Destino strano quello di Mediterraneo di Gabriele Salvatores. Se pensate che le polemiche attorno all'eredità e al valore artistico de La Vita è Bella o La Grande Bellezza siano accese, allora forse vi siete persi il mare di opinioni divergenti su questo film, terzo capitolo della cosiddetta "trilogia della fuga", che fu la colonna portante e più preziosa del percorso da regista di Salvatores. Diego Abatantuono, Claudio Bigagli, Giuseppe Cederna, Claudio Bisio, Ugo Conti, Antonio Catania erano i nomi forti di un cast che fu chiamato ad interpretare una pattuglia del regio esercito italiano mandata ad occupare un'isoletta dell'Egeo senza alcuna importanza. Ma quel viaggio, quell'isola, quel piccolo angolo di mondo tagliato fuori dal mondo in armi, avrebbero cambiato la vita di quegli uomini per sempre.
La metafora di un'Italia decadente di inizio anni 90
Ancora oggi vi sono polemiche circa l'immagine stereotipata da "italiani brava gente" a cui secondo molti Gabriele Salvatores si collegò, per dipanare quel racconto agrodolce in cui un gruppo di trentenni completamente diversi per carattere, provenienza e vissuto, si trovavano improvvisamente isolati dal secondo conflitto mondiale, alle prese con un'isola ed i suoi abitanti. Quel viaggio li avrebbe cambiati per sempre, spesso senza che loro stessi riuscissero ad accorgersene. Roger Ebert fu molto severo con Mediterraneo, giudicò assurda l'assegnazione dell'Oscar come Miglior Film Straniero a discapito di Lanterne rosse di Zhang Yimou. Ma la realtà è che il film era troppo personale, volendo anche troppo italiano nella sua poetica, nei significati e riferimenti, perché Oltreoceano questi fossero colti appieno e Mediterraneo venisse visto nel modo giusto, interpretato per quello che era in realtà: uno struggente e disperato grido d'aiuto. Era un film sulla realtà dell'Italia dei trentenni e quarantenni boomers, un atto di rivolta contro la società e quella vita stantia e ripetitiva che veniva offerta. La fuga, la fuga era l'unica cosa che contava, che poteva salvarti, darti un'alternativa, anche solo apparente, di fronte ad una prospettiva di vita veramente desolante.
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La fuga è la sola ancora di salvezza
"Avevamo tutti più o meno quell'età in cui non hai ancora deciso se mettere su famiglia o perderti per il mondo" sentenzia all'inizio il Tenente Montini, la voce narrante di Mediterraneo. In quella frase, che poteva sembrare come un'affermazione di poco conto, vi era invece la chiave di lettura del film. Salvatores aveva parlato già in Marrakech express, Turnè (e avrebbe continuato con Puerto escondido) della ribellione contro il mondo, contro una società che ti portava ad omologarti, ed essere come gli altri, non ti lasciava alcuna via d'uscita.
L'Italia della fine degli anni Ottanta, era un paese dove ormai gli ideali erano scomparsi come il Muro di Berlino, in cui faceva capolino quella tecnocrazia che di lì a poco avrebbe cambiato il nostro paese, mentre la febbre della "Milano da bere" si propagava per tutto lo stivale, seguendo le orme del neonato berlusconismo, mentre ne esaltava Bettino Craxi, il padre putativo. Dietro il "nuovo boom economico", dietro le Notti Magiche di Schillaci e Baggio, Salvatores vedeva il dramma, vedeva altre catene da aggiungersi a quelle preesistenti, ereditate dalle generazioni che avevano inseguito il modello di vita consumistico, erano state sconfitte dalla strategia della Tensione e dagli anni di Piombo. La fuga era la sola via di scampo, era la vera protagonista su più livelli di 96 minuti non casualmente abitati da personaggi il cui registro linguistico e discussioni erano spiccatamente moderni ed attuali.
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Una profonda riflessione sulla ricerca della felicità
"In tempi come questi la fuga è l'unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare" sentenziava Henri Laborit nella frase che apriva Mediterraneo. Ebbene che altra salvezza vi poteva essere per i tardo trentenni? Salvatisi dal carnaio dell'Epiro o del Don, proprio grazie a quella fuga involontaria. In quell'isola, Montini, Farina e gli altri, potevano ancora sognare, ancora vivere, essere liberi. Chi trovava l'amore, chi decideva a quale patria appartenere, chi rimpiangeva la famiglia lontana, chi aveva modo invece di scoprire qualità o difetti di se stesso che non sapeva di avere. La fuga da tutto e da tutti, era la stessa via di salvezza che in fin dei conti sarebbe stata agognata da altri film di rottura come Trainspotting a Fight Club. Guarda caso, in mezzo vi erano sempre giovani uomini trentenni, che rifiutavano la società, quel terribile e materialistico realismo che li assediava, mentre sogni, utopie e ideali morivano. Anche quei soldati nell'isola, come l'Edward Norton del film di David Fincher o il Rent Boy di Ewan McGregor, sono uomini che disperatamente rifiutano la vita lontano dai guai o di essere posseduti dagli oggetti che possiedono. Lo sono soprattutto i loro alter ego, i veri attori, i veri tardo trentenni chiamati a confrontarsi con l'eredità dei grandi del cinema italiano che fu, dopo essere stati (come Abatantuono) protagonisti solo in commedie pecorecce e demenziali o di varietà di poco successo. Uno dei rari casi in cui il personaggio cinematografico viene superato dalla realtà dell'interprete, una sorta di falso specchio dove il nero è bianco e il bianco è nero.
Un film generazionale molto attuale
Mediterraneo è quindi un film molto complesso, attualissimo anche a trent'anni di distanza, nell'omaggiare quanti stanno fuggendo dalla strada spianata, dalla vita che gli viene imposta dalle generazioni passate. Anche l'Appartamento Spagnolo, il film manifesto della generazione Erasmus, o Un mercoledì da leoni hanno parlato di questo: della nostalgia, della difficoltà di crescere e capire dove si vuole andare, degli amici che se ne vanno. Il mondo cambia, ci cambia, gli altri ci cambiano. Sta a noi decidere se tornare sulla nave con gli altri o perderci in giro per il mondo. Il problema, ci spiegò Salvatores, è non aver abbastanza tempo o spazio. Una vita sola, spesso non basta, troppe cose da fare, troppe idee. Ma il viaggio, la scoperta del mondo, ci rendono liberi, sono l'unico modo in cui possiamo connetterci con la suprema realtà: siamo puntini nell'universo. Salvatores non commetteva mai l'errore si spingersi verso la trascendenza, però abbracciò in modo deciso l'esistenzialismo, la ricerca della verità sull'uomo. Chi sono veramente quegli uomini sull'isola? Sono come erano senza divise o fucili? O sono come saranno una volta tornati al "mondo civile"? Il che volendo ci porta ai Millenialls di oggi, anche loro trentenni, a chiederci quanto sono cambiati, se anche loro in fondo, non devono fuggire da quest'Italia non meno fallimentare di quella di quel 1991 o 1940. Non bisogna avercela con chi non ci seguirà subito, ci fece capire Salvatores. Magari faranno come Lorusso e Montini, ci verranno a dare una mano quando saranno pronti, quando non vorranno più essere complici di chi non gli ha permesso di cambiare nulla.