La sequenza d'apertura di uno dei primi successi di Pedro Almodóvar, La legge del desiderio, consiste in quattro minuti nel corso dei quali un ragazzo, solo in una camera da letto, esegue degli atti di autoerotismo obbedendo agli ordini di una voce fuori campo. È il primo 'inganno' di un'opera costruita non a caso sul tema dell'illusione: subito dopo, infatti, lo spettatore scoprirà di aver assistito alla scena di un "film nel film" realizzato dal regista cinematografico Pablo Quintero. Nella produzione oggi quasi quarantennale di Almodóvar si tratta di uno dei primi esempi di metacinema; e proprio il metacinema si rivela un elemento cardine della sua ultima fatica, l'apprezzatissimo Dolor y gloria, memoriale autobiografico proiettato in concorso al Festival di Cannes 2019 dopo l'ottima accoglienza riscossa in patria (quasi novecentomila spettatori).
Dolor y gloria: Almodóvar e il mestiere del cinema
Dall'inquadratura iniziale di Salvador Mallo (Antonio Banderas) sul fondo di una piscina, in uno stato di immersione la cui valenza metaforica non potrebbe essere più palese, Dolor y gloria si sviluppa come un'incessante oscillazione fra due dicotomie ben precise, inevitabilmente intrecciate l'una all'altra: l'opposizione fra il passato e il presente e quella fra la realtà della vita vissuta e la sua rielaborazione cinematografica. Salvador, che di Pedro Almodóvar costituisce uno smaccato alter ego, è un cineasta con alle spalle una carriera illustre ma minato da una salute precaria. E già il titolo sintetizza pertanto il binomio fra la gloria della professione e la sofferenza di un corpo che sembra sempre sul punto di tradire Salvador.
A quel corpo, quello asciutto e smagrito di un Antonio Banderas alla soglia dei sessant'anni, l'uomo tuttavia si aggrappa con viscerale brama di vita: Salvador accoglie parimenti i dolori subdoli del corpo e la lancinante malinconia dell'animo, in un percorso privo di linearità, che procede per blocchi narrativi ma ciò nonostante non manca mai di mostrare una limpidezza pressoché inedita per Almodóvar. E il cinema, il mestiere a cui Salvador ha dedicato tutta la sua esistenza, è il porto sicuro a cui far ritorno a ogni piè sospinto, ma anche il mezzo salvifico con cui il protagonista deciderà di rileggere la propria storia, a partire dall'infanzia. L'espediente metacinematografico funge così, per Almodóvar, da amarcord tenerissimo e struggente, in cui i suoi estimatori potranno cogliere innumerevoli riferimenti alla parabola del regista castigliano.
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Il metacinema e l'oscura legge del desiderio
Ma Salvador Mallo, dicevamo, non è certo il primo regista che Almodóvar pone al centro di uno dei suoi film. Nel 1987 c'era stato il Pablo Quintero (Eusebio Poncela) de La legge del desiderio, alle prese con un fan adorante e psicopatico, Antonio Benítez, interpretato sempre da Banderas; nel 2004 l'Enrique Goded (Fele Martínez) de La mala educación, impegnato a rivisitare la sua drammatica storia di abusi pedofili in un collegio cattolico; e nel 2009 il Mateo Blanco (Lluís Homar) de Gli abbracci spezzati, ex regista costretto a rinunciare al set a causa di un incidente che lo ha privato della vista. Si tratta di tre pellicole in cui il melò è declinato in chiave squisitamente noir, e in cui il cinema gioca un ruolo fondamentale nell'economia drammaturgica. Il metacinema, ovvero l'arte che riflette se stessa e su se stessa, è del resto uno dei tratti distintivi del postmodernismo, una corrente di cui Almodóvar è stato, fin dagli anni Ottanta, uno degli alfieri più originali e coraggiosi.
E se già normalmente i suoi film traboccano di citazioni e di omaggi alla cultura popolare e, nello specifico, alla settima arte, i tre titoli sopra citati trasformano il cinema nello strumento con cui controllare la realtà, farla propria e, se possibile, riscriverla mediante il beneficio del distacco, sia esso temporale o intellettuale. Pablo ad esempio, in virtù della sua arte, diventa l'oggetto dell'oscuro desiderio di Antonio, ma il cinema è soprattutto la sua arma per imbrigliare la forza tellurica del desiderio in un sistema normativo rispetto al quale Antonio incarna la "variabile impazzita".
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Metacinema noir: La mala educación e Gli abbracci spezzati
Nel più noto capolavoro di Pedro Almodóvar, il celebre Tutto su mia madre del 1999, la funzione del cinema come specchio in cui studiare le sagome - talvolta deformate - dell'esperienza umana viene assunta dal teatro. Un tram che si chiama Desiderio di Tennessee Williams sarà infatti la costante della vita di Manuela (Cecilia Roth): dai suoi trascorsi teatrali alla tragica morte del figlio Esteban al suo nuovo lavoro come assistente personale dell'attrice Huma Rojo (Marisa Paredes), in un'ironica eco del modello di Eva contro Eva. Ma l'elemento del metacinema torna di prepotenza ne La mala educación e ne Gli abbracci spezzati, e in entrambi i casi innescherà un ineluttabile corto circuito fra i diversi piani del racconto.
Entrambi i film sono fondati su un torbido intrigo in cui l'indagine coincide con un viaggio nel passato. Per Enrique si tratta di ripercorrere, mediante la prospettiva del conturbante Angel Andrade (Gael García Bernal), la scoperta del desiderio e le dolorose vessazioni subite in collegio; per Mateo di rivivere la passione travolgente per l'attrice Lena Rivas (Penelope Cruz), la star del suo ultimo lavoro. I canoni del noir permettono ad Almodóvar di elaborare ciascuna pellicola come un meccanismo di scatole cinesi, in cui il "film nel film" è assimilabile allo sguardo dei protagonisti sul mondo: uno sguardo consapevolmente soggettivo (e come potrebbe essere altrimenti?), non dissimile da quello offertoci da Salvador in Dolor y gloria.
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Primi desideri e ultimi abbracci
Dunque il metacinema, in Almodóvar, non si riduce mai ad un autocompiaciuto gioco cinefilo, né tantomeno a un mero divertissement postmoderno: la macchina da presa e la potenza evocativa della penna (si pensi anche alla Leo Macías de Il fiore del mio segreto) sono il veicolo per riapprocciarsi alla realtà e per raggiungere una riconciliazione, per quanto precaria, con se stessi e con il proprio passato. Eventi e sentimenti, quelli dei personaggi e quelli del loro autore, vengono sottoposti a una serie di mise en abîme che moltiplicano i piani del racconto, generano Doppelgänger e ci sfidano continuamente a districarci tra verità e finzione.
Ma se finora, nei film di Almodóvar, l'insieme dei riflessi metacinematografici aveva assunto perlopiù le tinte tenebrose del thriller, qui invece (come rilevato nella nostra recensione di Dolor y Gloria) i rispecchiamenti fra la vita e il cinema non potrebbero essere più tersi ed autentici. Nell'autobiografia di Salvador/Pedro non c'è spazio per la menzogna: si tratta semmai di ripercorrere e riscoprire le tappe di un'intera vita, di fargli assumere una nuova luce derivante dalla quieta consapevolezza della maturità. E la luce torna a brillare, con nitore abbagliante, nel momento in cui la memoria - e il cinema - ci permettono di rivivere quel primo desiderio, talmente vigoroso da indurre ad un'estasi priva di coscienza, o di conferire parole e immagini all'affetto verso una madre mai dimenticata... per offrirle, magari, ancora un ultimo abbraccio.