Recensione Pulp Fiction (1994)

Un film che ha segnato in profondità il cinema degli anni '90, contaminando i generi, ridefinendo l'estetica della violenza e abbattendo qualsiasi distinzione tra cinema "d'autore" e "di genere".

L'inizio dell'era 'pulp'

Con questo film, datato 1994, Quentin Tarantino ha dato una svolta al cinema degli anni '90, contaminando i generi, ridefinendo l'estetica della violenza, e abbattendo le vetuste ma sempre presenti distinzioni tra cinema "d'autore" e "di genere". E' un'operazione squisitamente popolare, quella di Tarantino (lo stesso titolo, come è noto, viene dalla narrativa cosidetta "pulp", storie pubblicate su riviste popolari a partire dagli anni '30 del secolo scorso), che tuttavia nasconde molteplici influenze, riconducibili indifferentemente a un universo cinematografico più "alto" e ad uno più "di genere": così l'etica e l'estetica del noir (riproposte e sovvertite dal regista) si mescolano con l'exploitation, così l'universo dei gangster tanto caro a Martin Scorsese viene svuotato delle sue regole e del suo fascino, così la rappresentazione estrema della violenza, mutuata da autori come Sergio Leone e Sam Peckinpah, viene trasformata in iperbole grottesca, come in un film d'azione di Hong Kong degli anni '70. Tarantino, quindi, prende tutte queste influenze e le rimescola in un unico calderone, che è poi quello della sua smisurata, onnivora passione cinefila, costruendo un film che sorprende per armonia e compattezza stilistica.
Il film si compone di quattro storie diverse, tutte intrecciate tra di loro e raccontate in modo non lineare: i "salti" temporali, in entrambe le direzioni, sono la norma, e in un'occasione capita addirittura di vedere di nuovo sano e salvo un personaggio che abbiamo visto morire pochi minuti prima. In questa intricata struttura spazio-temporale, la sceneggiatura scritta da Tarantino insieme a Roger Avary (premiata giustamente con l'Oscar) funziona come un congegno ad orologeria: tutte e quattro le storie hanno una loro coerenza, un inizio e una fine, il meccanismo a incastro funziona perfettamente e si può riguardare il film decine di volte senza trovare la minima sbavatura. Soprattutto, i quattro episodi contribuiscono egregiamente a creare un'entità unica, un corpo filmico che ha la sua specificità e un'assoluta unità di tono. Ed è proprio il tono del film, appunto, il modo in cui Tarantino ci mostra le peripezie dei suoi personaggi, a renderlo così unico: sviluppando una particolarità che era già presente nel precedente Le iene, Tarantino fa assurgere spesso il dialogo a vero protagonista del film. Dialoghi rapidi, sferzanti, forsennati, spesso svuotati di una loro valenza specifica: disquisizioni sul luogo migliore per compiere una rapina, o sui coffee-shop olandesi o ancora sulla pericolosità o meno di un massaggio ai piedi fatto alla donna di un boss; discussioni fatte in assoluta tranquillità, spesso prima di compiere, in altrettanta tranquillità e come un fatto di routine, un'azione criminale. Ed è questa l'altra caratteristica fondamentale del film: il crimine visto come routine, il "lavoro" di gangster trattato alla stregua di una qualsiasi altra occupazione, magari anche un po' noiosa. L'universo criminale che un autore come Scorsese ha descritto in tanti film, con le sue regole e la sua etica dell'onore, viene qui svuotato di ogni connotazione epica, e privato di tutto il suo singolare fascino: i gangster di Tarantino sono semplici impiegati del crimine, spesso maldestri, che vanno ad uccidere qualcuno con lo stesso spirito con cui andrebbero a fare una consegna. Personaggi che non possono non restare simpatici allo spettatore, nonostante le conseguenze delle loro azioni siano chiaramente mostrate: la violenza è sempre esplicita, spesso addirittura iperrealistica, ma quasi sempre calata in un contesto talmente estremo e grottesco da farle perdere qualsiasi connotazione drammatica. Così, un uomo ucciso per sbaglio sul retro di una macchina diventa una seccatura da eliminare al più presto, prima che torni la moglie dell'amico da cui si è portata la macchina, o un sequestro con tanto di sodomia sul retro di un negozio, dopo un rocambolesco inseguimento "al sangue", diventa un gustosissimo cartoon risolto dall'eroe grazie alla katana giapponese. Sangue e violenza mostrati in gran quantità, quindi, ma con un effetto sullo spettatore che li rende solo un elemento, invero fondamentale, di una commedia nerissima che non cessa mai di sorprendere. E non bisogna per questo pensare che il tono grottesco, sempre "sopra le righe" del film, tolga spessore a dei personaggi che, nel loro essere eccessivi e caricaturali, mostrano comunque una specifica credibilità, con atteggiamenti e reazioni assolutamente umani che lasciano persino spazio a un'incredibile "redenzione" nel finale.
Non si può non spendere qualche parola anche sul cast, funzionante in modo egregio e magnificamente assortito dal regista: è ormai noto il "recupero" che Tarantino fece di un attore che sembrava irrimediabilmente nella fase discendente della carriera come John Travolta (che si ritaglia anche lo spazio per una gustosissima scena di ballo), ma anche il compare Samuel L. Jackson non gli è da meno, per un tratteggio perfetto di quella coppia di gangster caricaturale e "sopra le righe" che Tarantino aveva in mente. Degni di nota sono anche Bruce Willis (forse al primo ruolo veramente importante della sua carriera), un'intensa ed enigmatica Uma Thurman nel ruolo della moglie del boss Marsellus Wallace, e i meno presenti, ma comunque ottimi, Tim Roth, Amanda Plummer, Christopher Walken e Harvey Keitel; senza dimenticare la gustosa mini-parte dello stesso regista nel ruolo del nevrotico amico dei due gangster Travolta e Jackson.
Assolutamente degna di nota è anche la colonna sonora, con l'ormai classico, indiavolato motivo dei titoli di testa unito a un'intensa cover, ad opera degli Urge overkill, di "Girl, you'll be a woman soon" di Neil Diamond (che precede una delle scene più note e scioccanti del film) e ad altre composizioni che hanno lo scopo di ribadire l'anima "pop" della pellicola.
"Il mio obiettivo non è solo il successo immediato", dichiarò Tarantino subito dopo l'uscita del film nelle sale. "Io voglio che questo film venga ricordato anche fra trent'anni". Di anni per ora ne sono passati nove, e possiamo dire in tutta tranquillità che il ricordo di questo film è vivo, vivissimo, come se fosse una pellicola uscita in questa stagione: per i cinefili formatisi negli anni '90, quest'opera rappresenta un punto di riferimento imprescindibile, sia per quello che ha significato per il cinema di quel decennio, sia per il suo essere ancora oggi straordinariamente vitale, attuale, ricca di nuovi spunti e motivi di interesse ad ogni nuova visione. Certo, quello che ricorderemo o non ricorderemo fra vent'anni, attualmente nessuno può dirlo: ma, ad un terzo del cammino, possiamo dire tranquillamente che la strada, per l'obiettivo prefissatosi da Tarantino, è senz'altro quella giusta.

Movieplayer.it

5.0/5