Vengono fuori gli animali più strani, la notte: puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori... un giorno o l'altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per sempre.
È una New York putrida e limacciosa, quella osservata da Travis Bickle dai finestrini del suo taxi. Una città privata di ogni traccia di romanticismo: una metropoli decadente inglobata in una perenne oscurità. E lui, Travis, si aggira per questa metropoli notte dopo notte, imbottito di pillole e in preda ai tormenti dell'insonnia, lasciando vagare il proprio sguardo disgustato fra vicoli e marciapiedi, smarrito in uno squallore quotidiano e inesorabile.
Un santo in un mondo di peccatori: questo è Travis Bickle, ex Marine veterano della Guerra del Vietnam. Un santo che, quando esce dal suo taxi, si rinchiude nei cinema porno o nel silenzio di un minuscolo e spoglio appartamento di periferia, senza riuscire a liberarsi da quel senso di spossatezza che grava su di lui: "Dodici ore al volante e non riesco a dormire. I giorni sono interminabili, non finiscono mai...".
"He's a prophet and a pusher, he's a walkin' contradiction"
L'8 febbraio 1976 debuttava nei cinema statunitensi Taxi Driver, quinto lungometraggio di un giovane Martin Scorsese, che poco più di un anno prima era balzato agli onori delle cronache hollywoodiane dirigendo Ellen Burstyn nel fortunato film on the road Alice non abita più qui. Frutto di una sceneggiatura originale di Paul Schrader, influenzata in parte da Memorie del sottosuolo di Fedor Dostoevskij e da Lo straniero di Albert Camus (ma anche dalle proprie traversie personali), Taxi Driver sintetizzava alla perfezione lo spirito del suo tempo: le contraddizioni, la confusione e il malessere di un'America che stava perdendo tutti i propri punti di riferimento. Un sentimento diffuso che i registi della New Hollywood avevano saputo intercettare ed esprimere in maniera esemplare, a partire da un altro disperato ritratto dell'alienazione metropolitana, Un uomo da marciapiede di John Schlesinger, passando per cult quali Non si uccidono così anche i cavalli? di Sydney Pollack, Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, La conversazione di Francis Ford Coppola e Nashville di Robert Altman.
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Contraddistinto da un iperrealismo febbrile e da vertici di scioccante violenza, Taxi Driver si rivelò fin da subito un fenomeno di massa, riportando un enorme successo di pubblico e confermando appieno il talento di un cineasta, Martin Scorsese, che fin dai suoi primi lungometraggi (in particolare America 1929: sterminateli senza pietà e Mean Streets) aveva mostrato un approccio decisamente innovativo al racconto cinematografico. Celebrato dalla critica al Festival di Cannes 1976, dove si aggiudicò la Palma d'Oro, e ricompensato l'anno seguente con quattro nomination agli Oscar, tra cui miglior film, Taxi Driver regalò a Robert De Niro, che aveva già collaborato con Scorsese in Mean Streets (e aveva impersonato un giovane Vito Corleone ne Il Padrino, parte II), il ruolo più importante ed iconico di una gloriosa carriera: quello del tassista Travis Bickle, che di colpo si tramuta in un vigilante notturno con un intero arsenale nascosto sotto gli indumenti. Un sedicente giustiziere mosso dall'intento di ripulire le strade di una New York sordida e pestilenziale, ma anche uno zombie prigioniero in quel taxi che somiglia a una bara gialla su quattro ruote. "He's a prophet and a pusher / He's a walkin' contradiction / Partly truth and partly fiction", come recitano i versi di Kris Kristofferson in The Pilgrim, Chapter 33, uno dei brani del disco che Travis compra come regalo per Betsy.
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"Aveva un vestito tutto bianco e mi apparì come un angelo..."
Lei, Betsy, è un'attivista nel comitato elettorale di un candidato alla Presidenza degli Stati Uniti, il Senatore Charles Palantine (Leonard Harris), la cui popolarità è basata su slogan vacui e demagogici come "We are the people" (il richiamo al misterioso Hal Phillip Walker di Nashville non è così lontano). Interpretata non a caso da un'attrice dalla bellezza classica e raffinata come Cybill Shepherd (L'ultimo spettacolo), Betsy è, agli occhi di Travis, la "donna angelicata", oggetto di un amore perfino troppo sublime per avere alcuna speranza di concretizzarsi. La prima apparizione della ragazza, filtrata dallo sguardo di Travis, è descritta con un'emblematica slow motion e scandita dalla morbida melodia di un sassofono. Betsy è l'ultimo simulacro di purezza in un microcosmo dominato dalla sporcizia e dal degrado; e Travis, non ritenendosi degno di affiancarsi a una creatura di tale grazia, comprometterà inconsciamente il loro rapporto, portandola ad assistere a uno spettacolo di sexploitation.
La poesia e l'orrore: sono i due poli opposti coniugati in uno stridente contrasto che costituisce il cuore del film stesso: il contrasto fra un anelito all'armonia e l'autodistruttivo vortice di follia in cui Travis finirà per sprofondare. Un binomio inconciliabile, simboleggiato in Taxi Driver dalla meravigliosa colonna sonora realizzata per Scorsese da Bernard Herrmann, storico compositore per Alfred Hitchcock e Orson Welles, scomparso poche settimane prima dell'uscita del film. Una soundtrack suddivisa in due aspetti ben distinti: un tema di ineffabile romanticismo, con venature jazz e l'accompagnamento del sassofono, e una musica estremamente tesa e inquietante, perfetto contrappunto sonoro delle ossessioni di Travis. Un'atmosfera sognante incrinata da impulsi distruttivi: è il concetto sottolineato da Scorsese anche in una significativa sequenza del film, quando Travis, nella noia di una serata come tante altre, fissa un gruppo di ballerini del programma American Bandstand che danzano al ritmo della dolcissima Late for the Sky di Jackson Browne, fino al momento in cui, all'improvviso, frantuma il televisore.
"Non c'è scampo: sono nato per essere solo"
È una forma di dannazione, quel male oscuro e senza nome che afflige Travis Bickle. L'insonnia, sintomo di un disturbo ben più grave e radicato, ha tramutato l'antieroe di De Niro in una sorta di zombie dei nostri tempi, che ha posto fra se stesso e i fetidi vapori di una New York ributtante la barriera del taxi. Quel taxi sul quale, di volta in volta, salgono ragazze squillo, psicopatici intrappolati in un loop maniacale (il cameo di Martin Scorsese nei panni di un marito tradito e voyeur) e addirittura lo stesso Palantine, illusorio faro di speranza per il gretto moralismo di Travis, che vede nel mellifluo candidato l'uomo in grado di ripulire la città. Ma la verità è che, nonostante tutti i suoi sforzi, Travis è paralizzato in una divorante solitudine, che lui stesso contribuisce ad alimentare. Fino al punto in cui, in un angoscioso processo di dissociazione, Travis precipita nel baratro della schizofrenia - ma il valore metaforico di questa trasformazione trascende una mera interpretazione in chiave psicanalitica - e, nella scena più famosa della pellicola, si rivolge a se stesso allo specchio, puntando una 44 Magnum verso il proprio riflesso e pronunciando a più riprese la proverbiale esclamazione "Stai parlando con me?".
Alla pazzia incombente di Travis corrisponde anche un progressivo cambiamento nell'impostazione registica di Scorsese, via via più espressionista e baroccheggiante, nonché i segnali di un inequivocabile 'scollamento' dalla realtà. Un esempio su tutti, il delirante monologo interiore introdotto da "State a sentire, stronzi figli di puttana": un flusso di coscienza interrotto a metà frase e riavviato da capo, come un disco che si inceppa, in coincidenza con l'analoga ripetizione delle immagini. La regia di Scorsese plasma letteralmente il tenebroso universo di Travis, allontanandosi a passi impercettibili dal realismo per accrescere l'effetto allucinatorio. Nel frattempo, la metamorfosi coinvolge anche l'aspetto fisico di Travis, che si rasa i capelli in un bizzarro taglio alla mohicana e indirizza la propria sete omicida contro il Senatore Palantine (i "delitti politici", altro tema tragicamente attuale negli anni Settanta). Poi, finalmente, l'esistenza di Travis assume un nuovo obiettivo, ammantato di una nobiltà d'altri tempi: salvare dalle abiezioni del marciapiede la prostituta tredicenne Iris (una giovanissima Jodie Foster), legata a un pappone soprannominato Sport (Harvey Keitel).
"Adesso vedo con chiarezza che la mia vita ha avuto un solo scopo..."
Il sacrificio dell'eroe: nella parte conclusiva di Taxi Driver, la parabola di Travis assume una traiettoria ancora diversa, quella di una scheggia implacabilmente diretta verso il proprio bersaglio. Non pago di aver ferito un rapinatore in un piccolo emporio, per poi abbandonarlo alla furia del negoziante, Travis si immedesima nel ruolo del samurai destinato ad una coraggiosa missione al prezzo della sua stessa vita. È la premessa all'ecatombe che si consumerà di lì a poco: la definitiva discesa nell'incubo di un individuo votato ad un culto mortifero. La macrosequenza notturna dell'agguato a Sport e della sparatoria all'interno del bordello dura un totale di sette minuti: sette minuti fra i più agghiaccianti e feroci che il cinema americano ci abbia mai fatto vivere.
Un autentico "bagno di sangue" calato in una dimensione da incubo, in cui il susseguirsi incalzante dei colpi di pistola e degli arti mozzati è reso perfino più assurdo e surreale dalla fotografia di Michael Chapman: per ottenere il visto della censura, infatti, Scorsese scelse di desaturare i colori, conferendo alla scena un'apparenza quasi visionaria. Ma a stamparsi nella memoria, in questi sette, atroci minuti, non sono solo i dettagli granguignoleschi dello scontro (una mano che salta in aria, un volto che 'esplode' davanti a noi), quanto l'espressione 'svuotata' negli occhi di Travis: il taxi driver, ormai, non è più un essere umano, bensì un automa programmato per uccidere. E Scorsese ci trascina al centro della mattanza variando inaspettatamente i punti di vista, con la focalizzazione che si sposta dalla soggettiva di Travis all'androne delle scale, fino a quel raggelante primo piano dell'uomo mentre si punta alla tempia un indice che gronda sangue.
Lo scontro si è concluso. Le percussioni dello score di Herrmann irrompono nella devastazione della camera, mentre la macchina da presa si solleva in una magistrale carrellata dall'alto, a inquadrare gli effetti della carneficina, in un ralenti spaventosamente onirico che terminerà soltanto fuori dall'edificio, con una panoramica sulla folla in subbuglio. L'epilogo sembra portare un'inedita serenità nell'esistenza di Travis: nell'ultima scena del film lo vediamo sorridente nel suo taxi, con il viso angelico di Betsy riflesso nello specchietto retrovisore. Il sassofono riprende a suonare, mentre intorno a noi scorrono le luci di una New York fascinosa e avvolgente... eppure, quel "ritorno all'ordine" non è che un'illusione. Una dissonanza nella melodia, uno scatto repentino nello sguardo di Travis. Dura appena un istante, ma basta ad instillarci una terrificante certezza: la sua follia è ancora lì, pronta a riaffiorare. È solo questione di tempo.