Fuggire. Entrare in un gioco in realtà virtuale dove si può essere chiunque. Scegliere il proprio avatar, salire su una macchina come la DeLorean di Ritorno al futuro e sfrecciare in una New York tanto iconica quanto irreale, tra un T-Rex e King Kong. O ancora, entrare fin dentro il film più spaventoso di tutti i tempi. È Oasis, bellezza. È il gioco al centro di Ready Player One, il nuovo film di Steven Spielberg, ultimo upgrade della riflessione della Settima Arte sul videogame, sulla realtà virtuale e sull'impatto sulle nostre vite. Un viaggio iniziato nel lontano 1982 con Tron, che ha visto varie interpretazioni e vari letture. Ecco come, al cinema, in questi anni siamo stati fuori e dentro al gioco, fuori e dentro la realtà.
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Tron
È considerato il primo film a occuparsi della realtà virtuale, ed è anche il primo film della Disney ad usare la computer grafica. Se pensiamo che siamo nel 1982, è un film che guardava davvero avanti. La storia è vista dal punto di vista di un programmatore, Kevin Flynn (Jeff Bridges), che viene risucchiato dentro il suo gioco, e viaggia nei suoi meandri per sventare i piani di una multinazionale che vuole togliergli la sua creatura. Una volta dentro il gioco, scopre che i "personaggi", i suoi programmi sono in balia di un dittatore, un programma di intelligenza artificiale. A leggere la storia, c'è più di un'assonanza con Ready Player One. Oltre al fatto che un film del 1982 abbia cercato di parlare di realtà virtuale e intelligenza artificiale, a stupire è la forma visiva del film. Che trasporta i personaggi in quello che era l'immaginario dei videogame dell'epoca: uno sfondo nero, e delle essenziali tracce colorate, fluorescenti. Un piano nettamente staccato dalla realtà, schematico, stilizzato, tecnologico. L'idea è basata sul wireframe, una rappresentazione grafica computerizzata di oggetti tridimensionali che mostra solo gli spigoli, lasciando l'interno trasparente. I personaggi virtuali sono stati filmati in bianco e nero, su una pellicola da 70 mm, e colorati a mano in seguito. Una curiosità: tra gli animatori c'erano un Tim Burton agli inizi e il fumettista francese Moebius. Con un sequel, Tron Legacy.
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Il tagliaerbe
Sono passati dieci anni (è il 1992) ed è cambiata la percezione delle tecnologie immaginate in Tron. Anche Il tagliaerbe è raccontato dal punto di vista di un creatore, il professor Angelo (Pierce Brosnan): studiando il cervello umano, inizia una serie di esperimenti con lo stimolo di farmaci e realtà virtuale. La sua cavia è il giardiniere del titolo (Jeff Fahey). In comune con Ready Player One c'è il fatto che l'immersione nella realtà virtuale avvenga totalmente, con tutti i sensi, grazie a dei visori e a una tuta che avvolge tutto il corpo. E che il mondo virtuale sia oggetto di una lotta per il potere. Gli effetti digitali ora ci sono, e il viaggio nella realtà virtuale è di quelli che fa colpo: visti oggi gli effetti sono ingenui, ma hanno qualcosa di lisergico e psichedelico. E mostrano la realtà virtuale come un viaggio, qualcosa di totalmente alieno, estraneo al nostro mondo. Gli otto minuti di effetti speciali furono disegnati in otto mesi da sette persone, e costarono 500 mila dollari.
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Strange Days
Qui siamo davvero al limite tra gioco e droga, tra intrattenimento e fuga dalla realtà. E, se è un gioco, è davvero pericoloso. In Strange Days di Kathryn Bigelow (1995), siamo nella Los Angeles del 1999: allora un futuro immediatamente prossimo, oggi è già il passato. Il gioco, l'esperienza virtuale, ma in fondo reale, è lo squid, sorta di videoregistratore cerebrale che consente di rivivere esperienze "registrate" da altri, catturate direttamente dalla corteccia cerebrale. L'ex poliziotto Lenny Nero (Ralph Fiennes) commercia lo squid, è una sorta di spacciatore. E i guai cominciano quando si ritrova la registrazione di un omicidio. La realtà virtuale è poter abbandonare, per circa mezz'ora, la propria vita, e poter vivere dei "pezzi" della vita di qualcun altro. Girato come un noir, e accostato a Blade Runner per il caos e la violenza della città, al tempo fu una riflessione, da un altro punto di vista, sul virtuale. Oggi ha un altro sapore, e sembra aver anticipato il discorso sui social network, la curiosità della gente di vedere (vivere, in questo caso) la vita degli altri. "L'ansia morbosa di sperimentare le esperienze degli altri, la voglia incontrollabile di entrare nell'esistenza del prossimo sono la molla che accende l'entusiasmo della giornata di chi non riesce più a ritrovare la propria, singola identità" disse la Bigelow, e sembra che parli dei social. Ma questa scelta di non vivere la propria vita, di rinunciare, sembra proprio quella che racconta la voce off di Wade all'inizio di Ready Player One. "La gente non risolve più i problemi e punta a tirare avanti".
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Nirvana
Anche qui siamo dentro a un gioco. Ma i giocatori non siamo noi, che entriamo in una realtà virtuale, cambiando identità e aspetto, ma restando noi stessi. Sono proprio dei personaggi finti, altri da noi. Nel particolarissimo film di Gabriele Salvatores (del 1997), un film di fantascienza italiano, caso più unico che raro, da spettatori entriamo in empatia con uno di loro. È Solo (Diego Abatantuono) che, grazie a un virus che entra nel programma, prende coscienza della sua condizione, e si rende conto di essere un personaggio di un videogioco: si accorge di fare sempre le stesse cose. E quindi di essere costretto, di non essere libero. Così chiede a Jimi (Christopher Lambert), il creatore del gioco di cancellarlo, di liberarlo. E di fargli raggiungere il Nirvana. In fondo, è una metafora delle nostre vite: c'è chi decide di farci venire al mondo, di cancellarci, c'è un destino che guida la nostra esistenza. Gioco e realtà si muovono su due piani ben distinti, nessuno entra nella dimensione dell'altro, nessuno si confonde. I due mondi riescono a dialogare, con Solo che si rivolge al suo creatore. Visivamente, Salvatores caratterizza realtà è gioco grazie a scenografie e fotografia: se la realtà è molto debitrice delle atmosfere di Blade Runner, la città caotica e multietnica, la seconda ha colori desaturati, è quasi in bianco e nero con solo alcuni oggetti colorati, e ha un che di metafisico. E un effetto speciale in più: la recitazione di Diego Abatantuono.
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eXistenZ
Il tema del gioco entra dritto, potentemente, nella poetica di David Cronenberg. Al centro del film (del 1999) c'è eXistenZ, un fantomatico nuovo gioco di realtà virtuale, che è connesso direttamente al sistema nervoso umano grazie al gamepod, una consolle semi-organica collegata da cavi simili a un cordone ombelicale direttamente al sistema nervoso. Il gioco è vivo, ed entra in noi: il connettore accede ai ricordi, alle ansie, alle preoccupazioni del giocatore. In questo modo ogni giocatore interagisce con il gioco, e porta con sé i propri sogni e i propri fantasmi. Secondo la poetica di Cronenberg il gioco è mutazione, estensione dell'uomo, diventa tutt'uno con esso. E anche la forma visiva del film, fotografato con dei colori caldi, monotoni, pastosi, tutto il contrario di quelli che assoceremmo a un videogioco, va in questa direzione: realtà e gioco si confondono continuamente, e noi spettatori siamo confusi come lo sono i personaggi, in quello che Gianni Canova chiama "il naufragio della percezione". In eXistenZ siamo agli antipodi di Ready Player One: nel gioco non si è degli avatar, ma sempre noi stessi. E i due piani non sono divisi, ma diventano un tutt'uno. Separare la realtà dalla finzione è impossibile. Anzi: potrebbero esserci più di due livelli di realtà, livelli potenzialmente infiniti. Ma i rischi raccontati in Ready Player One ci sono anche qui: il fatto che Allegra Geller (Jennifer Jason Leigh), la creatrice del gioco, sia stata condannata da una fattwa, fa pensare al fatto che c'è chi trova la realtà virtuale un pericolo. Tutto torna. E ancora una volta Steven Spielberg ha chiuso un cerchio.
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