Gli Oscar. La cerimonia delle cerimonie cinematografiche, l'ultima in ordine temporale e la più attesa da pubblico e addetti ai lavori, dopo numerose prove generali consumate tra i tavoli dei vari Golden Globe, BAFTA o SAG Award. Il red carpet più chiacchierato che vede sfilare le stelle più luminose di Hollywood tra le urla concitate di fotografi dal clic fulmineo, interviste pre-cerimonia e fan accalcati per ore nella speranza di vedere da vicino i propri beniamini mentre dal divano di casa, complice l'invasione dei social, si consumano incessanti commenti su outfit e acconciature a suon di tweet, tra il crudele e l'ironico.
E gli Oscar 2016, già da settimane, non smettono di far parlare tra gif virali che vedono Leonardo DiCaprio contendersi la tanto sospirata statuetta d'oro con l'orso che lo attacca in Revenant - Redivivo e la protesta di un gruppo di attori afroamericani, capeggiati da Spike Lee, che hanno deciso di boicottare la cerimonia al grido di #OscaSoWhite per rimarcare l'assenza, nelle categorie più importanti, di candidati di colore. Ma se per un momento lasciamo da parte polemiche e le scommesse su chi tornerà a casa con un Oscar sottobraccio - magari andando a festeggiare in un fast food come fece un'elegante Hilary Swank nel 1999 quando vinse per la sua interpretazione in Million Dollar Baby - e ci soffermiamo a dare uno sguardo ai documentari candidati, è facile intuire come il percorso di crescita del genere nato con il cinema stesso si stia muovendo sempre più verso un'evoluzione tematica e formale, grazie anche all'ingresso di nuove realtà produttive come Netflix.
In un'epoca nella quale reebot, prequel e sequel sembrano le parole d'ordine di una parte di cinema che continua, salvo ottime e felici eccezioni, a guardarsi indietro, il documentario ha proseguito, invece, un proprio percorso dove la commistione di generi, lo sviluppo del digitale e l'attenzione alla forma hanno assunto ruoli sempre più importanti ed imprescindibili per la realizzazione di un prodotto di qualità. Da L'uscita dalla fabbrica del 1895 dei fratelli Lumière passando, ad esempio, per i doc di Albert Maysles ad oggi però, quello che non sembra mai essere cambiato è l'attenzione ad immortalare una parentesi precisa, secondo uno sguardo il più obiettivo possibile ma che ovviamente tradisce sempre una certa soggettività di chi quella storia la racconta.
Leggi anche:
Negli ultimi dieci/quindici anni poi, il documentario, ha iniziato a vivere quella che forse potremmo definire la sua stagione d'oro data, non solo da un progresso tecnologico, ma sopratutto da un'attenzione riservatagli da una fetta considerevole di pubblico, probabilmente stanca di un cinema spaventato o incapace di azzardare. Questo ha permesso ai documentaristi di trovare più facilmente produttori e distributori per le loro opere e ne ha inoltre aperto gli orizzonti narrativi. Dai doc di denuncia di Michael Moore (Bowling a Columbine, Fahrenheit 9/11, Sicko), Davis Guggenheim (Una scomoda verità) e Laura Poitras (Citizenfour) alla proficua filmografia dell'abile Alex Gibney (Taxi to the Dark Side, Going Clear: Scientology e la Prigione della Fede) passando per i raffinati lavori di Wim Wenders (Pina 3D, Il Sale della Terra) e Werner Herzog (Encounters at the End of the World), i racconti intimi di Sarah Polley (Stories We Tell) e del duo John Maloof/ Charlie Siskel (Alla ricerca di Vivian Maier), a quelli musicali (Sugar Man di Malik Bendjelloul) e gli ottimi documentari nostrani - da Gianfranco Rosi con Fuocoammare al piccolo e meraviglioso Fuoristrada di Elisa Amoruso fino a Louisiana di Roberto Minervini, 87 ore - Gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni di Costanza Quatriglio o La nave dolce di Daniele Vicari - sono tantissime le opere di qualità realizzate in questa prima parte degli anni 2000, senza dimenticare poi l'importanza e le vittorie che gli stessi Festival dedicano loro.
Altro fattore fondamentale nell'evoluzione del documentario, come già accennavamo, è l'entrata in scena di realtà produttive come HBO e Netflix che hanno dato vita a lavori originali e pregevoli come le docu-serie crime The Jinx: The Life and Deaths of Robert Durst e Making a Murderer, rispettivamente di Andrew Jarecki e del duo Laura Ricciardi/Moira Demos o Cobain: Montage of Heck di Brett Morgen. E proprio tra i candidati come miglior documentario dell'88ª edizione degli Oscar troviamo ben due opere distribuite o prodotte da Netflix, What Happened, Miss Simone? e Winter on Fire, riprova di come la macchina cinematografica stia inesorabilmente cambiando pelle. E allora, in attesa di scoprire chi salirà sul palco del Dolby Theatre il prossimo 28 febbraio, vi proponiamo un focus sui titoli presenti nella cinquina dei papabili vincitori dell'Academy Award come miglior documentario.
Amy - The Girl Behind the Name
Presentato nella sezione Proiezioni Speciali dell'ultima edizione del Festival di Cannes, Amy - The Girl Behind the Name, è il documentario, diretto da Asif Kapadia, dedicato alla vita della moderna Queen of Soul: Amy Winehouse. La cantautrice londinese morta nella sua casa di Camden Town il 23 luglio del 2011, a soli ventisette anni, dopo una lunga e burrascosa lotta contro le dipendenze. Superfavorito per la corsa agli Oscar (dopo la duplice vittoria ai Golden Globe e ai BAFTA), Amy, è immerso nel contesto dal quale prende vita, ricostruendo la storia personale e pubblica della cantante come un'ininterrotta sequenza di immagini e video, lasciando che siano proprio le parole e le note dell'autrice di Back To Black ad unire il tessuto narrativo. Un'opera avvolgente, il ritratto di una ragazza dolcemente sfacciata e dal talento vibrante, imperfetta e fragile. Asif Kapadia, dopo il successo ottenuto con Senna, realizza un nuovo potente lavoro documentaristico che mostra l'insensatezza della morte di Amy Winehouse, abbandonata in balia di media affamati di scandali e scatti impietosi e affetti piccoli, celebrandone lo spirito, la voce, l'arte. E chissà che la ragazza minuta che cantava il jazz non ci stupisca ancora una volta, tornado sul palco per un ultimo, lungo applauso.
The Look of Silence
Già nominato all'Oscar nel 2014 per The Act of Killing - L'atto di uccidere, Joshua Oppenheimer, torna in lizza per la statuetta d'oro con The Look of Silence, presentato a Venezia71. Se il documentario diretto nel 2012 era focalizzato sulla repressione anticomunista che investì l'Indonesia tra il 1965 e 1966 lasciando dietro di sé mezzo milione di vittime e rimessa in scena proprio da due appartenenti ai cosiddetti "squadroni della morte", che all'indomani dell'eccidio furono "promossi" a membri di organizzazioni paramilitari, con The Look of Silence, il regista torna ad occuparsi della dolorosa quanto sanguinosa oppressione del popolo indonesiano, usando però un punto di vista differente. Non più, infatti, l'inconsapevole messa in scena degli assassini che prendono lentamente atto di ciò che hanno commesso ricreando le strazianti scene di torture ed uccisioni, ma il bisogno di confronto di un uomo, Adi, con gli assassini del fratello mai conosciuto ed ucciso nell'eccidio di Snake River. Un nuovo viaggio nell'animo umano, tra bisogno di espiazione, rabbia e affermazione della giustizia.
Winter on Fire
Prodotto in parte da Netflix, il documentario diretto dal russo Evgeny Afineevsky, racconta una storia a noi molto vicina sotto il duplice profilo geografico e temporale. Il racconto, tramite le testimonianze di cittadini qualunque - da studenti a medici, passando per avvocati e rappresenti del clero - dei novantatré giorni che hanno infiammato il cuore dell'Europa da quel 21 novembre 2013 che ha visto scendere in Piazza dell'Indipendenza centinaia di ucraini per protestare pacificamente contro Victor Janukovyč, l'allora Presidente, reo di aver tradito la volontà del popolo di integrarsi all'Unione europea. Da quella data inizia un'escalation di repressione da parte dei Berkut, l'ex unità della polizia antisommossa chiamata a bloccare a suon di manganellate, calci e, nel tragico epilogo, proiettili, "la rivoluzione della dignità" di un popolo coraggioso che ha lottato, dando la vita, per la libertà reciproca. Un documentario che porta lo spettatore a fianco di quegli uomini e quelle donne che non si sono fatti piegare da minacce e abusi, osservando da un punto di vista privilegiato quanto sofferto la nascita di un movimento spontaneo che non ha fatto distinzione di ceto, religione o sesso ma che unito ha protetto i propri diritti.
Cartel Land
C'è una zona lungo il confine tra Arizona e Messico, l'Altar Valley, che è terra di nessuno e dove il narcotraffico messicano agisce indisturbato, senza che le autorità dell'uno o l'altro Stato intervengano con fermezza per porre fino alla mattanza di innocenti dei vari paesini limitrofi o alla preparazione e relativo spaccio di droga. Il documentario diretto da Matthew Heineman, già fattosi notare con Escape Fire: The Fight to Rescue American Healthcare, mostra le lotte parallele di Tim Foley, il leader dell'Arizona Border Recon, e del medico José Mireles, a capo degli Autodefensas, per contrastare il potere e l'espansione degli affiliati ai vari cartelli della droga. Una regia che si mimetizza tra i protagonisti di una storia fatta di agenti corrotti, governi assenti, disperazione e voltafaccia e che mostra la concussione tra le istituzioni legali e i delinquenti che continuano ad affossare una zona già in ginocchio, tra interviste notturne ad uomini incappucciati che preparano metanfetamina nel deserto da vendere negli States e testimonianze delle barbarie subite da parte di uomini e donne innocenti.
What Happened, Miss Simone?
Non solo Amy - The Girl Behind the Name, Cobain: Montage of Heck e Janis. In quello che è stato l'anno del documentario musicale, un'altra voce e icona della musica del XX secolo, Nina Simone, è tornata a rivivere grazie al documentario diretto da Liz Garbus e distribuito da Netflix, dopo essere stato presentato al Sundance e al Festival di Berlino. Come per Amy, anche qui la narrazione non procede solo attraverso interviste, ma anche grazie alle parole e i ricordi della stessa Simone, utilizzando stralci del suo diario privato o filmati inediti che permettono di ricostruire il profilo di un'artista divisa tra talento e fragilità, ambizione e disfatta e che si schierò in prima linea per lottare a favore dei diritti civili degli afroamericani. Ancora una volta la musica che si mischia al privato, rivelando tra una melodia jazz e un'esibizione live, il dramma di una donna che si sentiva schiacciata in una dimensione umana e professionale, racchiusa nella figura del marito/manager, che ne sfruttava immagine e voce, fino al lento declino dei suoi ultimi anni, vissuti in un esilio sofferto dal quale è riemersa proprio grazie alla note di My Baby Just Cares For Me.