Alla veneranda età di 84 anni, il cowboy dagli occhi di ghiaccio Clint Eastwood ha deciso di confrontarsi per la prima volta con un genere nel quale non si era mai cimentato prima d'ora: il musical. Con Jersey Boys, in uscita questa settimana in contemporanea in Italia e negli Stati Uniti, Eastwood porta infatti sul grande schermo il pluripremiato spettacolo di Broadway del 2005, firmato da Marshall Brickman e Rick Elice e basato sulla carriera di Frankie Valli e dei Four Seasons, uno dei gruppi vocali più popolari degli anni Sessanta, nonché la rockband di maggior successo prima dell'avvento dei Beatles.
Eastwood in passato aveva già diretto un apprezzato biopic sulla vita di un musicista: Bird, film del 1988 con un giovane Forest Whitaker nel ruolo del sassofonista jazz Charlie Parker. Jersey Boys si inserisce in parte nel medesimo filone, ma a livello di narrazione e di messa in scena si adegua appieno ai canoni del musical vero e proprio, cogliendo anche l'occasione per riproporre le più trascinanti hit dei Four Seasons: Sherry, Big Girls Don't Cry, Walk Like a Man, Dawn (Go Away), December, 1963 (Oh, What a Night), ma anche lo storico cavallo di battaglia da solista di Frankie Valli, Can't Take My Eyes Off You.
L'uscita di Jersey Boys costituisce un'occasione per ripercorrere quel peculiarissimo connubio fra cinema e musica rappresentato dal sotto-genere dei biopic musicali: film biografici basati sulla vita e la carriera degli idoli del pop e del rock. Soltanto limitandosi agli ultimi vent'anni, sono comunque innumerevoli gli esempi di pellicole incentrate sulla scalata al successo delle grandi voci della musica leggera; Jersey Boys, del resto, è stato preceduto di qualche settimana da Marina, produzione belga sulla carriera del cantante italiano Rocco Granata, amatissimo in Belgio proprio grazie alla canzone che dà il titolo al film, mentre ad agosto debutterà negli Stati Uniti Get on Up, biopic di Tate Taylor sul "padrino del soul" James Brown, indimenticabile voce della musica black, impersonato dall'attore Chadwick Boseman. Ma quali altre star del pop / rock internazionale hanno avuto l'onore di comparire sul grande schermo in qualità di personaggi di un biopic? Ricordiamo alcuni dei titoli più noti degli scorsi due decenni...
Le primedonne del rock: Tina Turner e Carole King
What's Love Got to Do with It si domandava con voce ruggente Tina Turner nel 1984, in un verso del brano che avrebbe scalato la classifica USA, riportandola all'improvviso sulla cresta dell'onda grazie ad un album best-seller intitolato Private Dancer. Per Tina, quel disco segnò il ritorno sulla scena dopo un matrimonio a dir poco burrascoso con il marito Ike Turner, con il quale aveva condiviso successi intramontabili (chi non ricorda Proud Mary?) ma anche una vita familiare travagliata e segnata da abusi ed umiliazioni. Un calvario ricostruito nel 1993 nel film di Brian Gibson intitolato appunto Tina - What's Love Got to Do with It, tratto dall'autobiografia della stessa Tina, diventata nel frattempo l'incontrastata regina del rock. Ad interpretare il ruolo di Tina Turner, alias Anna Mae Bullock, è Angela Bassett, mentre Laurence Fishburne si cala nei panni di suo marito Ike: entrambi ottennero la nomination all'Oscar per le rispettive performance.
Nel 1996, un piccolo film intitolato Grace of my heart raccontava la progressiva ascesa di Edna Buxton (Illeana Douglas), un giovanissimo quanto prodigioso talento musicale, che negli anni Sessanta firma numerose hit da classifica per altri artisti ma in seguito decide di tentare il debutto anche come cantante. La pellicola, che descrive con accuratezza l'ambiente musicale del decennio, fra New York e la California, pur utilizzando nomi fittizi è palesemente ricalcata sulla parabola professionale di Carole King: una delle artiste che, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, avrebbero rivoluzionato il concetto stesso di cantautorato. Autrice di un numero incalcolabile di brani da hit-parade, nel 1971 Carole King avrebbe registrato un album, Tapestry, destinato a vendere oltre venti milioni di copie e ad essere consacrato come un assoluto capolavoro, in virtù della presenza di brani diventati a tutti gli effetti dei classici della musica pop.
Io non sono qui: David Bowie e Bob Dylan revisited
Oltre alle fedeli ricostruzioni biografiche, c'è anche chi ha scelto di ispirarsi con molta libertà ad una figura reale per intraprendere poi direzioni diverse e coraggiosamente sperimentali. È il caso dell'operazione compiuta dal regista Todd Haynes con due fra i biopic musicali più orginali, affascinanti ed innovativi mai realizzati. Nel primo, Velvet Goldmine, del 1998, un giovanissimo Jonathan Rhys Meyers si cala nei panni sgargianti e sfacciatamente kitsch di Brian Slade, icona del glam rock nella Gran Bretagna agli inizi degli anni Settanta: un cantante che elegge il travestimento, l'eccesso e la finzione a principi artistici fondamentali per la creazione di un "personaggio" da interpretare sul palco, un alter-ego chiamato Maxwell Demon. Un concetto che vi suona familiare? Ovviamente, dato che Brian Slade riflette chiaramente l'intramontabile David Bowie nel periodo della sua ascesa verso la fama, nonché la "maschera" bowiana per eccellenza, Ziggy Stardust.
A nove anni dallo splendido Velvet Goldmine (titolo non casuale, dato che è ripreso da quello di un brano di Bowie), Haynes ha scelto di raccontare la vita di un'altra fra le massime icone della musica mondiale: Bob Dylan. In Io non sono qui, tuttavia, l'approccio alla materia narrativa si è rivelato perfino più complesso, con una frammentazione dell'intreccio in sei segmenti paralleli, con altrettanti protagonisti. Ciascuno di essi rappresenta infatti un periodo ben preciso della carriera di Dylan o un peculiare aspetto della sua multiforme personalità artistica: dalla fascinazione per Woody Guthrie alla fase folk e acustica del primo periodo, per arrivare alla svolta "elettrica" dell'album Highway 61 Revisited. Ad impersonare di volta in volta questo atipico Bob Dylan si succedono attori come Christian Bale, Richard Gere, Heath Ledger e perfino una stupefacente Cate Blanchett al maschile, candidata all'Oscar e premiata con la Coppa Volpi al Festival di Venezia.
Leggende dalla musica in TV: Elvis Presley e Judy Garland
Laddove il cinema non è (ancora) arrivato, ci ha pensato la televisione: nello scorso decennio, infatti, due miniserie televisive hanno riscosso consensi e riconoscimenti per aver riproposto al pubblico i momenti salienti nelle esistenze e nelle carriere di due fra le massime icone dello show-business del ventesimo secolo. Nel 2001 una straordinaria Judy Davis, premiata con l'Emmy Award come miglior attrice, si è calata nel ruolo della celebre cantante e star del cinema Judy Garland, la diva de Il mago di Oz ed È nata una stella, in Life with Judy Garland: Me and My Shadows, in cui la folgorante carriera della Garland è ricostruita in parallelo con le sue vicende personali e familiari, fra drammi privati e dipendenze da alcol e droga; nel cast della miniserie compaiono anche Tammy Blanchard nella parte della Garland da adolescente e Hugh Laurie in quella di suo marito, il regista Vincente Minnelli. Nel 2005 è stata invece la volta del re del rock & roll, Elvis Presley, protagonista di una miniserie dal titolo Elvis: ad impersonare il ruolo di un giovanissimo Elvis, appena all'inizio di un percorso musicale che lo avrebbe portato a scalare le classifiche grazie a brani quali Heartbreak Hotel, Hound Dog, Love Me Tender e Jailhouse Rock, è ancora l'attore irlandese Jonathan Rhys Meyers, al suo secondo biopic dopo lo pseudo-David Bowie di Velvet Goldmine.
Fra genio e sregolatezza, puntando all'Oscar: Ray, Walk the Line...
Come gli esperti ben sanno, interpretare un ruolo biografico è già di per sé un ottimo punto di partenza per sperare di figurare nella cinquina dei candidati Oscar: se poi il personaggio in questione è un cantante, e magari un'icona della musica, le possibilità di successo aumentano esponenzialmente. Non c'è da stupirsi, pertanto, se diversi biopic musicali hanno fruttato ai rispettivi attori nomination e premi, portandoli talvolta perfino alla vittoria dell'Oscar. Se già in passato si annoveravano casi esemplari (nel 1980 Sissy Spacek conquistò l'Oscar impersonando la regina del country Loretta Lynn ne La ragazza di Nashville), nello scorso decennio ad imporsi fra i giurati dell'Academy è stato innanzitutto, nel 2004, il bravissimo Jamie Foxx, estremamente credibile nella parte del grande Ray Charles nell'acclamato film Ray, per la regia di Taylor Hackford: una cronaca appassionata dell'itinerario umano ed artistico del genio del soul fra gli anni Cinquanta e Sessanta, che fruttò a Foxx l'Oscar come miglior attore.
Appena un anno più tardi, in competizione per la "notte delle stelle" si ritrovarono Joaquin Phoenix e Reese Witherspoon, co-protagonisti del dramma musicale Quando l'amore brucia l'anima - Walk the Line di James Mangold: la storia di Johnny Cash, idolo del country, del blues e del rockabilly degli anni Sessanta e Settanta, e di June Carter, collega e partner di Cash e, a partire dal 1968, sua moglie. Una coppia unita tanto nella vita pubblica quanto nella vita privata, al centro di un film che esplora anche i lati oscuri dell'esistenza di Johnny Cash, ovvero le crisi personali e la sua dipendenza dalla droga. Grazie a Walk the Line la Witherspoon si aggiudicò l'Oscar come miglior attrice, mentre l'intenso Phoenix dovette "accontentarsi" della nomination come miglior attore.
...Le Supremes di Dreamgirls e La vie en rose
Nel 2006, la "benedizione dell'Academy" suggellò invece il trionfale esordio cinematografico di Jennifer Hudson, premiata con la statuetta come miglior attrice non protagonista per la parte della talentuosa Effie White, esclusa dal gruppo delle Dreamettes, in Dreamgirls, adattamento a cura del regista Bill Condon dell'omonimo musical teatrale del 1981. In questa occasione la storia, che ha inizio nell'ambiente musicale di Detroit al principio degli anni Sessanta per poi svilupparsi nell'arco di oltre un decennio, è frutto di finzione, ma è ricalcata con evidenti analogie sulla parabola professionale del gruppo femminile di maggior successo di sempre: le Supremes, terzetto delle meraviglie che avrebbe piazzato in cima alle classifiche una dozzina di singoli storici, vendendo nell'arco di qualche anno decine di milioni di dischi. A capitanare le Supremes, con la sua splendida voce e la sua presenza magnetica, era una giovanissima Diana Ross, impersonata in Dreamgirls da Beyoncé Knowles nella parte di Deena Jones.
Trascorre un altro anno, e nel 2006 a essere incoronata dall'Academy è la strepitosa Marion Cotillard, che conquistò il premio Oscar come miglior attrice grazie alla sua mimetica interpretazione nel ruolo di un'icona della cultura francese: Édith Piaf. A restituirci le glorie, le passioni, le sregolatezze e i tormenti del "passerotto" Piaf, fino alla sua prematura scomparsa nel 1963, è il film La vie en rose, diretto da Olivier Dahan, i cui maggiori punti di forza risiedono non a caso nella personalità contraddittoria ma indomabile della Piaf, che si esibisce con fierezza nella canzone Non, je ne regrette rien, e nello struggimento della donna, magistralmente espresso dalla Cotillard nella sua magnifica performance. Nel 2010, il cinema d'Oltrealpe ci ha regalato un altro film biografico (purtroppo inedito in Italia) basato sulla vita, la carriera e gli amori di un simbolo della musica francese: Serge Gainsbourg, impersonato da Eric Elmosnino in Gainsbourg (Vie héroïque). Nel cast anche Lucy Gordon nella parte di Jane Birkin, Laetitia Casta in quella di Brigitte Bardot e Anna Mouglalis nel ruolo di Juliette Gréco.
Ritratti dell'artista da giovane: Ian Curtis, John Lennon e Jeff Buckley
Non avranno raccolto milioni di spettatori e non avranno ottenuto candidature agli Oscar, eppure in una panoramica dei recenti biopic musicali vanno citati anche titoli apparentemente "minori", ma che in alcuni casi hanno riscosso notevoli consensi e potrebbero diventare, con il tempo, dei piccoli cult. Partiamo da Control, eccezionale esordio alla regia, datato 2007, del fotografo Anton Corbijn, che alla fine degli anni Settanta fu il fotografo ufficiale dei Joy Division. Nonostante abbiano pubblicato appena due album - Unknown Pleasures e Closer - e una manciata di singoli (fra cui She's Lost Control, che dà il titolo al film), i Joy Division sono stati un gruppo seminale della scena post-punk britannica, la cui imprescindibile importanza è riconosciuta ancora oggi. Control racconta i primi passi della band nell'ambiente discografico e la drammatica vicenda del suo leader, Ian Curtis, geniale musicista morto suicida ad appena 23 anni, ed interpretato nel film dall'attore Sam Riley.
Nel 2009 una biografia scritta da Julia Baird, sorellastra di John Lennon, ha costituito la fonte principale di Nowhere Boy, un film basato sugli anni dell'adolescenza di Lennon nei sobborghi di Liverpool, nel periodo compreso fra il 1955 e il 1960, passando per la nascita della sua passione per la musica, le prime esibizioni, fino all'incontro con Paul McCartney e George Harrison. Diretto da Sam Taylor-Wood, Nowhere Boy vede protagonista l'allora diciannovenne Aaron Johnson (futuro marito della regista) nel ruolo di Lennon prima della formazione dei Beatles, mentre Kristin Scott Thomas interpreta la donna che lo avrebbe cresciuto, sua zia Mimi. Se Control e Nowhere Boy si sono ricavati una discreta attenzione, perlomeno nei ristretti confini del cinema indipendente, non ha ricevuto altrettanta fortuna Greetings From Tim Buckley, uscito nel 2013 ma rimasto al contrario totalmente ignorato. Protagonista del film è un personaggio di culto della scena musicale rock degli anni Novanta: Jeff Buckley, figlio del cantante folk Tim Buckley e autore in vita di un unico album, Grace, assurto fra i capolavori degli ultimi decenni. Nel film la parte di Jeff Buckley, scomparso tragicamente nel 1997, è affidata all'attore Penn Badgley.
Progetti futuri: da Whitney ai Queen, aspettando Rocketman
Concludiamo il nostro itinerario cine-musicale con uno sguardo al futuro: dopo i Four Seasons e James Brown, quali saranno i prossimi biopic musicali che potrebbero approdare sul grande schermo? Dovrebbero entrare presto in lavorazione, salvo ulteriori rinvii, i film dedicati a due fra le più amate rockstar della Gran Bretagna: un bopic sul mitico Freddie Mercury, amatissimo e compianto leader dei Queen, con protagonista Ben Whishaw, ingaggiato dopo il forfait di Sacha Baron Cohen; e Rocketman, che vedrà l'imponente Tom Hardy calarsi nei look eccentrici e indossare i proverbiali occhialoni di Elton John, autore di successi indimenticabili quali Your Song, Candle in the Wind e, appunto, Rocket Man. Tutto da confermare, invece, per due progetti di cui si è parlato in più occasioni, ma che per adesso rimangono nel campo delle pure ipotesi: un film biografico su Janis Joplin, per il quale era circolato il nome di Amy Adams, ma che potrebbe risolversi in un nulla di fatto (la breve carriera della Joplin, fra l'altro, aveva già ispirato nel 1979 il film The Rose, con Bette Midler); e una trasposizione del libro Girls Like Us, cronaca della nascita del cantautorato al femminile a Laurel Canyon e dintorni, con la popstar Taylor Swift selezionata per interpretare la leggendaria Joni Mitchell. È di appena qualche giorno fa, invece, la notizia che la rete americana Lifetime porterà sul piccolo schermo la vita di Whitney Houston, altra inarrivabile icona della musica pop, scomparsa nel 2012 a causa della sua dipendenza dalle droghe; il film sarà diretto da Angela Bassett e vedrà come protagonista l'attrice Yaya DaCosta, alla quale spetterà il compito di prestare il volto (e la voce?) alla meravigliosa interprete di I Will Always Love You.