"Ho sempre pensato che L'occhio che uccide e 8½ dicano tutto quello che può essere detto sul cinema, sul processo della ripresa, sulla sua oggettività e la sua soggettività e sulla confusione fra le due. 8½ cattura il glamour e il divertimento del cinema, mentre L'occhio che uccide mostra la sua aggressività, la cinepresa come strumento di violazione". Dalle parole di Martin Scorsese, riferite a due capolavori diversissimi ma entrambi imprescindibili, trapela una delle questioni più spinose e complesse relative alla settima arte: la cinepresa come strumento capace di determinare il carattere oggettivo o soggettivo della narrazione.
Più precisamente, cosa succede quando la cinepresa 'entra' letteralmente all'interno dello spazio filmico, diventando essa stessa un elemento del racconto? Quando, cioè, lo sguardo del regista - e quindi anche quello dello spettatore - aderisce in tutto e per tutto all'occhio meccanico di una macchina da presa, o di uno dei suoi moderni surrogati? È a partire da tale problematica, per certi versi endemica al cinema stesso, che negli ultimi quindici anni si è sviluppato quasi dal nulla un nuovo filone del genere orrorifico, caratterizzato da una diffusione e da una fortuna sempre crescenti: il cosiddetto horror found footage.
Fra orrore e voyeurismo: L'occhio che uccide
Facciamo un ulteriore passo indietro e, seguendo le indicazioni di Scorsese, prendiamo per un momento in esame un film che, con quasi mezzo secolo d'anticipo, aveva già messo sulla bilancia pesi e contrappesi di tale sottogenere: L'occhio che uccide, appunto, pietra miliare della suspense realizzata nel 1960 dal regista britannico Michael Powell. L'idea al cuore del film, bistrattato all'epoca della sua uscita ma rivalutato in seguito come un autentico capolavoro, consisteva nel ripensare il cinema come supremo atto di voyeurismo e di 'violazione' dell'individuo, riprendendo dunque il discorso già impostato con macabra ironia da Alfred Hitchcock con La finestra sul cortile, sei anni prima. Il Peeping Tom del titolo originale, ovvero il "guardone" (secondo lo slang inglese), è Mark Lewis (Karlheinz Böhm), un giovane cineoperatore la cui personalità disturbata lo trasforma in un serial killer: Mark difatti uccide donne giovani e avvenenti con un coltello montato sul treppiedi della sua cinepresa, filmando così gli ultimi istanti di terrore delle proprie vittime.
E per pochi, angosciosissimi secondi, il pubblico assiste "in presa diretta" agli omicidi di Mark Lewis osservando la stessa scena immortalata dalla macchina da presa del serial killer, in un'inquietante compenetrazione fra l'occhio 'oggettivo' di un semplice strumento tecnico e l'occhio 'soggettivo' dell'assassino, intento a contemplare i suoi delitti. Lo spunto della ripresa in soggettiva dal punto di vista del serial killer avrebbe conosciuto una notevole espansione nel decennio successivo: due esempi su tutti, Profondo rosso di Dario Argento e Halloween - La notte delle streghe di John Carpenter. Ma è un altro principio alla base de L'occhio che uccide, un principio ancora più ambiguo e disturbante, ad aver costituito il fondamento teorico ineludibile dell'horror found footage: il cinema, ovvero l'impulso di filmare, di "catturare la realtà", come atto intimamente voyeuristico e dalle sfumature necrofile, un atto elevato in questo filone a veicolo primario (se non addirittura l'unico) della narrazione e della suspense.
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Alla ricerca della Strega di Blair: la nascita del found footage
Benché non siano mancati esperimenti precedenti di titoli horror al confine con il mockumentary, il più significativo dei quali rimane con tutta probabilità il famigerato Cannibal Holocaust diretto da Ruggero Deodato nel 1980, è il 1999 l'anno che segna l'atto di nascita ufficiale dell'horror found footage, perlomeno nell'ambito del cinema mainstream internazionale. A rinnovare con intelligenza ed inventiva le convenzioni del genere, nell'estate del 1999, è infatti un 'piccolo' film prodotto con un budget di poco più di ventimila dollari e girato in soli otto giorni, nell'autunno del 1997, nei boschi del Maryland, da una coppia di cineasti agli esordi, Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez: si tratta di The Blair Witch Project, resoconto dell'esplorazione di tre giovani studenti impegnati a girare un documentario su Elly Kedward, la Strega di Blair, una figura la cui leggenda è alimentata dai racconti e dalle superstizioni degli abitanti di Burkittsville, un villaggio immerso nella campagna del Maryland. Le indagini dei tre ragazzi li condurranno nei boschi contigui, dove i protagonisti si troveranno a dover far fronte a misteriosi fenomeni...
The Blair Witch Project, senza avere necessariamente grandi ambizioni sotto il profilo artistico, riveste un'importanza indiscutibile nella storia del genere horror: non solo per lo strepitoso successo commerciale (duecentocinquanta milioni di dollari al box office mondiale e quasi cinquanta milioni di spettatori), ma per l'abilità nel veicolare la suspense in maniera nuova e niente affatto scontata. Dal senso di immedesimazione per le sorti dei protagonisti, a cui contribuisce in larga misura proprio l'utilizzo della camera a mano, alla sapiente scelta di tenere l'orrore confinato fuori campo o nell'ombra, stimolando così l'immaginazione del pubblico, all'insolita "cornice narrativa" del film: il fantomatico ritrovamento di un nastro registrato da tre studenti nell'ottobre del 1994, che corrisponderebbe in tutto e per tutto alle sequenze mostrate nella pellicola. Un astuto espediente di pseudo-realismo che, coadiuvato da un'azzeccatissima campagna di marketing virale, riesce a tramutare The Blair Witch Project in uno dei fenomeni cinematografici di fine millennio, a dispetto (o forse in virtù) della qualità amatoriale della ripresa. E da allora, il finto documentario sulla Strega di Blair eserciterà un'influenza incontestabile su dozzine di suoi epigoni... nel bene e nel male.
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La morte in diretta: REC e Cloverfield
Se dopo The Blair Witch Project, almeno per qualche anno, i tentativi di imitazione risultano piuttosto timidi e rari, uno dei migliori esempi in assoluto di horror found footage è un film spagnolo uscito nelle sale nel 2007 e destinato a fare scuola: REC, diretto da una coppia di specialisti dell'horror ispanico, Jaume Balagueró e Paco Plaza. Lo spunto narrativo alla base di REC consiste nella realizzazione di un servizio televisivo nel corso di una delirante notte a Barcellona, con una reporter, Angela Vidal (Manuela Velasco), costantemente seguita da un cameraman di nome Pablo, intento ad inquadrare sia lei, sia il raccapricciante spettacolo di cui la ragazza è testimone. La rivisitazione dello zombie movie, con un palazzo della città isolato a causa della diffusione di un virus che trasforma i suoi inquilini in famelici zombie, acquisisce pertanto nuova linfa vitale proprio mediante le sue modalità di rappresentazione: una camera a mano che fa vivere l'orrore "in diretta" e contribuisce al senso di spaesamento e di claustrofobia dello spettatore, nell'arco di settanta minuti scanditi da un insostenibile crescendo di adrenalina.
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A confermare che, nel biennio 2007/2008, l'horror found footage è finalmente giunto alla sua piena maturazione, conquistandosi perfino una riconosciuta dignità artistica, è il progetto forse più ambizioso nell'ambito di questo filone, nonché uno dei più meritevoli per quanto riguarda gli esiti: Cloverfield. Frutto della collaborazione fra il regista Matt Reeves, lo sceneggiatore Drew Goddard e un produttore con l'intelligenza di J.J. Abrams, Cloverfield costituisce l'evoluzione del monster movie nell'epoca degli smartphone e dei video virali sul web, ma anche del cinema catastrofico in un mondo ancora traumatizzato dall'eco dell'11 settembre. Il found footage assurge così a documento della devastazione prodotta da una gigantesca creatura nel centro di New York: un'apoteosi di terrore riproposta dalle immagini (sgranate, traballanti, confuse) riprese da sei giovani amici mediante una piccola telecamera, incapace di contenere nel proprio obiettivo l'intera portata di tale, spaventosa mostruosità. E in fondo, è proprio la natura limitata del mezzo in questione a trasmettere il senso di smarrimento e di incomprensibilità dell'essere umano di fronte a un orrore che non è davvero in grado di concepire.
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Attività paranormali: apoteosi e declino del found footage
Un altro caso emblematico per quanto riguarda il found footage, nonché quello che ha avuto la maggiore risonanza mediatica dai tempi di The Blair Witch Project, è stato il fenomeno Paranormal Activity, lungometraggio girato a bassissimo costo (quindicimila dollari in tutto) nel 2007 dal regista esordiente Oren Peli, quindi preso in mano dal produttore Jason Blum e lanciato quasi due anni più tardi, nel 2009, sull'onda di una studiatissima campagna di marketing. Non solo un esempio di tecnica del found footage, ma anche di una regia volutamente statica, basata essenzialmente su un sistema di videosorveglianza all'interno della villa di una giovane coppia, Katie e Micah, alle prese con minacciose entità soprannaturali di cui la telecamera registra freddamente la presenza. Pur nella sua sostanziale semplicità, Paranormal Activity si rivela una scommessa vinta su tutta la linea sul piano commerciale (ben al di là dei suoi effettivi meriti), con quasi duecento milioni di dollari d'incasso a fronte di un costo minimo, ma segna anche il momento in cui l'horror found footage giunge a un punto di saturazione, entrando in una fase di progressivo declino.
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Già dal 2008, del resto, l'industria horror aveva colto il potenziale commerciale del filone, attingendone a piene mani e spesso con spregiudicatezza: così, accanto al cimento di un instancabile veterano della suspense quale George A. Romero, che nel 2008 firma Diary of the Dead - Le cronache dei morti viventi (in Italia direttamente in home video), nello stesso periodo con Quarantena, ispirato allo spagnolo REC, parte l'inevitabile ondata di remake e di sequel, i quali per lo più si accontentano di ricalcare formule e stilemi già noti, fino a scivolare nello stereotipo e nell'effetto di "già visto". Fra cineasti indipendenti che vedono nel found footage un modo per dimezzare le spese e produttori di maggior peso (in primis il succitato Jason Blum), l'horror in formato amatoriale o di pseudo-documentario viene esplorato in tutte le sue declinazioni: dal filone sulle possessioni demoniache, con L'ultimo esorcismo del 2010 e, in misura parziale, L'altra faccia del diavolo del 2012, alla catena di prequel e sequel fotocopia di Paranormal Activity (incluso l'imminente Paranormal Activity: The Ghost Dimension , in uscita a ottobre). Più interessante ed originale, semmai, l'operazione condotta nel 2012 dall'esordiente Josh Trank con Chronicle, pellicola in cui il found footage trova una nuova ragion d'essere nell'amalgama con il thriller fantascientifico e il film di supereroi.
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The Gallows: un found footage 'impiccato' dai cliché
Arriviamo così all'ultimissimo titolo, in ordine di tempo, ascrivibile alla categoria del found footage: The Gallows - L'esecuzione, opera diretta a quattro mani - sempre per la Blumhouse Productions - da Travis Cluff e Chris Lofing, con mezzi essenziali, attori giovani e sconosciuti e, di conseguenza, un costo di produzione talmente risibile (centomila dollari di budget) da garantire comunque un lauto profitto, perfino con cifre tendenzialmente modeste (ventidue milioni di dollari sul mercato nord-americano). La vicenda al centro del film è l'allestimento di una recita scolastica dal titolo L'esecuzione, la cui scena clou prevede l'impiccagione del protagonista; ma l'ansia divorante del primo attore, Reese, invaghito della sua partner femminile, spinge il giovane e due suoi amici a tentare di sabotare lo spettacolo la notte prima del debutto. Tuttavia un tragico episodio avvenuto in quella stessa scuola esattamente vent'anni prima, durante una messa in scena della medesima pièce, getterà la sua ombra sul presente, scatenando una maledizione pronta ad abbattersi sui nuovi attori del dramma...
Contenuto in appena ottanta minuti di durata e girato interamente con una telecamera a mano e con la videocamera di un cellulare (e già questo doppio strumento fa venir meno l'assunto di partenza del found footage), The Gallows è la testimonianza di come, nel cinema odierno, il filone dell'horror mockumentary sia impantanato nella carenza di idee nuove e nel ricorso, parossistico e dunque inesorabilmente poco efficace, a tutti i cliché del caso, incappando pertanto in una scarsa coerenza narrativa, ma soprattutto restando ingabbiato in convenzioni fin troppo rigide e schematiche per poter suscitare l'inquietudine del pubblico. Se in film come The Blair Witch Project, REC e Cloverfield la coincidenza fra lo sguardo del pubblico e la videocamera ha una sua precisa e ben ragionata funzione, in The Gallows il found footage risulta invece un espediente forzato al massimo grado e mai veramente necessario. Il prossimo banco di prova, per testare lo stato dell'arte del filone, sarà costituito da The Visit, in arrivo l'11 settembre negli USA: questa volta, a tentare di rivitalizzare un genere che pare aver esaurito le sue potenzialità sarà un cineasta controverso come M. Night Shyamalan, alle prese con un horror soprannaturale di ambientazione casalinga, con il patrocinio del 'solito' Jason Blum... premesse incoraggianti o i sentori dell'ennesima delusione all'orizzonte?