Recensione Terrore nello spazio (1965)

La fantascienza italiana nasce e muore qui. Perché gli alieni, ad un certo punto, si accontenteranno di planare sul pianeta Terra invece che in un altrove sconosciuto. Un altrove sconosciuto che Mario Bava ha sempre raccontato magnificamente nel corso della sua avventura cinematografica.

Klaatu BAVAda nikto

La maschera del demonio e Sei donne per l'assassino sono le due pellicole che contribuirono alla definitiva codificazione, rispettivamente, dell'horror e del thriller all'italiana. Con Terrore nello spazio, invece, Mario Bava si accosta al genere fantascientifico (sua vecchia passione) con un film che è anche l'unico a conservare, ancora oggi, una certa importanza nel panorama cinematografico tricolore. In Italia non sono certo mancate prove antecedenti (come quella de Il disco volante del 1964, un dimenticato film, incredibile ma vero, di Tinto Brass!) o successive alla pellicola diretta dal regista sanremese.
Quello che però fa di Terrore nello spazio un piccolo cult, oltre alla ormai appurata abilità baviana (supportata da una buona, seppur non eccelsa, sceneggiatura tratta da un racconto di Renato Pestriniero (Una notte di 21 ore) e redatta, tra gli altri, da Alberto Bevilacqua e Callisto Cosulich), è l'atmosfera complessiva di una storia che ha suscitato nel corso degli anni l'interesse di tanti registi, sinceri sostenitori del maestro italiano.

A partire dall'inevitabile indicazione del Ridley Scott di Alien (il tema dell'astronave abbandonata e quello degli alieni che s'impossessano dei corpi altrui), citato a perdifiato da tutti i critici che hanno analizzato o recensito il film di Bava. Ma i riferimenti non finiscono certo qui, potendo annoverare tra coloro che, direttamente o indirettamente, hanno tratto fonte d'ispirazione dallo sci-fi movie del cineasta italiano anche John Carpenter (Fantasmi da marte ma anche Fog - quei morti che resuscitano squarciando il cellophane e quell'alone misterioso che li circonda - molto più de La cosa, come spesso segnalato) e Brian De Palma (Mission to Mars, più che altro per gli splendidi campi lunghi con cui Bava riprende il percorso del capitano Markary e di Sanya all'interno dell'astronave abbandonata). Si potrebbero citare anche altre pellicole magari più dozzinali (Pitch Black, un film invero non proprio da buttare via) per sottolineare l'influsso che il film baviano continua a produrre ancora oggi su una certa cinematografia. Quello che più interessa qui è, però, il modo con cui Mario Bava affronta la tematica fantascientifica, dopo le sue tante prestazioni nei generi più disparati (tra i quali, occorre ricordarlo, anche il western e il peplum).

Il tocco personale di Bava in Terrore nello spazio, è molto più sorvegliato rispetto a quello rintracciabile nelle precedenti pellicole (ma con il grande piano-sequenza in cui il morto scompare dal tavolo operatorio per poi, con uno stacco, comparire da dietro l'armadio). Esso è difatti limitato alle classiche e repentine "zoomate" che spesso servono a legare il campo al relativo controcampo (il momento in cui il capitano Markary scopre il cadavere del fratello), oppure a catapultare nello schermo un elemento relegato fino a quel momento fuori campo o, ancora, a veicolare rapidamente l'attenzione dello spettatore su un particolare rilevante (che può essere una persona, un oggetto o anche lo stesso sfondo). Più in generale, Bava gioca invece sulle convenzioni del genere, creando astronavi piene zeppe di bizzarri marchingegni (il deviatore di meteore e un visore agl'infrarossi dotato di una pulsante luce a rischio epilessia) e fornendo all'equipaggio tute spaziali di pelle nera declinate in attillatissimi completi sadomaso (Barbarella e Jane Fonda non sanno nulla a proposito?) con tanto di gradi appuntati sul petto (come in Star Trek).

Se l'apparato artigianale (e a basso budget) degli interni e dei costumi ricorda complessivamente quello dei classici B-movies (ma i gorghi e le evoluzioni ricreate all'interno dell'astronave abbandonata sono lampanti colpi d'autore), l'atmosfera del pianeta sconosciuto è invece affascinante. Qui Bava si sbizzarrisce e dà fondo a tutta la paletta cromatica della sua personalissima tavolozza, trasformando il set in un caleidoscopio onirico, misterioso e oppressivo, come suo solito. Tutto in Terrore nello spazio è relegato, in ogni modo, alle caratteristiche più inquietanti della trama, senza la ricerca di un effetto fine a se stesso. L'unica escursione di Mario Bava nel genere fantascientifico, sembra trasformare in un manifesto programmatico l'affermazione che il capitano Markary farà ad un certo punto della pellicola: "...finalmente qualcosa di tangibile che non scompare se la guardi fissa". Come a dire che l'infatuazione da parte di molti registi per Terrore nello spazio, è da individuarsi nella ricerca della concretezza e della mobilitazione dello sguardo, senza gli inutili orpelli che tanta science fiction ha sempre cercato, invece, d'ingrossare all'inverosimile.

In ultima analisi, Terrore nello spazio potrebbe essere letta (in virtù dell'apologo conclusivo del "corpo" di Salas che fa il verso all'alieno Klaatu) come una versione incattivita di Ultimatum alla terra di Robert Wise. Nel piccolo capolavoro baviano manca, però, il messaggio pacifista (rimpiazzato da un finto vittimismo tutto mediterraneo) e, come il singolare finale rivelerà, manca anche la stessa dimensione umana. Quella dimensione, in pratica, che Mario Bava, come un Klaatu un po' guascone, ha voluto continuamente allarmare, ma anche deliziare, con le trovate registiche della sua intera filmografia.