Da quando il cinema ha preso coscienza di essere un potente mezzo narrativo in grado di raccontare le diverse epoche che hanno costituito l'ultimo secolo di storia dell'umanità, non c'è stata una sola rivoluzione, guerra o conflitto sociale che non sia stato rievocato su pellicola, accompagnando il pubblico su scenari ogni volta differenti, anche difficili, e in molti casi contribuendo a 'formare' l'opinione comune su determinati fatti, o a rovesciare dei pregiudizi.
La guerra più difficile tra quelle raccontate sul grande schermo, tuttavia, resta quella contro ciò che esattamente trent'anni fa era stata annunciato come la 'malattia del secolo'. Il 5 giugno 1981 è la data che segna ufficialmente l'inizio dell'epidemia di AIDS, ma anche una data che lascerà il segno nelle vite di tutti, portando con sé una delle più grandi paure degli anni Ottanta, e in parte anche dei decenni a venire. Eppure dovrà passare qualche anno prima che il cinema mainstream decida di affrontare questa tematica così delicata e importante, raccontando l'impatto sociale e individuale che ha avuto l'epidemia sulle ultime generazioni.
Sempre nell'85, il regista Arthur J. Bressan jr. decise di raccontare la storia di un giovane malato e del volontario che lo assiste e con il quale nasce un rapporto d'affetto. Buddies, scritto e realizzato nel giro di poche settimane, e con un budget limitato, esce in limited release in alcune città degli States, ma di fatto è il primo vero film che affronta il tema della malattia e precede la messa in onda del film televisivo Una gelata precoce, in onda sulla NBC lo stesso anno. A causa della distribuzione limitata, a Buddies non viene dato lo stesso risalto che invece sarà attribuito a pellicole uscite qualche anno dopo, pur essendo di fatto la prima pellicola ad affrontare il tema dell'AIDS e la prima a rappresentare una sorta di 'testamento' del suo autore, che morirà due anni dopo, a Una gelata precoce invece - che vede Aidan Quinn nei panni di un giovane malato che si ritrova ad affrontare le sue condizioni di salute sempre più precarie e il confronto non facile con la sua famiglia - vanno una pioggia di riconoscimenti, in particolare agli Emmy 1986. Il film di John Erman affronta con enfasi gli aspetti più drammatici della malattia, evitando però accuratamente di rendere esplicita la relazione tra il protagonista e il suo compagno, tanto che sul set era presente un responsabile della produzione che guidava troupe e regista durante le riprese in cui Quinn e D.W. Moffett erano insieme. Dopotutto si trattava sempre di un film che sarebbe entrato nelle case degli americani, e già affrontare un tema come l'AIDS, era impegnativo, e se a questo si aggiungeva anche l'omosessualità, sarebbe stato davvero troppo. Sul finire degli anni Ottanta, la nostra Lina Wertmuller firma In una notte di chiaro di Luna, una co-produzione con la Francia in cui si racconta di un giornalista che si finge sieropositivo per realizzare un'inchiesta sul tema dell'AIDS. Ma sarà soltanto nel 1990 che una rappresentazione di questo momento storico così importante farà il suo debutto "ufficiale" sul grande schermo con Che mi dici di Willy?, diretto da Norman Renè e interpretato, tra gli altri, da Campbell Scott, Patrick Cassidy, Mary-Louise Parker e Bruce Davison, il quale otterrà una candidatura agli Oscar e vincerà un Golden Globe (oltre che numerosi altri riconoscimenti) per la sua interpretazione. Longtime Companion - questo il titolo originale del film - è un dramma diviso in capitoli temporali che vanno dal 1981 al 1989 e che racconta la storia di un gruppo di amici omosessuali la cui vita viene sconvolta dall'inizio dell'epidemia di questo "cancro gay", come viene definito sui giornali. E' un film al quale non mancano le scene strazianti, ma neanche un tocco di ironia e di leggerezza a equilibrare il tutto. Un film non privo di sequenze e battute camp, che oggi probabilmente mostra i segni del tempo e pur essendo definito impropriamente il primo film ad aver affrontato il tema dell'AIDS, è in realtà la prima pellicola mainstream ad occuparsene, e a dare il via ad un filone vero e proprio che proseguirà per tutti gli anni Novanta, un decennio che tra l'altro sarà ricordato per la scomparsa di personalità come l'indimenticabile Freddie Mercury, il regista Derek Jarman, lo stesso Norman René, oltre che Rudolf Nureyev, Keith Haring, Robert Mapplethorpe e Isaac Asimov, per citarne alcuni, dopo che negli anni precedenti l'AIDS aveva già ucciso il già citato Hudson, il pornodivo John Holmes, la modella Gia Carangi - interpretata da Angelina Jolie nel biopic Gia del '98 - e un artista estroverso e di grande successo come Liberace, che a breve sarà interpretato da Michael Douglas nel biopic Behind the Candelabra. Dopo Che mi dici di Willy? arrivano altri film di rilievo che raccontano la guerra contro l'AIDS, ma soprattutto contro i pregiudizi che ne derivano: il toccante Philadelphia, di Jonathan Demme vede Tom Hanks nei panni di un avvocato che si batte fieramente contro i soci del suo studio, nonostante l'aggravarsi delle sue condizioni di salute e con l'aiuto del suo compagno (Antonio Banderas, qui al suo esordio americano) e di familiari e amici. Hanks ottiene un Oscar per la sua performance (e altri riconoscimenti di prestigio) e contribuisce a far cadere ancora qualche mattone di quel muro invalicabile che è il tabù nei confronti del virus, fortemente radicato anche a Hollywood. Al film di Demme faranno seguito altre pellicole forse meno importanti dal punto di vista "mediatico", ma che nell'insieme forniscono un quadro interessante su quella che è la situazione del periodo.
Nel 1993 escono due film-testamento, Notti selvagge di Cyril Collard e Blue di Derek Jarman: il primo è una pellicola autobiografica non del tutto riuscita e dall'estetica fortemente Eighties, che tuttavia in patria ha riscosso un successo notevole. La particolarità e il limite principale di questo film stanno nel fatto che Collard interpreta praticamente sé stesso in un film ispirato alla sua autobiografia. E' il ritratto di un personaggio 'maledetto', un bisex che si consuma tra gli eccessi, la droga, il sesso e finisce per trascinare nel suo baratro di autodistruzione anche la ragazza che ama. Blue, al contrario, è una pellicola fin troppo minimalista, in cui le parole del regista si sovrappongono ad un'unica schermata di colore blu scuro, che rappresenta lo "sguardo" di Jarman, che in quel momento era limitato a causa della cecità dovuta alla malattia. Per quanto non sia certo un film facile, Blue resta un'opera poetica che si chiude con la certezza, da parte dell'autore, che probabilmente il suo lavoro sarà dimenticato.
A questi titoli si affiancano altri titoli dalla distribuzione limitata, come Zero Patience - documentario incentrato sul paziente zero che avrebbe introdotto l'AIDS negli States, tra verità e leggende metropolitane - la commedia Jeffrey, che racconta della paura, da parte del protagonista a vivere la sua vita sentimentale, per timore di ammalarsi, quindi il drammatico (ed esageratamente provocatorio) Kids di Larry Clark, il televisivo And the Band Played On, e A proposito di donne, che rappresenta un caso raro visto che le protagoniste, per una volta, sono donne e non uomini gay. Per buona parte degli anni Novanta insomma, il tema dell'AIDS è affrontato in più occasioni, ma viene quasi sempre associato alla comunità gay, che di fatto resta quella che a tutt'oggi - almeno in Italia - è tra le più impegnate nel combattere la malattia. Bisognerà aspettare la fine del decennio e poi gli anni Zero, per assistere a film in cui l'AIDS non abbia un ruolo centrale, ma faccia parte della storia che vivono i protagonisti. Già nel 1999 ad esempio, esce Tutto su mia madre, in cui il personaggio di Penelope Cruz è una suora incinta e sieropositiva, ma il suo non è certo un ruolo chiave nel film di Almodovar. E' un periodo in cui le cose stanno per cambiare, e nonostante alcune pellicole siano incentrate unicamente sulla malattia - gli italiani Sono positivo (1999), il cupo e drammatico Giorni (2001) - altre invece guardano avanti. E' il caso di alcune pellicole europee come il solare La strada di Felix, in cui Sami Bouajila interpreta un giovane sieropositivo che intraprende un lungo viaggio per rivedere suo padre, o Le fate ignoranti di Ferzan Ozpetek, nel quale Gabriel Garko interpreta un giovane affetto da AIDS e che fa parte di un'allegra e colorata 'famiglia' gay che condivide sia i momenti di convivialità che i drammi personali. I due titoli più importanti degli anni Zero tuttavia, sono tratti da due opere teatrali: Angels in America e Rent. Il primo è un adattamento televisivo di un dramma di Tony Kushner e vanta un cast stellare e di talento. La storia è ambientata nel 1985, in piena epidemia, e gira attorno a diversi personaggi, tra cui due fidanzati, uno dei quali ha appena scoperto di essere malato. Anche in questo caso il network HBO non smentisce il suo coraggio nel voler produrre e realizzare opere di grande qualità e al tempo stesso innovative. Angels in America è una miniserie che non tradisce la componente più surreale e ironica del testo teatrale - con Emma Thompson prima nei panni di una dottoressa e poi in quelli di un angelo dalle ali spiegate, Meryl Streep in tre ruoli tra cui quello di un anziano rabbino - ma neanche quella più drammatica, che si mantiene comunque lineare e riesce a rendere l'idea di cosa significasse ammalarsi di AIDS a quei tempi. Non mancano poi un pizzico di glamour - la citazione 'drag' a Viale del tramonto - e neanche un tocco di romanticismo e sensualità a rendere indimenticabile un'opera che tra l'altro è stata portata in scena anche nei nostri teatri.New York fa da scenario anche per Rent, che prende spunto dalla Bohème pucciniana per raccontare la storia di un gruppo di giovani artisti e musicisti che vivono alla giornata nel Lower East Side alla fine degli anni '80. Molti di loro sono malati di AIDS, e oltre alle difficoltà economiche condividono anche l'incertezza nel futuro che nel loro caso si trasforma in vitalità creativa ed energia. All'intreccio non manca una storia d'amore, intensa e drammatica come si conviene ad una moderna bohème, ma anche coreografie (tra cui un tango scatenato) canzoni ed atmosfera. Nel cast oltre a Rosario Dawson nei panni di Mimì - indimenticabile il suo ingresso in scena, quando manca la luce nel palazzo e chiede del fuoco per accendere una candela - c'è anche Idina Menzel, che in seguito avrebbe fatto parte del cast di Glee. Sempre degli anni Zero si ricordano altre pellicole che affrontano il tema dell'AIDS in modo più o meno frontale, come Una casa alla fine del mondo e il francese I testimoni, entrambi ambientati negli anni Ottanta. Il secondo in particolare è un tentativo (non del tutto riuscito) di affiancare la cronaca sugli eventi legati ai primi mesi dell'epidemia - con i primi studi e le scoperte - ad un intreccio di natura più fictional, quello dell'incontro tra un giovane appena arrivato a Parigi che inizia una storia con un medico e successivamente una relazione con un poliziotto sposato. Altri film ambientati negli anni Ottanta, e sempre nella fase più "calda" dell'epidemia sono attualmente in sviluppo, come The Dallas Buyers Club, che potrebbe vedere come protagonista Ryan Gosling nei panni di un uomo al quale erano stati dati pochi mesi di vita, e che riuscì ad elaborare una combinazione di farmaci che gli permise di restare in vita altri sette anni. Arrivati a questo punto ci si rende conto di quanto sia cambiato l'approccio alla malattia, sul grande schermo: se tuttavia l'Occidente ha una certa "familiarità" con l'argomento e parecchi tabù sono stati superati (almeno rispetto agli inizi) adesso tocca all'Oriente fare i conti con questa realtà. Non è un caso, infatti, che negli ultimi anni diverse produzioni orientali abbiano iniziato ad affrontare il tema dell'AIDS: basti pensare a titoli come l'indiano My Brother Nikhil (2005) e più recentemente di Love for Life, presentato all'ultimo Festival di Roma, e interpretato da due star come Zhang Ziyi e Aaron Kwok, nel ruolo di due amanti che restano disperatamente uniti fino all'ultimo, a qualunque costo. Il film inoltre affronta anche un altro tema scottante, quello della diffusione del virus in un villaggio cinese, a causa del traffico illecito di sangue. Rispetto al modo in cui il tema è stato affrontato in Occidente agli inizi, in Love for Life viene trattato con più consapevolezza: nel raccontare la storia di questi due amanti, il regista sceglie di concentrarsi sull'impatto sociale che ha la malattia nella Cina rurale di quegli anni, evitando di costruire il dramma sulla sintomatologia, come era stato fatto in passato. La strada però, è ancora lunga e tutta in salita.