In una delle scene d'apertura di È solo la fine del mondo il protagonista, il drammaturgo Louis, è seduto nella penombra di un aereo, in procinto di tornare a trovare la sua famiglia dopo dodici anni di assenza per annunciare la propria morte imminente. A un tratto dall'oscurità intorno a lui emergono le mani di un bambino, che per un istante coprono gli occhi di Louis.
È una breve sequenza apparentemente priva di significato: eppure quell'immagine di un giovane uomo seduto nel buio, con le mani di un bambino poggiate sul suo viso (ripresa infatti in uno splendido poster del film), già lascia trapelare l'inusuale capacità di fascinazione del cinema di Xavier Dolan. Un cinema che abbiamo seguito fin dalle audaci prove d'esordio (il vitalissimo J'ai tué ma mère), passando per la conferma di un talento fuori dal comune (il folgorante Laurence Anyways), fino ad arrivare alla consacrazione dei grandi festival internazionali: prima con Mommy, altra opera di un'originalità e di una potenza sbalorditive, e ora con È solo la fine del mondo, che dopo il Gran Premio della Giuria conquistato al Festival di Cannes e l'enorme successo nelle sale francesi potrebbe allargare il pubblico di Dolan anche in Italia.
Rispetto al plebiscito o quasi riservato a Mommy, e in attesa del primo cimento in lingua inglese con The Death and Life of John F. Donovan (tuttora in lavorazione, e con un parterre di star hollywoodiane nel cast), È solo la fine del mondo ha ricevuto però un'accoglienza critica più contrastata, influenzata in parte dalla natura teatrale dell'opera: Dolan, infatti, ha adattato una pièce di un altro ex enfant prodige, il prolifico scrittore francese Jean-Luc Lagarce, scomparso nel 1995. Il regista ventisettenne si era già occupato di una trasposizione dal palcoscenico allo schermo nel 2013, con il thriller psicologico Tom à la ferme, e pure in questo secondo caso è riuscito a non lasciarsi ingabbiare dai limiti del cosiddetto "teatro filmato", restando saldamente ancorato alla propria poetica. Proviamo dunque ad analizzare per quali ragioni È solo la fine del mondo, tutt'altro che una semplice "opera minore", sintetizza invece al meglio le caratteristiche e gli stilemi del cinema di questo giovane autore canadese.
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Tornando a casa: la famiglia, un campo di battaglia
È solo la fine del mondo da un punto di vista narrativo, pur non essendo frutto di un soggetto originale, è costruito attorno al nucleo tematico di buona parte della filmografia di Xavier Dolan: i legami familiari. La famiglia come baricentro della nostra essenza di individui, come rifugio 'amniotico' (si pensi a Mommy), ma anche come gabbia soffocante e cordone ombelicale da strappar via (J'ai tué ma mère, Tom à la ferme). Una dicotomia che ritorna con particolare virulenza in È solo la fine del mondo, in cui la riunione fra il Louis interpretato da Gaspard Ulliel e i suoi parenti più prossimi assume una dimensione ben precisa: la resa dei conti con il passato nel momento in cui il futuro comincia inesorabilmente a dissolversi. Dolan non ricorre a facili simbologie, ma fa leva piuttosto sulle suggestioni. E le mani del bambino, nel loro gesto di coprire il viso di Louis, rimandano all'idea dell'infanzia, a un'obliterazione del presente per confrontarsi con un passato irrisolto. E se finora nei film di Dolan il motore delle nevrosi risiedeva in primo luogo nel rapporto madre/figlio, questa volta il conflitto si allarga a un intero microcosmo familiare, con l'ambiente domestico tramutato in una sorta di campo di battaglia.
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Lo sguardo sulla realtà
È forse il tratto distintivo più marcato del cinema di Xavier Dolan, un tratto già presente nel suo lungometraggio d'esordio e reso ancor più evidente di film in film, da Les amours imaginaires a Laurence Anyways per culminare in Mommy: il cinema come filtro della realtà. L'approccio di Dolan alla messa in scena sembra voler contraddire ogni principio di cinéma vérité ed è forse questo aspetto a coinvolgere immediatamente lo spettatore, se siamo disposti ad accettare la sfida del regista di immergerci in una realtà che non è propriamente 'oggettiva', ma piuttosto il frutto di una visione personalissima. Un'idea assimilabile al concetto di espressionismo, ma che Dolan porta avanti con strumenti ben diversi. Basti ricordare (come dimenticarla, del resto?) la straordinaria sequenza di Wonderwall in Mommy, con il formato dello schermo che si allarga all'improvviso in corrispondenza con il senso di liberazione dell'adolescente Steve. La macchina da presa, pertanto, non serve più a catturare il "vero" con obiettività e rigore, ma al contrario ad offrire un determinato punto di vista sul mondo. Ed è quanto accade anche in quest'ultima pellicola, in cui la focalizzazione (rimarcata anche dal frequente uso del voice off) è totalmente affidata a Louis, mentre tutto attorno a lui - le luci, i colori, i suoni, le voci - viene rimodellato di volta in volta dalla sensibilità del protagonista.
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Catturare la bellezza: incontri ravvicinati con la cinepresa
Il cinema di Xavier Dolan si è sempre contraddistinto per l'estrema cura formale, una cura che per l'eleganza nella composizione della scena richiama alla mente i film di registi quali Pedro Almodóvar e Wong Kar-wai (non a caso due maestri del melodramma contemporaneo). Tutt'altro che un mero formalismo fine a se stesso, tale approccio risponde invece a una concezione estetica espressa al massimo grado nella tecnica maggiormente usata da Dolan, specialmente da Laurence Anyways in poi: i primi e i primissimi piani. E in È solo la fine del mondo il close up non si limita ad esaltare le doti di un sensazionale quintetto di attori, ma va ben oltre, divenendo lo strumento per 'catturare' una bellezza che illumina lo schermo con una forza dirompente. E così la cinepresa si accosta quanto più possibile ai volti di Marion Cotillard, Nathalie Baye, Vincent Cassel, Léa Seydoux e soprattutto Gaspard Ulliel, un feticcio da cui risulta impossibile distogliere lo sguardo, mentre le inquadrature ravvicinatissime colgono ogni dettaglio di questo viso efebico e sofferente: la linea delle labbra piegate in un timido sorriso, la fronte e il collo imperlati di sudore, l'azzurro malinconico degli occhi, la sottile cicatrice sulla guancia sinistra, in un'apoteosi di pura cinegenia.
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La musica: altri "muri di meraviglie" da infrangere
L'importanza della musica nei film di Xavier Dolan è apparsa fondamentale in ciascuna delle sei pellicole dirette finora dal regista canadese, e nello specifico l'impiego di canzoni di vario genere come veicolo di stati d'animo o di scariche emotive nelle sequenze clou. Da Noir désir dei Vive la fête a Bang Bang di Dalida, da Bette Davis Eyes di Kim Carnes a Les moulins de mon coeur di Kathleen Fortin, fino alla ricchissima soundtrack di Mommy, controcanto in note ai tormenti dei personaggi, con almeno due scene da antologia che riescono a incantare lo spettatore anche grazie all'utilizzo di due pezzi trascinanti come On ne change pas di Céline Dion e Wonderwall degli Oasis.
In un'opera di stampo teatrale come È solo la fine del mondo, affidata in gran parte ai dialoghi e ai silenzi, l'uso della musica è invece più parco; ma accanto alla tesissima colonna sonora originale composta da Gabriel Yared, Dolan trova comunque spazio per brani dal sapore nostalgico come I Miss You dei Blink 182. C'è poi una sequenza, posta non a caso attorno alla metà del film, che funge in qualche modo da spartiacque nel percorso di Louis e in cui le sue emozioni, fino ad allora represse e trattenute, trovano un'improvvisa valvola di sfogo: il balletto in cucina della madre Martine (Nathalie Baye) e della sorella Suzanne (Léa Seydoux), al ritmo di Dragostea din tei degli O'Zone. Di colpo la mente di Louis si libra al di sopra dello spazio angusto della cucina e inizia a viaggiare nel passato, riportando agli occhi i ricordi dell'infanzia e il sorriso di suo padre. La musica sale di volume e allo stesso modo il film prende quota, toccando una delle sue vette più alte. Non l'unica, non l'ultima.
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Urla nel silenzio: il cinema come epifania
Se quello di Xavier Dolan è un cinema che non fatica a farsi amare, è soprattutto (ma non solo) grazie a momenti come quelli appena descritti: sequenze in cui il melodramma - quasi nel senso letterale del termine, dramma cantato - raggiunge la propria dimensione più elevata e la realtà si piega alla potenza del cinema. Sequenze che Dolan costruisce con un'abilità singolare e con un'impronta ormai inconfondibile, capace di regalare brividi a profusione perfino a dispetto dell'apparente semplicità dell'azione. Accade dunque che un silenzioso scambio di sguardi fra Louis e la cognata appena conosciuta, l'insicura Catherine (Marion Cotillard), dia vita a un'esplosione di empatia che, nell'arco di un istante dilatato oltre le leggi del tempo ordinario, unisce i due personaggi in un connubio indefinibile eppure strettissimo. In quella manciata di secondi il dolore che trapela dal viso di Louis, raccolto prontamente dagli occhi di Catherine, racconta più di quanto non potrebbe fare qualunque scambio di battute.
È una di quelle epifanie che, con l'ausilio della musica o grazie all'apporto degli attori, caricano i film di Dolan di un'intensità a tratti quasi insostenibile. E in È solo la fine del mondo queste epifanie, sapientemente distribuite, arrivano dritte al bersaglio, come quando una stanza buia il contatto con il tessuto di un vecchio cuscino divengono per il protagonista delle madeleine in grado di aprire uno squarcio sui frammenti di una giovinezza rivissuta in un'estasi abbagliante. Oppure nel finale: un minuto in cui, dopo la definitiva deflagrazione dei contrasti familiari, Louis rimane da solo nell'ingresso, avvolto dalla luce fiammeggiante del tramonto. L'orologio a cucù in fondo al corridoio torna ancora una volta ad annunciare il suo implacabile memento mori, mentre un uccello si alza in volo nel silenzio della casa per poi abbattersi sul pavimento, ai piedi del ragazzo. Il suo viaggio è compiuto. A Louis, come a noi spettatori, non serve sapere altro.