Manhunter: uno sguardo sull’incubo nel capolavoro di Michael Mann

Con Manhunter, il film della prima apparizione di Hannibal Lecter al cinema, Michael Mann realizzava un folgorante thriller da annoverare fra i capolavori degli anni Ottanta.

"Perché si prova piacere?" "Si prova piacere, Will, perché Dio ha il potere. E se uno facesse quel che Dio fa continuamente, diventerebbe simile a Lui."

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Manhunter: un'immagine della sequenza d'apertura

Trascorrono sessantacinque secondi fra l'inizio di Manhunter e la comparsa dei titoli di testa, e in quei sessantacinque secondi assistiamo a uno degli incipit più angosciosi che siano mai stati messi su pellicola. Una casa buia, di notte; la luce di una torcia lungo i gradini delle scale che conducono al primo piano; l'inquadratura di una camera da letto, con la torcia puntata su due figure addormentate che, da lì a qualche istante, non saranno più in vita. Il risveglio di una giovane donna è l'ultima immagine prima di un'atroce ellissi: per un logorante minuto, i nostri occhi sono stati gli occhi di un assassino. Non poteva esserci dichiarazione d'intenti più emblematica per il quarto lungometraggio di Michael Mann e per il suo primo, autentico capolavoro, sebbene ci vorrà un po' di tempo prima che il mondo lo riconosca come tale.

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Manhunter: William Petersen e Dennis Farina
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Manhunter: un'immagine di William Petersen

Ma del resto, Michael Mann è sempre stato un regista in anticipo sui tempi, e pertanto a volte drammaticamente sottovalutato. Già nel 1983 il suo film precedente, l'horror di ambientazione storica La fortezza, era andato incontro a un drastico insuccesso; da allora Mann, all'epoca quarantenne, era tornato a dedicarsi al piccolo schermo, e nel 1984 aveva dato vita in qualità di produttore a Miami Vice, uno dei capisaldi della serialità televisiva degli anni Ottanta. È sull'onda degli entusiasmi per Miami Vice che Dino De Laurentiis, dopo il rifiuto di David Lynch, gli affida l'adattamento del romanzo di Thomas Harris Red Dragon (intitolato nella prima edizione italiana Il delitto della terza luna). Rinominato per volontà di De Laurentiis allo scopo di evitare equivoci con il filone delle arti marziali, Manhunter - Frammenti di un omicidio farà il suo debutto nei cinema americani il 15 agosto 1986, con un mese d'anticipo su un altro thriller seminale del decennio in corso, Velluto blu di David Lynch.

Faccia a faccia con Hannibal, prima di Clarice

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Manhunter: un'immagine di Brian Cox

Non apprezzata appieno alla sua uscita nelle sale, l'opera di Michael Mann sancirà tuttavia un punto di svolta per il proprio filone di appartenenza; e a raccoglierne l'eredità, neppure cinque anni più tardi (e con una fortuna immensamente superiore), sarà Il silenzio degli innocenti, anch'esso tratto da un libro di Harris. La fenomenale accoglienza riservata nel 1991 al film di Jonathan Demme e la statura iconica assunta dal personaggio di Hannibal Lecter saranno il viatico per la progressiva riscoperta di Manhunter, che già proponeva diversi elementi-chiave de Il silenzio degli innocenti, dall'indagine su un serial killer alla centralità assunta dalla figura del profiler: non tanto un uomo d'azione (o una donna, nel caso di Clarice Starling), quanto un "investigatore della mente" che lavora dietro le quinte, nel tentativo di comprendere le motivazioni dello psicopatico al fine di individuarne l'identità.

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Manhunter: un primissimo piano di William Petersen
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Manhunter: un'immagine di William Petersen

Se per l'agente Starling si tratta però di una combinazione fra intelligenza ed intuito, l'arma segreta di Will Graham è la sua capacità di entrare in empatia con i criminali a cui sta dando la caccia: come ci indicava l'incipit, di osservare la realtà con i loro occhi. "Tu lo sai perché mi hai catturato? Mi hai catturato perché siamo della stessa razza, io e te": è la provocazione rivolta dal maniaco omicida Hannibal Lecktor, che qui ha il volto dell'attore scozzese Brian Cox, a Will Graham, l'uomo che un anno prima era riuscito a catturarlo, ma con gravi ripercussioni per il proprio equilibrio mentale. Nell'interpretazione di William Petersen, reduce da un altro superbo neo-noir (Vivere e morire a Los Angeles di William Friedkin), Graham è un eroe silenzioso e tormentato: lo incontriamo per la prima volta nella sua veste di padre di famiglia, quando il richiamo del dovere lo trascina dalle assolate spiagge della Florida alle ombre di Atlanta, sulla scena del nuovo delitto del killer soprannominato Dente di Fata (Tooth Fairy, la fatina dei denti, nella versione originale).

Il silenzio degli innocenti: un'indagine da brivido negli abissi dell'anima

Sulle orme del serial killer

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Manhunter: un'inquadratura della pistola di Will Graham

E che Manhunter rinunci a certe convenzioni del thriller, a partire dalle modalità di rappresentazione dell'orrore, ce ne accorgiamo già in questa sequenza: a pochi minuti dal prologo, ora è Will Graham ad addentrarsi nella stessa dimora, a ripercorrere - letteralmente - le orme dell'assassino in quelle grandi stanze vuote, affidandosi al rapporto dell'FBI per rievocare la strage che lì ha avuto luogo. Nel corso del film, la violenza non è mostrata quasi mai in maniera esplicita: piuttosto viene suggerita (una fugace inquadratura delle foto del massacro, Dente di Fata che si accinge ad azzannare il volto di Freddy Lounds) o, peggio ancora, lasciata all'immaginazione dello spettatore, che pertanto è posto nella stessa condizione di Will. È una scelta riconducibile all'essenza stessa di Manhunter, in cui il realismo è solo apparente e in cui la dimensione interiore assume un ruolo di primo piano: dal frequente ricorso alle soggettiva al carattere per certi versi 'espressionista' dell'opera.

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Manhunter: William Petersen e Brian Cox
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Manhunter: William Petersen e Kim Greist

Per l'occasione, infatti, Mann collabora per la prima volta con l'italiano Dante Spinotti, autore di una fotografia antinaturalistica e dominata da toni monocromatici, in cui i colori sono usati in chiave simbolica: si passa così dal meraviglioso romantic blue che avvolge Will e sua moglie Molly (Kim Greist), in uno dei momenti più erotici di tutto il cinema di Mann, al verde acceso della casa di Francis Dollarhyde (un raggelante Tom Noonan), a rimarcare l'instabilità psichica dell'uomo. È la neutralità di un bianco assoluto a connotare invece l'incontro - l'unico in carne e ossa - fra Will e Hannibal Lecktor, agli antipodi rispetto all'oscurità dai tratti gotici di quello con Clarice ne Il silenzio degli innocenti. L'approccio adottato non potrebbe essere più minimalista: Will è solo con la sua nemesi, davanti alla cella piccola e spoglia di un edificio a sua volta totalmente bianco, e l'Hannibal di Brian Cox è privo degli istrionismi del dottor Lecter di Anthony Hopkins (Mann decide perfino di rinunciare ai riferimenti al cannibalismo).

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Il Grande Drago Rosso

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Manhunter: un primo piano di William Petersen

Eppure, le parole di Lecktor esercitano un impatto terribile su Will: Hannibal è uno spettro della coscienza, pronto a ricordargli la natura malefica del suo 'dono' ("Vuoi ritrovare il tuo fiuto? Odora te stesso"). E a rendere Manhunter un film così poderoso e memorabile, in grado di infiltrarsi sottopelle e di conservare il suo effetto perturbante anche al termine della visione, è soprattutto il modo in cui trasforma la caccia a un serial killer in una sfida combattuta fra le pareti della mente del protagonista. "I pensieri che avevi erano così tremendi?", domanda a Will il figlioletto Kevin, in un dialogo che è pure una resa dei conti di Will con se stesso; "Ah, Kevin... erano i peggiori del mondo". Più ancora delle altre pellicole di Mann, Manhunter esplora il dissidio fra bene e male come ingredienti congeniti all'essere umano, e talvolta tragicamente indistinguibili l'uno dall'altro: ed è su questo sottilissimo confine che si gioca il duello a distanza fra Will e Dollarhyde.

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Manhunter: un'immagine di Tom Noonan
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Manhunter: un primo piano di Joan Allen

È proprio alla metà del film che Francis Dollarhyde fa la sua apparizione sullo schermo, contendendo da lì in poi la scena a Will Graham, come una sorta di alter ego mostruoso (una 'mostruosità' che Dollarhyde avverte nel suo labbro deturpato). Alla teatralità sfrontata dell'altro serial killer nato dalla penna di Thomas Harris, Jame Gumb/Buffalo Bill, si contrappone un maniaco freddo e impenetrabile: Mann lascia al romanzo la spiegazione sull'origine della sua follia omicida, e per illustrarne la 'trasformazione' non ha bisogno di ricorrere al tatuaggio del Grande Drago Rosso di William Blake, che rimarrà soltanto nelle scene escluse dal montaggio. Ed è a questo punto che subentra l'aspetto forse più rivoluzionario di Manhunter: la storia d'amore con una ragazza cieca, Reba McClane (Joan Allen, al suo primo ruolo di rilievo), che senza rendersene conto aprirà una crepa nella corazza del dragone e restituirà a Dollarhyde un barlume di umanità, sintetizzato dalla tiepida luce dell'alba e dalla melodia malinconica di This Big Hush degli Shriekback.

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Uno specchio d'argento in una notte di luna piena

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Manhunter: un primo piano di Tom Noonan

Per un paradosso simbolico Dollarhyde, che con lo sguardo seleziona le proprie vittime e a sua volta ha bisogno di vedersi riflesso nei loro sguardi, "nello specchio d'argento dei tuoi occhi", scopre il sentimento per qualcuno che non lo desidera attraverso la vista. La carezza di Reba al manto di una tigre, il suo caldo respiro sulla mano della donna e il battito rumoroso del cuore della belva anticipano la notte d'amore con Dollarhyde, introducendolo a nuove forme di sensorialità: presto Reba si troverà ad accarezzare un'altra 'bestia', e la sua mano poggiata sul volto di Dollarhyde nasconderà, anche se solo per pochi attimi, la piaga che gli deforma il viso. Da lì a breve, però, il mostro riprende il sopravvento, e in un'altra notte di plenilunio si consumerà lo scontro decisivo con Will Graham: una sequenza forsennata ed elettrizzante che costituisce una delle massime prove di virtuosismo mai girate da Mann, scandita dalle note psichedeliche di In-A-Gadda-Da-Vida degli Iron Butterfly.

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Manhunter: un'immagine del film
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Manhunter: Tom Noonan e Joan Allen

Dal ralenti della corsa di Will verso la vetrata della casa di Dollarhyde alle repentine accelerazioni degli istanti successivi (si passa da ventiquattro a novanta fotogrammi al secondo), dai cambiamenti continui della focalizzazione ai disordinati stacchi di montaggio durante la sparatoria, ogni regola della grammatica cinematografica di colpo viene fatta a pezzi: e il risultato non potrebbe essere più spiazzante, allucinato e spaventoso. Un'immersione nel puro caos che precede il ritorno all'ordine e alla normalità dell'epilogo: il classicissimo archetipo del ricongiungimento dell'eroe con la propria famiglia, mentre il sole si riflette sulla superficie dell'oceano. È l'uscita dall'incubo: il compimento di questa danza ipnotica fra luce e ombra, coreografata da Michael Mann in un film straordinario che, a distanza di decenni, non ha mai smesso di ammaliarci con la sua conturbante poesia.

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