero delle pellicole in lingua non inglese più premiate dall'Academy (con quattro Oscar a testa), a pari merito con due pietre miliari del calibro di Fanny e Alexander di Ingmar Bergman e La tigre e il dragone di Ang Lee e con il recentissimo capolavoro di Bong Joon-ho Parasite. È pressoché scontato, pertanto, che il dramma bellico di Berger si sia piazzato al secondo posto nelle preferenze dei giurati nella categoria come miglior film del 2022. Ed è all'indirizzo di questo dittico di titoli che sono stati rivolti gli strali di critici, commentatori e appassionati in merito all'esito degli Oscar: possibile che le due suddette opere meritassero così tanto, o piuttosto quasi tutto?
Se Everything Everywhere All at Once non ha galvanizzato il pubblico europeo in maniera paragonabile a quanto accaduto in America, e la sua pioggia di Oscar è stata bollata da più parti come un abbaglio collettivo, Niente di nuovo sul fronte occidentale si lega a una tendenza diversa - e ben consolidata - dell'Academy: l'urgenza di ricompensare il film percepito come 'importante', oltre che 'imponente'; meglio ancora se alla sontuosità della messa in scena corrisponde un messaggio pacifista e una denuncia degli orrori della guerra. Neppure Berger ha diretto un capolavoro, né le recensioni hanno gridato al miracolo; ma Niente di nuovo sul fronte occidentale è un "classico da Oscar" per definizione, su cui era naturale che convergessero i voti dei giurati più tradizionalisti. Perché, invece, i membri dell'Academy si sono rivelati alquanto avari nei confronti di candidati che la critica aveva definito straordinariamente meritevoli, e che con tutta probabilità sono destinati a lasciare un segno più profondo negli annali del cinema?
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I capolavori e gli Oscar: un amore non corrisposto?
Un'anomalia degli Oscar 2023 è che, sui dieci candidati come miglior film, addirittura la metà sono stati lasciati a mani vuote; e in questa metà si trovano alcuni fra i picchi assoluti della scorsa annata, e non solo. In qualche caso, possiamo parlare semplicemente di tempismo sfortunato: Elvis di Baz Luhrmann, forte di otto nomination, è stato superato sul filo di lana in almeno tre o quattro categorie in cui aveva ottime chance di vittoria, concludendo la serata con una fumata nera. Sette nomination infruttuose erano andate al magnifico The Fabelmans di Steven Spielberg, penalizzato però dal tiepido riscontro al box-office e dalla sua appartenenza a un filone - il coming of age autobiografico - che ultimamente era già approdato agli Oscar con titoli quali Roma di Alfonso Cuarón e Belfast di Kenneth Branagh: in altre parole, a The Fabelmans è mancato quell'effetto-novità che è stato al contrario un fattore determinante per il film dei Daniels.
Gli spiriti dell'isola di Martin McDonagh, che di candidature ne aveva raccolte ben nove, è una raffinata tragicommedia che nega agli spettatori una catarsi vera e propria, scegliendo una chiusura più ambigua, e che in generale privilegia le sfumature rispetto ai contrasti netti: e parlando di Oscar, i contrasti hanno sempre esercitato una presa assai maggiore rispetto ai chiaroscuri. Non c'è da stupirsi dunque se nemmeno Tár di Todd Field, nonostante le sei nomination e le decine di trofei della critica, abbia potuto arginare il fenomeno Daniels: come poteva l'Academy, o perlomeno la maggioranza dei suoi membri, innamorarsi fino in fondo di un capolavoro così oscuro, enigmatico e conturbante? Il problema è che, prima di indignarsi per gli Oscar, è sempre bene ricordare di cosa si sta parlando: di un premio assegnato da quasi diecimila votanti, non dalla ristretta giuria di un festival, e che punta quasi sempre verso la strada rassicurante della tradizione... perfino quando questa ha le sembianze accattivanti del più variopinto dei multiversi.