Che ci porti nello spazio profondo o nei collegi femminili, Alfonso Cuarón ha un approccio quasi filosofico al cinema: con le sue immagini e i suoi interminabili e splendidi pianosequenza, il regista messicano ha la capacità di racchiudere in immagini un intero universo. Artista eclettico e alla costante ricerca della verità anche quando parla di mondi distopici, Cuarón è particolarmente attento ai tumulti interiori dei suoi personaggi, che spesso si riflettono nell'ambiente che li circonda.
Leggi anche: Cannes contro Netflix e il destino delle sale: chi ha ragione e chi vincerà?
Arrivato a Cannes per i 70 anni del festival, il regista ha tenuto una masterclass in cui ha passato in rassegna tutti i suoi film, cominciando a raccontare i festeggiamenti fatti la sera prima con i suoi colleghi messicani, tra cui gli amici storici Emmanuel Lubezki, Guillermo del Toro e Alejandro González Iñárritu: "Con gli altri registi messicani abbiamo finito la celebrazione alla messicana: con brindisi alla tequila. Non so se qui a Cannes ci amano come registi, ma di sicuro apprezzano come festeggiamo" ha detto sorridente alla folla giunta per ascoltarlo.
Leggi anche: Iñárritu, Cuarón e gli altri: il trionfo dei sudamericani al cinema
Simpatico e modesto, Cuarón ha ammesso candidamente di non sentirsi un maestro, rivelando di essere una persona insicura: "Credo che il mio viaggio non sia consigliabile a nessuno: è fatto di tanta insicurezza. Ammiro i colleghi che sono sicuri di se stessi. A 20 anni il cinema è diventata la mia fonte di sostentamento, ma all'inizio pensavo che al massimo, in caso di estrema fortuna, avrei fatto due film. Diventare un regista è sempre stato il mio obiettivo: ho lavorato come assistente alla regia con vari artisti ed ero davvero felice anche in quel ruolo. Gran parte della mia carriera è stata segnata, anche se adesso ho esorcizzato questo elemento, dal fatto che dovevo mantenermi con il cinema: non potevo semplicemente seguire la mia passione".
Nel percorso personale e artistico del regista è stato fondamentale l'incontro con il direttore della fotografia, tre volte premio Oscar, Emmanuel "Chivo" Lubezki e con i colleghi Del Toro e Iñárritu: "Con Lubezki ci siamo conosciuti a scuola, a Città Del Messico, è uno dei direttori della fotografia più importanti al mondo. Guillermo Del Toro invece è di un'altra città, Guadalajara, era assistente di un artista degli effetti speciali, come me è un altro regista pieno di insicurezze. Tutti i miei amici hanno lavorato con lui e mi sono chiesto per anni come fosse: poi grazie a una serie tv, che io e Guillermo chiamavamo The Toilet Zone, ci siamo conosciuti. Era basata sui racconti di Stephen King. Mi ricordo che sul set c'era questo tipo strano che mi guardava e io lo guardavo a mia volta: ci siamo detti "tu sei Cuarón vero?", "e tu sei Del Toro no?". Lui mi ha detto: ho visto il tuo corto: il racconto di King è bellissimo, quindi com'è possibile che il tuo lavoro faccia così schifo?". Siamo diventati amici immediatamente".
Leggi anche: Cannes 2017: Okja, fischi e urla alla proiezione del film Netflix, stoppato per problemi tecnici
A dimostrazione dell'amicizia che lega i due, a metà incontro Del Toro in persona è apparso alla masterclass, intervenendo diverse volte per commentare l'amico. Entrambi hanno compiuto un lungo percorso per trovare il proprio stile: "Gli anni '60 sono stati un periodo d'oro per il cinema messicano: poi la gente ha smesso di guardare i film messicani. Il mio sogno era diventare assistente dei grandi maestri del cinema messicano, di quella generazione a cui dobbiamo tanto. Quando io e Chivo (Lubezki) abbiamo cominciato, ci siamo sforzati di essere come quella generazione, imparando i segreti del loro stile visivo. Il viaggio di Chivo è durato forse dieci anni: ci ha messo tutto questo tempo per creare il suo stile".
Il critico cinematografico Michel Simon, che ha condotto la masterclass, ha poi cominciato a mostrare una scena tratta da ogni film di Cuarón, che però non ha apprezzato: "Mi fa uno strano effetto vedere delle scene dei miei film: una volta che finisco un film non lo rivedo mai. Molti dei miei amici colleghi considerano le proprie pellicole come i loro bambini: li amano, li nutrono, per me invece i miei film sono come delle ex mogli. Li ho amati molto, ma continuiamo a volerci bene a distanza: non voglio rivederli più".
Uno per tutte (1991)
Il primo film è Uno per tutte, storia che affronta lo scomodo tema dell'AIDS: "Per il mio primo film ho deciso di parlare dell'AIDS: all'inizio era considerata una malattia solo per gay e donne, soprattuto gay, non si pensava che potesse colpire anche i maschi eterosessuali, c'era una visione maschilista della cosa. In quel periodo ero particolarmente influenzato dall'approccio di Martin Scorsese alla commedia e stavo sperimentando con il grandangolo. Anche i titoli mi intrigavano: per esempio mi piace l'uso che ne fa Woody Allen, dividendo i suoi film in capitoli. Questo film ha debuttato al Festival di Toronto nel '91: la première è stata fantastica, eravamo felicissimi perché ero al verde, avevo dei debiti, e il film era stato comprato. Decisi di portare mio fratello e Chivo a festeggiare: invece il giorno dopo mi hanno detto che era saltato tutto. Credevo di essere ricco e invece ero più indebitato di prima. Poi invece Sydney Pollack vide il film e gli piacque moltissimo: mi comprò un biglietto per volare a LA. Hollywood è strana: puoi passare la tua vita senza girare mai una sola scena e comunque mantenerti. Lì mi hanno offerto delle cose ma non c'era niente che mi appassionasse davvero. Avrei potuto farle per mantenermi, ma non mi interessavano. Mi offrirono Fallen Angels, una serie noir antologica con Tom Hanks. Ho vissuto per un po' in quel limbo, stavo facendo una cosa per Warner Bros, ma avevo già preso impegni precedenti quindi ho deciso di lasciare. È stata una decisione fantastica: ho lasciato un posto dove il produttore mi odiava e così ho potuto seguire un progetto che mi stava a cuore".
Leggi anche: AIDS, 1981-2011: nastro rosso sul grande schermo
Leggi anche: Okja: Tilda Swinton su Pedro Almodovar "Non siamo qui per ricevere premi, ma per far vedere il film"
La piccola principessa (1995)
Il film successivo è La piccola principessa, un titolo molto importante per la carriera del regista messicano perché gli aprirà le porte per una delle saghe cinematografiche più amate di sempre, quella di Harry Potter: "Stavo esplorando il mio stile: in questo film e nel primo c'è molto verde, ci sono delle costanti nei colori. È la storia di una ragazza ricca che diventa amica della sua coetanea che fa la serva in un collegio prestigioso. Niente di così sconvolgente: grazie a questa esperienza però ho capito che il cinema racconta le storie visivamente, il dialogo è solo un supporto. Ho imparato una delle tappe fondamentali del processo creativo: le limitazioni. In questo film tutto è visto dal punto di vista della bambina: non si vede mai qualcosa che il personaggio non abbia visto prima. Questo ti aiuta a concentrare meglio il tuo sguardo".
Leggi anche: Festival di Cannes, dietro le quinte: come funziona la kermesse cinematografica più prestigiosa al mondo
Paradiso perduto (1998)
L'opera numero tre è Paradiso perduto, tratto dal romanzo di Charles Dickens Grandi speranze, riadattato in chiave moderna, con protagonisti Ethan Hawke e Gwyneth Paltrow: "Lavorando con gli studios mi ero scordato di essere anche uno scrittore: con questo film ho riscoperto questa cosa. Se non c'è il nucleo della storia, la sua essenza, non si può compensare con nulla questa mancanza. Il design è molto bello, ancora una volta si vira sul verde. Ero attirato dai simboli del classico di Dickens. Ho una reverenza per Dickens: ero così preoccupato di approcciare il suo romanzo che sono stato stupido. Con questo film ho fatto un casino. Alla fine delle riprese ero su un tetto con Chivo e mi sono detto: ma perché stilizzo tutto? Fin dai corti che ho fatto alla scuola di cinema, mi hanno insegnato che il ritmo di una scena lo dà il montaggio, ma con Paradiso perduto ho cominciato a capire il potere emotivo che può trasmettere un pianosequenza. Dopo questo film ho capito che volevo fare film che mi rispecchiassero di più e così ho deciso di fare Y tu mama también. Sul quel set ho anche imparato che la musica è come un personaggio: rivedendo questa scena però mi rendo conto che, come dicono gli italiani, qui è tutto "troppo""".
Leggi anche: Tutto d'un fiato! I migliori piani-sequenza cinematografici degli ultimi 25 anni
Leggi anche: Cannes 2017: il caso Netflix "spacca" la giuria. Will Smith contro Pedro Almodovar
Y tu mamá también (2001)
Il film della riscoperta di sé è Y tu mamá también: "Dovevo capire chi ero: all'epoca vivevo soprattutto a New York e volevo tornare nel mio paese e fare un film lì. Quindi ho chiamato mio fratello e gli ho detto: ti ricordi quella storia di cui parlavamo? Abbiamo scritto la sceneggiatura in poche settimane: è una combinazione di scrittura e improvvisazione. Prima di completare la sceneggiatura avevamo già la struttura del film: doveva raccontare la ricerca di questa spiaggia mitica, doveva essere il processo di crescita non solo dei protagonisti ma anche di un paese. Anche questo film è stato segnato da diverse limitazioni: poche lenti a disposizione, volevo onorare la lingua spagnola. In un certo senso raccontiamo due storie parallele. C'è anche la mia: ritrovare me stesso e il mio paese, che stava vivendo un processo di trasformazione incredibile, che ha portato alla democrazia che abbiamo oggi. Diego Luna e Gael García Bernal sono stati magnifici: sarebbe stato difficile girare scene di sesso così esplicite a Hollywood: lì trovare attori disposti a fare delle scene del genere è più difficile".
Leggi anche: L'inganno di Sofia Coppola: girl power all'epoca dei corsetti
Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (2004)
La svolta arriva nel 2004: il regista viene scelto da J.K. Rowling in persona per dirigere il film della saga di Harry Potter tratto dal libro Il prigioniero di Azkaban: "A J.K. Rowling era piaciuto La piccola principessa e avrebbe voluto che girassi uno dei film della saga. Stavo preparando un'altra sceneggiatura originale ma, con le risorse che avevo all'epoca, non sarei stato in grado di realizzare un altro film messicano. Sul set di Y tu mamá también Gael e Diego mi prendevano in giro per questa cosa di Harry Potter. Ero stato alla première del primo film della saga e non mi aveva entusiasmato molto. Parlando con Guillermo gli dissi che il mio progetto originale, che era I figli degli uomini, non si poteva fare e che quindi stavo valutando se accettare di fare questo altro film ad alto budget, una cosa per me di poco valore: Harry Potter. Guillermo è impallidito e mi ha chiesto: hai letto i libri? Io gli ho detto che avevo visto solo il primo film e che non era roba per me. E lui mi ha richiesto: ma hai letto i libri? Gli ho risposto di no e lui si è arrabbiato da morire, mi ha detto: brutto bastardo ignorante, vai di corsa a comprare quei cavolo di libri, leggili e chiamami immediatamente quando hai finito!" (nota: tutta la scena è stata imitata dal vivo dai due registi).
Leggi anche: Radiance e la delicatezza di Nomi Kawase
"Mi sono approcciato al film in modo realistico: una delle cose che mi è piaciuta di più di Harry Potter è che ha diversi riferimenti alla società contemporanea, quindi ho deciso di concentrarmi su questo aspetto. Per esempio: il personaggio che diventa un lupo mannaro ho deciso di rappresentarlo come un individuo con una dipendenza. Con questo film sono tornato a lavorare con i bambini, una cosa che amo, è facile lavorare con loro: ti regalano istantaneamente dei miracoli. Sono stato fortunato a lavorare con questi bambini, erano molto seri come attori. Daniel Radcliffe aveva 13 anni e ha lavorato in modo magnifico con Gary Oldman. Per farli preparare ho fatto vedere loro I quattrocento colpi: lo faccio spesso con i miei attori, gli faccio vedere dei film o sentire della musica per far capire loro l'umore del film".
Leggi anche: Harry Potter: 10 cose che (forse) non sapete sulla saga
I figli degli uomini (2006)
A due anni da Harry Potter, il regista firma uno dei suoi film migliori: "La première di Y tu mamá tambièn a Toronto fu pazzesca: il giorno dopo c'è stato l'11 settembre. Dopo quell'evento tragico ho cominciato a interrogarmi su che forma avrebbe assunto questo nuovo secolo. Ho fatto I figli degli uomini basandomi su queste premesse, non sono partito con l'idea di fare un film di fantascienza e per me non lo è. Sono stato fortunato a non farlo dopo Y tu mamá tambièn: le riprese erano più rilassate di quelle di una piccola produzione, così ho avuto modo di documentarmi in modo approfondito. Ho parlato con molte persone incredibilmente intelligenti e tutte sono arrivate alle stesse conclusioni. Il film è pieno di riferimenti, a partire dalla musica. La sceneggiatura era oscura, ero più preso dal contesto della storia, dallo sfondo. A Clive Owen ho fatto vedere La battaglia di Algeri per fargli capire cosa volevo. Con Chivo volevamo mettere su pellicola un momento di verità: abbiamo deciso che gli avvenimenti dovessero susseguirsi in modo consequenziale, quindi abbiamo capito presto che avremmo dovuto fare molti pianosequenza. Abbiamo girato intorno a Londra ma ci siamo ispirati a fotografie di guerra".
Leggi anche: Happy End: l'indifferenza suicida della borghesia europea
Gravity (2013)
Il 2013 è l'anno della consacrazione: presentato in apertura alla Mostra del Cinema di Venezia, Gravity ha fatto guadagnare a Cuarón due Oscar, quello per la miglior regia e quello per il montaggio: "Il nome del personaggio di George Clooney, Kowalski, viene da una serie tv. Abbiamo capito subito che avremmo dovuto fare un uso massiccio del digitale. Volevamo ricreare una sensazione di tranquillità che precipita. A differenza di altri progetti questo non è un film che è rimasto nella mia testa per molti anni: finalmente avevo i soldi per farlo subito. Con mio figlio abbiamo buttato giù la storia in nove ore: finalmente avevo la possibilità di fare un film commerciale e che volevo davvero girare. La prima stesura comprendeva un solo personaggio, una donna, che non avrebbe dovuto avere nemmeno una battuta. Volevamo parlare di rinascita: il film per me è una presa di consapevolezza attraverso il cinema".
Leggi anche: The Killing of a sacred deer: la tragedia cerca di Lanthimos ci riporta ad antichi orrori