Dei ben trentatré libri che fra il 1920 e il 1975, ovvero da Poirot a Styles Court a Sipario, hanno avuto come protagonista l'investigatore belga Hercule Poirot (oltre a vari racconti brevi), Assassinio sull'Orient Express, pubblicato nel 1934, rimane senza dubbio il più famoso. Tale primato può essere attibuito alla natura particolarmente ingegnosa del mistero al cuore della trama (che non sveleremo, a beneficio di coloro che non conoscono il finale), fra i più originali mai ideati da Agatha Christie a pari merito con quelli de L'assassinio di Roger Ackroyd e Dieci piccoli indiani, e all'enorme successo ottenuto dalla prima trasposizione cinematografica dell'opera.
All'epoca, nel 1974, questa sontuosa produzione britannica fu affidata alle mani di un regista che poteva apparire come una scelta bizzarra per un tipico "giallo all'inglese": l'americano Sidney Lumet era noto infatti per le sue infuocate riduzioni di testi teatrali o televisivi (La parola ai giurati, Il lungo viaggio verso la notte e moltissimi altri) e per la sua abilità nei generi del crime drama e del poliziesco (Rapina record a New York, Serpico), mentre in questo caso doveva cimentarsi con una pellicola dal taglio molto più tradizionale. Ma grazie a un approccio di grande intelligenza, all'imperituro fascino della narrativa della Christie e alla partecipazione di un cast davvero stellare, Assassinio sull'Orient Express conquistò il pubblico, registrando nei soli Stati Uniti quasi venti milioni di spettatori.
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Il ritorno sull'Orient Express
Quarantatré anni più tardi, a riportare al cinema il classico di Agatha Christie è stato un autore/attore, Kenneth Branagh, che nella sua carriera di regista è passato con disinvoltura dagli adattamenti shakespeariani che gli hanno regalato la fama a gialli di matrice hitchcockiana (L'altro delitto), horror tratti dalla letteratura gotica dell'Ottocento (Frankenstein di Mary Shelley), thriller psicologici di origine teatrale (Sleuth - Gli insospettabili), cinecomic (Thor), action movie (Jack Ryan - L'iniziazione) e perfino fastose fiabe disneyane (il Cenerentola in live-action del 2015), con risultati diseguali ma quasi sempre apprezzabili. E questo nuovo Assassinio sull'Orient Express, popolato da un'autentica parata di star, ha stravinto la scommessa, perlomeno dal punto di vista commerciale, al punto che la 20th Century Fox ha già confermato Branagh pure per il prossimo Assassinio sul Nilo.
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Ma qual è l'esito di una "sfida a distanza" tra due film che, a quasi mezzo secolo l'uno dall'altro, hanno tradotto in immagini uno dei più importanti libri gialli che siano mai stati scritti? Di seguito, vi proponiamo dunque un ideale 'duello' fra la trasposizione diretta da Sidney Lumet nel 1974 e quella realizzata (oltre che interpretata) da Kenneth Branagh e attualmente nelle sale, prendendo in esame i vari aspetti delle due pellicole e soprattutto le differenze fra questi due viaggi a bordo del treno più celebre nella storia del giallo...
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Gli incipit
Fin dalle scelte relative al prologo si rileva una profonda distanza fra l'approccio di Branagh e del suo sceneggiatore, Michael Green, e quello di Lumet e di Paul Dehn. Green, specializzato in fantascienza e cinecomic (Logan - The Wolverine, Alien: Covenant , Blade Runner 2049), ha deciso di puntare su un'altisonante introduzione della figura di Hercule Poirot, presentato come una sorta di superstar mentre, in una breve e rocambolesca avventura a sé stante, risolve il mistero del furto di una preziosa reliquia a Gerusalemme, con tanto di folla in visibilio e di accenti semi-parodistici. Un incipit movimentato e sopra le righe, che tradisce volutamente la fonte letteraria e sembra quasi strizzare l'occhio allo Sherlock Holmes di Guy Ritchie, ma che a nostro avviso non è efficace quanto quello del film di Lumet.
L'apertura del titolo del 1974 rimane infatti un eccellente esempio di economia narrativa, oltre che di originalità rispetto ai canoni del giallo cinematografico: una macrosequenza di tre minuti rigorosamente muti (nella versione originale), in cui c'è solo la musica di Richard Rodney Bennett ad accompagnare brevi spezzoni in flashback, con tanto di immagini sgranate, colori sbiaditi e fittizi filmati di repertorio, e prime pagine di giornali. Un'inquietante analessi che informa subito lo spettatore dell'antefatto della vicenda, ovvero il rapimento e l'omicidio della piccola Daisy Armstrong, ispirato alla Christie dal famigerato sequestro del figlio dell'aviatore Charles Lindbergh. In questo caso, non ci sono esitazioni: per finezza e funzionalità, l'incipit di Lumet resta nettamente superiore a quello di Branagh.
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I baffi di Poirot: Albert Finney vs Kenneth Branagh
Nel 1974, il casting per il ruolo dell'eccentrico detective belga fu abbastanza bizzarro: a calarsi nei panni di Hercule Poirot fu infatti l'inglese Albert Finney, aitante trentottenne noto per le sue parti da seduttore e leading man in classici come Tom Jones e Due per la strada. Reso irriconoscibile da un impressionante make up, Finney si produsse in una performance controllata e mimetica, che gli valse addirittura la nomination all'Oscar come miglior attore. Più istrionico, per certi versi, il cinquantaseienne Kenneth Branagh, il quale invece non rinuncia allo charme che contraddistingue molti dei suoi personaggi, ma al contrario trasforma Poirot in un 'divo' consapevole di esserlo; e al Poirot più freddo e impenetrabile di Finney contrappone un protagonista più umano, mediante considerazioni del detective a proposito di se stesso (la sua ossessione per l'ordine e l'equilibrio) e richiami a uno sfortunato amore del passato (un elemento, quest'ultimo, inserito in maniera sbrigativa e superficiale).
Branagh, in sostanza, opta per un'altra declinazione dell'icona Poirot, più vicina alla propria sensibilità, e in tal modo evita l'effetto-fotocopia rispetto ai suoi precedessori. Ma per quanto il suo Poirot si dimostri più che convincente, non si può non fargli un appunto: quei giganteschi e orribili baffi posticci, imperdonabile scivolone del reparto dei truccatori. A onor di cronaca comunque la Christie, pur avendo elogiato il film di Lumet, anche nel caso di Finney ebbe da ridire sull'identico dettaglio: i sottili baffi arricciati del Poirot del 1974 non le piacevano affatto!
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I passeggeri dell'Orient Express: attori e personaggi
Accanto a Hercule Poirot, entrambi i film possono contare su un indiscutibile punto di forza: le squadre di comprimari, in cui troviamo volti noti o notissimi e talenti di prima categoria. E proprio lo sfruttamento di due cast tanto ampi e prestigiosi costituisce, da un punto di vista critico, uno degli aspetti più problematici di Assassinio sull'Orient Express. Il personaggio che risalta maggiormente, in entrambi i film, è senz'altro la fascinosa Linda Arden, affidata a due attrici leggendarie e dal carisma magnetico: nel 1974 a Lauren Bacall, che sprigionava eleganza rubando puntualmente la scena, e nel 2017 a Michelle Pfeiffer, la quale disegna una figura sospesa fra ironia e dramma.
La pellicola di Branagh concede inoltre molto più spazio alla giovane Mary Debenham, che ha il volto limpido e lo sguardo innocente di Daisy Ridley; in un ruolo più ristretto, si distingueva però per ambiguità e mistero la precedente Mary Debenham di Vanessa Redgrave, con quella luce di malizia che le brillava negli occhi. Discorso a parte per la vittima designata del racconto, il losco commerciante d'arte Samuel Ratchett, che nel 1974 aveva la sfrontata sgradevolezza di Richard Widmark (caratterista specializzato in parti da villain), mentre nel nuovo film è un Johnny Depp insolitamente cupo. Ma per il resto, eccoci alle note dolenti per Branagh: perché una delle grandi virtù della trasposizione targata Sidney Lumet (assente nel nuovo film) risiedeva appunto nell'equilibrio impeccabile nella gestione dei comprimari, con una catena di serrati 'duetti' fra Poirot e ciascuno dei sospettati. Gli interrogatori di rito, insomma, permettevano all'opera del 1974 di conferire sufficiente spessore, di volta in volta, ai numerosi personaggi in gioco, regalandoci alcune superbe prove di recitazione.
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Un esempio emblematico è quello di Greta Ohlsson, missionaria svedese psicologicamente fragile e ossessionata dal peccato. Nel 1974 a richiedere quel ruolo per sé fu la mitica Ingrid Bergman (alla quale era stata offerta invece la parte della Principessa Dragomiroff), e nonostante i pochi minuti a lei riservati Lumet riuscì a valorizzare la massimo il talento della Bergman: il tormentato monologo della Ohlsson, registrato in un lungo piano sequenza fisso, sarebbe valso a Ingrid il premio Oscar come miglior attrice supporter, addirittura la terza statuetta della sua carriera, oltre al BAFTA Award. Il film di Branagh trasforma Greta Ohlsson in Pilar Estravados per adattarla alla sua interprete, Penélope Cruz, ma il personaggio è penalizzato da un clamoroso miscasting e l'attrice spagnola non riesce mai a renderlo davvero credibile.
Una sorte pressoché analoga tocca, incredibile a dirsi, a un'attrice maestosa quale Judi Dench: il copione riduce la sua Natalia Dragomiroff a una figura bidimensionale e non sfrutta granché il talento della Dench (nel film di Lumet la Dragomiroff era impersonata da un'altra grandiosa veterana dello schermo, Wendy Hiller). Il sopraffino John Gielgud, premiato all'epoca con il BAFTA Award come miglior attore supporter, non viene fatto rimpiangere invece da Derek Jacobi: da sempre fedelissimo collaboratore di Branagh, nei panni del maggiordomo Edward Henry Masterman Jacobi trova lo spazio necessario per lasciare il segno. Meglio soprassedere, infine, sui Conti Andrenyi: alla presenza scenica di Michael York e Jacqueline Bisset nel film del 1974 subentrano infatti due personaggi appena abbozzati e ai limiti della macchietta.
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La resa dei conti
Se in generale i singoli pregi del primo Assassinio sull'Orient Express paiono dunque superiori a quelli dell'opera di Kenneth Branagh, un confronto più complesso riguarda il taglio e lo stile che caratterizzano i due film. Quello di Sidney Lumet, pur senza avvicinarsi ai capolavori del regista (La parola ai giurati, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Quinto potere), può essere definito un ottimo murder mystery proprio nella misura in cui aderisce alle convenzioni del genere, facendo leva sul potenziale 'cinematografico' del romanzo e, per il resto, affidandosi alle suggestioni offerte dal testo stesso. Lumet, in altre parole, si mantiene fedele al libro perché sa che la storia della Christie possiede già in sé le qualità da cui poter trarre un racconto teso e intrigante per il grande schermo.
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L'approccio di Kenneth Branagh è assai meno classico, ma nelle innovazioni apportate all'intreccio si possono rintracciare sia le virtù, sia i punti deboli di quest'ultimo Assassinio sull'Orient Express. Una buona intuizione di Branagh è stata evitare tanto il déjà-vu, quanto la copia carbone del film precedente: la sua trasposizione si discosta significativamente da quella di Lumet e si avvale di alcune notevoli soluzioni registiche, come le riprese dall'alto alla scoperta del cadavere e l'inquadratura dei sospettati nel tunnel, che rievoca l'iconografia de L'ultima cena di Leonardo. Ma sebbene il nuovo Assassinio sull'Orient Express garantisca un piacevole intrattenimento, laddove Branagh si allontana eccessivamente dalla Christie - e dal modello di Lumet - ecco che rischia la stonatura: nelle forzate sequenze d'azione e in una certa tendenza a strafare, ad esasperare il dramma laddove non ce ne sarebbe stato bisogno. Perché in prossimità dell'epilogo, quei proiettili esplosi e quei grilletti premuti non bastano comunque a eguagliare la tensione che, nel film di Lumet, era generata da uno 'scontro' ben più risonante: quello che ciascun individuo - Poirot incluso - dovrà affrontare con gli spettri del proprio passato e della propria coscienza.