Le società future

Il tema che ha attratto numerosi e talentuosi autori e registi, la rappresentazione di una possibile società futura, presentata con i suoi pregi e soprattutto con i suoi difetti, che ha fatto di alcune opere quasi un monito per le generazioni future

Da sempre uno dei temi del cinema è stato quello di riprodurre le paure degli uomini e della società contemporanea. Lo ha fatto in diversi modi, sfruttando i canoni della letteratura di genere come per esempio nelle varie rappresentazioni di Frankenstein o di Dracula, oppure focalizzando il tema del diverso come nel Freaks di Tod Browning o in The Elephant Man di David Lynch, o ancora nel filone apocalittico/blockbusteriano di ultima tendenza, quello di Armageddon, Deep Impact o Independence Day.
Ma il tema che forse più ha attratto talentuosi autori e registi è stato la rappresentazione di una possibile società futura, presentata con i suoi pregi e soprattutto con i suoi difetti, che ha fatto di alcune opere quasi un monito per le generazioni future. Molte volte questi film hanno anticipato paure e ossessioni del genere umano di diverse decine di anni, basti pensare al Metropolis del 1927, uno dei capolavori indiscussi della cinematografia mondiale e capostipite dell'intero genere fantascientifico/futuristico.

Il film di Fritz Lang è la prima vera rappresentazione cinematografica della metropoli del futuro, un'immensa città in cui tutti le costruzioni sono esclusivamente grattacieli (il regista tedesco ebbe quest'idea quando, nel 1920, vide per la prima volta New York e il suo impressionante skyline) divisa in due zone, quella bassa e povera in cui vivono i lavoratori, e quella più vicina al cielo, dimora dei ricchi pensatori. Come vedremo, il tema di una società spaccata in due classi sarà un tema ricorrente e quasi sempre sarà la tecnologia la causa di questa profonda scissione. In Metropolis c'è già tutto questo, così come c'è già un altro importantissimo tema, quello della perdita d'identità da parte del singolo individuo: tutti i lavoratori non sono altro che parte di un'enorme catena di montaggio (qualche anno dopo sarà Charlie Chaplin con il suo famosissimo Tempi Moderni a ribadire questo concetto con la sua strepitosa e irriverente comicità), lavorano con perfetto coordinamento ed è quasi impossibile riconoscerli dalle macchine, tanto è vero che il dittatore per ostacolare l'amore del figlio per la plebea Maria, farà costruire un androide a sua immagine e somiglianza.

E parlando di perdita di identità collettiva non si può non pensare che a Blade Runner, film del 1982, diretto da Ridley Scott e tratto da un racconto di Philip K. Dick (lo stesso autore di Minority Report, film per la regia di Steven Spielberg, che racconta di una società in cui i criminali vengono catturati ancor prima di commettere il delitto per cui verranno condannati), che presenta diversi elementi in comune con Metropolis, sia nella ricostruzione di una metropoli molto simile a quella di Lang, che nella discriminazione alla base dell'intero film, non più verso i poveri, questa volta, ma verso i replicanti, ovvero degli androidi ormai talmente simili agli umani da essere riconoscibili soltanto mediante complicati test. La cattura di cinque replicanti dell'ultima generazione scappati e rifugiatisi sulla Terra, da parte di uno dei blade runner, gli investigatori specializzati nella cattura ed eliminazione di questi androidi, si trasformerà in un viaggio attraverso una società malata costituita da persone deumanizzate, incapaci ormai di provare veri sentimenti. E saranno proprio i replicanti a dimostrarsi i più umani: infatti Ridley Scott, nel fortemente voluto director's cut, conclude il film con la scoperta da parte di Deckard, il cacciatore di androidi al centro del film, di essere in realtà anch'egli un replicante, perfino più vecchio e superato di quelli che va cacciando.

Si tratta quindi di un rovesciamento di fronti, del trionfo della creazione sul suo creatore, che, come dicevamo, è poi uno dei temi portanti di questo genere cinematografico. Se ne farà portavoce, infatti, due anni dopo anche James Cameron con il suo Terminator, raccontandoci una storia ambientata nel presente ma la cui matrice proviene da un futuro in cui le macchine, in seguito ad un olocausto nucleare, hanno preso il controllo del pianeta e cercano di cancellare le ultime tracce di resistenza umana. Ancora una volta si gioca sull'impossibilità di riconoscere un androide da un essere umano, ma questa volta hanno un ruolo importante nella storia le caratteristiche di una macchina come perfezione, infallibilità e instancabilità in contrapposizione alle imperfezioni dell'essere umano: la creazione dell'uomo è ormai talmente perfetta da riuscire a superare il suo creatore in tutto, ed è logico pensare, quindi, che quando gli uomini si saranno annientati con le loro stupide guerre, le macchine, quelle che una volta erano dei semplici servi, potranno prendere il loro posto.

Nel 1999 arriva nei cinema di tutto il mondo Matrix e diventa subito un cult-movie. L'idea alla base del film è fondamentalmente la stessa già espressa da Terminator (ancora una volta le macchine hanno preso controllo del pianeta e allo scopo di utilizzare, a loro insaputa, gli esseri umani come fonte energetica, hanno creato un modo interamente virtuale in cui gli uomini credono di vivere una vita reale) ma sfrutta sapientemente anche uno dei nuovi spauracchi della società contemporanea, ovvero l'idea di un mondo virtuale che possa prendere il posto di quello reale. Questa stessa paura, anche se in modo meno evidente e meno aggressivo, era già stata elaborata qualche anno prima in due film molto differenti tra loro ma di sicuro interesse. Il primo è del 1995, si intitola Strange Days, e pur essendo diretto dalla talentuosa Kathryn Bigelow, si può considerare in tutto e per tutto un film di James Cameron, lo stesso dei (primi) due Terminator, che infatti ne curò soggetto e sceneggiatura. Il film è ambientato durante gli ultimi giorni di un futuristico 1999, che non presenta un'umanità così diversa dalla nostra come potrebbe essere quella rappresentata da Blade Runner, ma una società estremamente violenta, in cui la fa da padrone un'invenzione tecnologica, illegale tanto da essere considerata al pari delle nostre droghe, che permette di registrare, e quindi rivivere, tutte le sensazioni provate da una persona nel momento in cui indossa questo apparecchio, chiamato SQUID. Ne consegue che moltissime persone utilizzano questo mezzo per sfuggire alla realtà, e rifugiarsi continuamente nel passato, o in situazioni non realmente vissute di persona, che portano ad un dissociarsi da una realtà violenta e piena di problemi e ad una chiara (anche qui) perdita d'identità.

Il secondo film è del 1997, un film quasi tutto italiano, Nirvana, per la regia del premio Oscar Gabriele Salvatores, che sviluppò appunto un progetto molto innovativo per il cinema nostrano, aprendo le porte ad un genere relativamente nuovo per il nostro cinema ma a cui, purtroppo, per ora nessuno ha dato seguito. Al centro del film è un geniale creatore di videogiochi che scopre che il suo ultimo prodotto è stato infestato da un virus, che ha donato al protagonista una vita propria. Ne conseguirà un viaggio, allo scopo di distruggere il gioco prima che sia distribuito, attraverso delle metropoli molto simili a quelle già viste in tanti altri film di fantascienza, in cui incontrerà molte persone ma poche in realtà vive e dotate di sensibilità pari a quelle di Solo, la sua creazione. C'è una scena molto significativa in questo film: Jimi, il programmatore di cui parlavamo, incontra Naima, una giovane hacker, che a causa di un'amnesia vive di memorie fasulle e può inserirsi in testa, mediante microchip, ricordi artificiali. Jimi le chiede di inserirsi i ricordi della moglie ormai perduta in modo da poter rivivere alcuni attimi ancora con la persona amata. Altra realtà virtuale, altra prova di chiara impossibilità di accettare la realtà per quel che è.

Nirvana continua anche con il proporre una personale e angosciante visione delle metropoli future, tutte le città del nord Italia sono unite tra loro e formano un unico e gigantesco agglomerato urbano, chiamato appunto "agglomerato del Nord", completamente integrato e multietnico, una visione molto vicina a quella della saga di George Lucas, che in particolare in Star Wars Ep. 1 - La minaccia fantasma, e nel seguito Star Wars Ep. 2 - L'attacco dei cloni, ci mostra Coruscant, un pianeta interamente ricoperto di edifici, in cui, proprio come nel precedente Il quinto elemento di Luc Besson, migliaia di veicoli volanti affollano gli spazi tra un grattacielo e l'altro e nei cui locali possiamo trovare rappresentati di ogni razza. Chiaramente il tutto non è altro che l'idea della metropoli di Fritz Lang semplicemente portata all'ennesima potenza, e infatti anche nel film di Salvatores, così come in due film di Terry Gilliam, L'esercito delle dodici scimmie e Brazil, gran parte dell'umanità è costretta a vivere nel sottosuolo, lontana dalla luce del sole.

Addirittura in A.I. Intelligenza artificiale di Steven Spielberg (ma da un'idea di Stanley Kubrick, che in parte aveva già detto la sua su una non meglio precisata ma violentissima società futura con Arancia Meccanica) l'effetto serra e il conseguente aumento della temperatura terrestre hanno fatto sciogliere molti ghiacciai millenari causando l'inondazione di quasi tutta la superficie terrestre, comprese città come New York o Londra, e in 1997: fuga da New York di John Carpenter (e nel suo seguito/remake Fuga da Los Angeles) le grandi metropoli americane perdono di significato e, una volta isolate con grandi mura di cinta, si trasformano in immense colonie penali abbandonate a sé stesse. Per fortuna a portare un po' di ottimismo ci pensa in parte una commedia come Ritorno al futuro 2, che ci mostra un futuro sì ipertecnologico, ma non così spaventoso come può sembrare, sempre che ci si riesca ad abituare all'idea di trovare nei cinema Lo squalo 19.

Un altro aspetto interessante che si può notare in questo filone cinematografico è come quasi sempre il mondo futuro venga rappresentato sotto una dittatura o comunque sotto il comando di una élite spietata e autoritaria. E' il caso del famosissimo romanzo 1984 di George Orwell e della sua trasposizione cinematografica realizzata da Michael Anderson nel 1956, in cui c'è un Grande Fratello che governa controllando tutto e tutti attraverso una ragnatela di telecamere, ma anche del più recente The Truman Show di Peter Weir che rappresenta un versione più limitata ma non meno agghiacciante del mondo inventato da Orwell. Il protagonista Truman crede di essere una persona come tante e di vivere in una città normale, ma dopo alcuni strani avvenimenti scopre finalmente la verità su tutta la sua vita, ovvero di essere costantemente spiato da centinaia di telecamere e che tutto quello che lo circonda, la moglie, gli amici, i colleghi, la città stessa non sono altro che un falso, parte integrante dello spettacolo televisivo più seguito al mondo. Nonostante non tratti di una società futura, ma semmai alternativa, questo film comprende un po' tutti i temi già trattati precedentemente: quello della perdita di identità (tutti gli attori che compongono lo show sono costretti a vivere una doppia vita e a fingere continuamente), quello della creazione che si oppone al suo creatore ovvero il regista e ideatore dello show Christof e quello di una dittatura opprimente (lo stesso Christof cercherà di utilizzare ogni mezzo pur di opporsi alla decisione di Truman di lasciare lo show), ma ne introduce uno altrettanto importante, ovvero quello di una società che gioca con la vita delle persone per farne uno spettacolo, un divertimento per il pubblico, tema comunque già trattato più volte come ne L'implacabile, scadente trasposizione di un romanzo di Stephen King, o anche nell'italianissimo La decima vittima.

Tornando alle dittature opprimenti di cui parlavamo poc'anzi, un altro esempio importante è rappresentato da Fahrenheit 451 di François Truffaut, tratto dall'omonimo romanzo di Ray Bradbury, in cui viene narrato di questa società governata attraverso dei televisori da cui vengono impartite notizie e informazioni, in cui i libri non solo sono mesi al bando, ma vengono anzi cercati, sequestrati e immediatamente bruciati (il titolo sta proprio ad indicare la temperatura a cui brucia la carta) da apposite squadre di pompieri. Ovviamente vi è un gruppo di ribelli che cerca di sottrarsi a queste dure leggi ma stavolta la loro lotta sarà condotta in maniera atipica, non con un violenta rappresaglia il cui fine è quello di ribaltare la situazione governativa, ma con un pacifico allontanarsi da quella che società che non gli appartiene e dalla ossessionante tecnologia, che, come abbiamo visto anche in tanti altri film, è molte volte la causa di questa perdita di controllo. La loro scelta sarà quella di allontanarsi dalle città e di rifugiarsi in oasi verdi e solitarie, in cui ognuno di essi dovrà imparare a memoria un libro così da poterlo tramandare anche senza l'ausilio del supporto cartaceo. Pacifismo, ritorno alla natura e alla tradizione orale, un allontanarsi insomma dalla modernità e dall'innovazione, la soluzione di Bradbury sembra forse essere quella comune, scelta da tutti i registi che si sono cimentati in questo filone cinematografico, e per una volta se ci sarà una perdita d'identità, sarà perché ognuno si sarà attribuito il nome di un libro. Almeno per una volta sarà stata una scelta spontanea.