L'immagine di un reticolo, raffigurazione geometrica del senso di prigionia, si disvela lentamente come la grata di un tombino. La macchina da presa si solleva verso le luci e le sagome di un'affollata strada di New York in una sera d'inverno, e nella stessa inquadratura segue i passi di un uomo fino all'ingresso di un locale. Uno stacco di montaggio e ritroviamo quell'uomo al bancone, intento a scambiare qualche parola con il barista. La cinepresa aderisce al suo sguardo dirigendosi verso la folla dei clienti, fino a soffermarsi su un tavolo a cui sono sedute due donne.
La più giovane, richiamata dalla voce del nuovo arrivato, si volta verso di noi, mostrando il volto di Rooney Mara; da quel momento la focalizzazione del racconto si sposta all'improvviso dall'uomo della prima sequenza, il cui ruolo si è ormai esaurito, a Therese Belivet. È la prima 'sorpresa' che ci riserva Carol, ma anche una piccola trasgressione delle convenzioni narrative che, al tempo stesso, rende omaggio all'analogo incipit di un'altra struggente pellicola su una storia d'amore tormentata: Breve incontro di David Lean, pietra miliare del melodramma.
Un cinema fra passato e presente
Il cinema di Todd Haynes, in fondo, è proprio questo: un anello di congiunzione fra il passato e il presente; un ponte fra un classicismo cristallizzato in archetipo e l'inebriante volontà di sperimentare, di giocare con quei modelli rileggendoli alla luce della nostra contemporaneità. E in tale prospettiva, Carol costituisce lo zenit dell'itinerario artistico del regista californiano, al suo ritorno sul grande schermo dopo quasi otto anni di assenza con questa magistrale trasposizione di un romanzo giovanile di Patricia Highsmith, scritto nel 1952 sotto pseudonimo a causa del carattere allora controverso della materia: la love story clandestina fra la giovane commessa Therese Belivet e la più matura Carol Aird, sofisticata signora di estrazione borghese con un matrimonio alla deriva. Presentato alla scorsa edizione del Festival di Cannes, dove Rooney Mara ha ricevuto il premio come miglior attrice, e dal 5 gennaio nelle sale italiane, Carol è assurto allo statuto di capolavoro all'interno di una filmografia limitata a pochi titoli, ma molto densa, variegata e ricca di suggestioni. Una filmografia che guarda al passato, ma irresistibilmente protesa verso il futuro...
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Incubi (post)moderni: Poison e Safe
Appassionato di semiotica e di poeti francesi, nel 1987 Todd Haynes firma il mediometraggio Superstar: The Karen Carpenter Story, biografia della compianta Karen Carpenter realizzata usando esclusivamente delle Barbie: un primo esempio dell'originalità dell'autore, costretto però a far 'sparire' questo mini-film dopo la causa intentatagli da Richard Carpenter per violazione del copyright sui diritti musicali. Quattro anni più tardi il suo lungometraggio d'esordio, Poison, conquista il Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival 1991 e viene presentato al Festival di Berlino, dove ottiene il Teddy Award come miglior film a tematica omosessuale, catapultando Haynes tra gli alfieri del neonato New Queer Cinema. Intersezione di tre storie parallele, intitolate rispettivamente Hero, Horror e Homo, Poison è il debutto di un regista ventinovenne con un'irrefrenabile tendenza per la commistione di stili, generi e influenze: dal reportage giornalistico all'omaggio ai B-movie della Hammer in bianco e nero, passando per gli influssi letterari de Il miracolo della rosa di Jean Genet, Poison è un'ardita fusione fra mockumentary, horror e dramma omoerotico, a testimonianza della vitalità di questo giovane autore.
L'inquietudine, fil rouge dei tre episodi di Poison, è il nucleo del secondo e più maturo cimento di Haynes dietro la macchina da presa, nel 1995: Safe, scioccante ritratto di una benestante casalinga della San Fernando Valley, Carol White, consumata da un "male oscuro" dall'origine ignota. L'affresco straniante della routine della borghesia americana è calato in un dramma dalle sfumature surreali: la lenta e progressiva discesa in un incubo kafkiano, descritta tuttavia con una freddezza implacabile, rispecchiata dal rigore della regia. L'ambiguità, sintetizzata in un malessere insidioso e strisciante, si impone come un elemento chiave della poetica di Todd Haynes, mentre lo spazio scenico è adoperato di volta in volta come proiezione degli stati d'animo della protagonista, a cui presta il volto una prodigiosa Julianne Moore, al primo tassello del suo sodalizio con il regista che meglio saprà sfruttarne le doti.
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Decostruzione dell'icona: Velvet Goldmine e Io non sono qui
David Bowie e Bob Dylan: due delle massime icone non solo del rock, ma della cultura popolare del secolo scorso, sono al centro dei due biopic a sfondo musicale girati da Todd Haynes nel 1998 e nel 2007. Ma la definizione di biopic è quantomai stretta per due film che sfuggono a qualunque categoria, proponendo al contrario una formula assolutamente innovativa, sempre nell'ottica di quel postmodernismo che porta a destrutturare il mito, al fine di scomporlo e quindi di riassembrarlo in maniera personalissima e sorprendente. In Velvet Goldmine, i trucchi e le paillettes della breve ma folgorante stagione del glam rock rivivono nella cronaca dell'ascesa (e caduta) di Brian Slade, carismatico divo del glam incarnato dalla sensualità androgina di un Jonathan Rhys Meyers appena ventenne. Haynes costruisce pertanto un fascinoso roman à clef, in cui la parabola artistica di David Bowie e il successo del suo alter ego Ziggy Stardust sono rievocati mediante una struttura narrativa modellata su quella di Quarto potere di Orson Welles, in un'opera in cui il vitalismo liberatorio della cultura glam si amalgama alla storia del coming of age dell'introverso Arthur Stewart (Christian Bale), fra omosessualità, anelito di trasgressione e riflessioni su l'art pour l'art.
Ancora più complesso, stratificato e squisitamente intellettuale è l'approccio adottato da Haynes per Io non sono qui (Premio della Giuria al Festival di Venezia 2007), una sorta di 'mosaico' di un'altra icona popolare dei nostri tempi, Bob Dylan, attraverso sei alter ego ispirati a sei diversi aspetti della produzione musicale e della vicenda biografica di Dylan. Un altro "romanzo a chiave", dunque, ma anche un oggetto filmico in cui il regista fa confluire una spiazzante pluralità di stili, nel segno di una libertà di scrittura e di messa in scena che non conosce vincoli: dall'interrogatorio (senza controcampo) all'indirizzo di un Arthur Rimbaud diciannovenne (Ben Whishaw) al fittizio documentario su Jack Rollins (Christian Bale), idolo del movimento folk (il Dylan delle origini) che un decennio più tardi si reinventerà predicatore cristiano, dalle malinconiche "scene di un matrimonio" dell'attore Robbie Clark (Heath Ledger) con la pittrice francese Claire (Charlotte Gainsbourg) alle crepuscolari atmosfere western dell'avventura del fuorilegge Billy McCarthy (Richard Gere), ma pure il sofisticato bianco e nero e le citazioni felliniane nel ritratto di Jude Quinn, emblema della famigerata svolta elettrica di Dylan con l'album Highway 61 Revisited. Una figura affidata al mimetismo di una Cate Blanchett en travesti, ricompensata con la Coppa Volpi a Venezia, il Golden Globe e la nomination all'Oscar come miglior attrice supporter.
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Magnifiche ossessioni: Lontano dal paradiso e Mildred Pierce
Dopo l'incursione nella Londra glam dei primi anni Settanta di Velvet Goldmine, il successivo progetto di Todd Haynes vira in tutt'altra direzione: verso gli anni Cinquanta e l'epoca del melodramma. E appunto nel 1957, in un elegante quartiere residenziale nel Connecticut, è ambientato Lontano dal paradiso: un film in cui Haynes, con una precisione quasi filologica, recupera gli stilemi del mélo hollywoodiano, richiamandosi in particolare a Secondo amore di Douglas Sirk del 1955 (già alla base, fra l'altro, de La paura mangia l'anima di Rainer Werner Fassbinder).
Una meravigliosa Julianne Moore, premiata con la Coppa Volpi al Festival di Venezia 2002 e candidata all'Oscar come miglior attrice, interpreta il ruolo di Cathy Whitaker, inappuntabile moglie e madre di famiglia, la cui perfetta esistenza a tinte pastello comincia ad incrinarsi irrimediabilmente dal momento in cui sorprende il marito Frank (Dennis Quaid) in atteggiamenti di intimità con un altro uomo; e mentre il distacco fra i due coniugi si fa via via più drastico e insanabile, Cathy sviluppa un profondo affetto per Raymond Deagan (Dennis Haysbert), un giardiniere di colore. Il contrasto fra i sentimenti e le convenzioni sociali, l'esplorazione dei desideri inconfessabili celati dietro il perbenismo borghese, i tabù dell'America di ieri e di oggi (il razzismo e l'omosessualità) sono i temi al cuore di una pellicola che aderisce appieno ai canoni del melodramma - dallo straordinario lavoro sui colori della fotografia di Edward Lachman alla sontuosa partitura musicale di Elmer Bernstein - per evidenziarne i caratteri di modernità e la capacità di portare a galla i conflitti interiori dei personaggi. Accolto dal plauso della critica, Lontano dal paradiso riceve quattro nomination all'Oscar e impone Todd Haynes fra i grandi talenti del cinema contemporaneo.
Nove anni più tardi, nel 2011, sarà un'altra memorabile protagonista femminile il perno di un nuovo confronto fra Haynes e i codici della Hollywood classica, in questo caso il woman's picture: la miniserie televisiva in cinque puntate Mildred Pierce, con Kate Winslet nella parte di una casalinga neo-divorziata della middle class che, nella California degli anni Trenta, accetta un impiego come cameriera e inizia una scalata sociale per soddisfare i capricci della viziata figlia Veda (Evan Rachel Wood). Trasposizione dell'omonimo libro di James M. Cain, Mildred Pierce prende le distanze dall'adattamento cinematografico di Michael Curtiz del 1945, punta di diamante nella carriera di Joan Crawford. Se infatti Il romanzo di Mildred di Curtiz rielaborava la materia narrativa in un intreccio noir con tanto di struttura a flashback, la miniserie di Haynes mantiene una scrupolosa fedeltà rispetto alla fonte letteraria, ma anche allo spirito del capolavoro di Cain: una caustica "pastorale americana" volta a demolire le "magnifiche sorti e progressive" dell'America del New Deal, nonché l'istituzione della famiglia, dilaniata da pulsioni centrifughe che ne rivelano la natura drammaticamente fragile. Trasmesso con ottimi risultati dalla HBO, Mildred Pierce vince cinque Emmy Award e vale alla Winslet il Golden Globe come miglior attrice televisiva.
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Carol: la sublimazione del desiderio
Ed è sempre il melodramma classico ad offrire il modello per l'ultima fatica di Todd Haynes, per quello che, ad oggi, segna il punto più alto nella filmografia del regista. Un melodramma in cui l'aderenza quasi filologica di Lontano dal paradiso alle regole del genere cede il posto ad un livello perfino maggiore di identificazione e di pathos per i personaggi, dando vita ad un'opera che spazza via qualunque sospetto di esercizio di stile. E non solo perché Carol racconta la 'scandalosa' storia d'amore fra due donne, la Therese di ingenua dolcezza di Rooney Mara e la Carol misteriosa e seducente di una Cate Blanchett forse mai così magnetica, nel contesto dell'America borghese del 1951, in cui l'omosessualità è ancora un triste sinonimo di amoralità. Per Haynes, il mélo non è un anacronistico monumento da riesumare per una mera nostalgia del passato, ma il veicolo - tutt'oggi validissimo - per esprimere e mettere in scena emozioni che non potrebbero essere più vive e pulsanti. Talmente vive da riuscire a trasfigurare l'intero universo narrativo (le luci e i colori della fotografia di Edward Lachman, con toni cromatici tendenti al rosso e al verde, le avvolgenti melodie di Carter Burwell, la voce di Jo Stafford in No Other Love) attraverso gli occhi di Therese, traboccanti di muto desiderio dall'istante in cui Carol suscita in lei sentimenti fino ad allora sconosciuti.
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In tal senso, Carol è anche e soprattutto un film sullo sguardo: un poema visivo in cui l'atto dell'osservare risulta inseparabile dal desiderio stesso. A partire da quel primo, indimenticabile incontro fra le due donne in un grande magazzino di New York, laddove la macchina da presa annulla ogni possibile distacco 'critico' o emotivo per sostituirsi agli occhi di Therese, alla ricerca di quella "Venere in pelliccia" in virtù della quale nulla sarà più come prima. Se l'amore, fin dai tempi dello stilnovismo, passa necessariamente tramite gli occhi di chi ama, Carol è, già a partire dall'incipit, un film costruito sugli sguardi: sguardi cristallizzati (le fotografie di Therese, strumento di conoscenza e di comprensione del mondo e degli esseri umani), sguardi reiterati con vivace curiosità (il giovane cinefilo che prende appunti su Viale del tramonto di Billy Wilder), sguardi dinnanzi ai quali si frappongono ostacoli (vetrate, finestrini delle auto) in grado di 'appannare' le immagini, sublimando la contemplazione della bellezza in malinconia e rimpianto. E sono ancora gli sguardi a costituire il motore della narrazione nell'ultima, miracolosa sequenza: un autentico capolavoro nel capolavoro, in cui un semplice meccanismo di campi e controcampi, accompagnato dalla musica di Carter Burwell, suggella come meglio non si potrebbe uno dei film più belli degli ultimi anni, in una scena in cui la passione è sprigionata con una potenza dirompente. Quanto basta per lasciarci abbagliati e commossi al cospetto di un'opera d'arte di cui, da oggi in poi, non vorremmo più fare a meno.