Il cinema esorcizza, purifica, decanta, lava le storture. Lo ha fatto con i pistoleri del western, la giungla sanguinaria del Vietnam, la guerra fredda e gli alieni. Negli anni il nemico da affrontare è cambiato ed oggi ha assunto le sembianze della tecnologia di ultima generazione: social, realtà virtuale, cyberbullismo, una rete che ci vuole iperconnessi, rintracciabili e ricattabili.
Un cimitero digitale il cui potenziale non è sfuggito al grande schermo e non è un caso che la stragrande produzione degli ultimi tempi si sia concentrata sugli aspetti più oscuri del fenomeno dando origine a un prolifico filone horror e di drammi psicologici, che ne indaga le derive psicosociali e che si va così ad aggiungere a quello già nutrito della fantascienza classica.
Protagonisti quasi sempre giovani nerd, hackers o teenager ossessionati dall'esibizionismo in rete, dall'esigenza impellente di farsi vedere a tutti i costi per mostrare al mondo quanto si è veloci, fighi, temerari a sfidare un treno in corsa o a lasciarsi penzolare da altezze improbabili. L'orrore dei millennials corre sul web e spesso ha il volto di una chat, un sito web o un'app demoniaca come succede nell'imminente Bedevil - Non installarladei fratelli Abel Vang e Burlee Vang, in sala dal 28 giugno distribuito da Adler Entertainment. Nato dagli stessi creatori di Final Destination è la storia di cinque ragazzi perseguitati da un'applicazione simile a Siri, che tirerà fuori le loro peggiori paure e l'unico modo per fermarla sarà imparare a fidarsi l'uno dell'altro.
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Il lato oscuro dell'era 2.0: da Videodrome ai più recenti young adult
L'uomo nero nell'era della realtà digitale si nasconde nei nostri smartphone, ci scivola accanto, è quasi un'estensione dei nostri corpi, ci fagocita e ha il volto di un'app killer o di un profilo facebook come insegna Friend Request - La morte ha il tuo profilo, horror psicologico di produzione tedesca, un'allegoria di quanto i social siano diventati il nostro doppio, una sorta di universo parallelo a cui ci siamo abituati con fin troppa facilità.
La malcapitata si chiama Laura, ragazza popolare sui social che commette l'errore prima di accettare l'amicizia della misteriosa Marina (a chi non è capitato?), poi di cancellarla nel tentativo di liberarsi di una relazione diventata morbosa. Ma i guai cominceranno proprio in quel momento: Marina si suicida riprendendo la scena con una webcam e da allora inizierà a perseguitarla giurandole vendetta.
Allo stesso filone appartiene il molto più apprezzato e convincente Unfriended, mockumentary del 2014 ambientato sullo schermo del Mac della protagonista, Blaire (Shelley Hennig) in chat su Skype con alcuni amici. Originale variante del found footage, Unfriended ripropone lo schema della vendetta dall'aldilà: l'entità soprannaturale che perseguita il gruppo di adolescenti attraverso un account misterioso è in questo caso Laura, una loro coetanea suicidatasi un anno prima per un video postato sul web che la riprendeva ubriaca.
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E se si parla di cibernetica, realtà aumentate e universi digitali è inevitabile non volgere lo sguardo a Oriente: è giapponese Kairo, l'horror del 2001 diretto da Kiyoshi Kurosawa, diventato un cult al punto da ispirare una schiera di fiacchi remake hollywoodiani. Anche qui la morte arriva da un sito internet che invita i protagonisti a entrare nelle sue stanze proibite e a incontrare un fantasma.
Il capostipite? Impossibile non citare il talento visionario e anticipatore di David Cronenberg, che già nel lontano 1983 con Videodrome analizzava il rapporto tra uomo e tecnologia. Lo faceva nella maniera più disturbante appellandosi cioè alla sua estetica della carne, un universo cyber punk in cui la vita dell'uomo è destinata ad una mutazione quasi genetica ad opera delle macchine. Una condanna della realtà aumentata e delle sue implicazioni sull'umanità senza precedenti, che ancora oggi dimostra la sua potenza. Un'opera illuminata e illuminante sempre.
Realtà aumentate e false identità: da Matrix a Nerve
Ma le analisi della seduzione dei social e del cyberspazio sull'uomo, il problema dell'horror vacui della rete, di internet e identità, è anche il centro del recente Nerve, thriller young adult diretto dalla stessa coppia di registi di Catfish, Henry Joost e Ariel Schulman, e debitore di una tendenza inaugurata da Hunger Games.
I protagonisti interpretati da Emma Roberts e Dave Franco, sono ancora una volta liceali alle prese con un game show, Nerve, che li coinvolgerà in sfide sempre più imbarazzanti e pericolose, superate a patto che vengano riprese live con il proprio smartphone.
Dalla realtà viziata dai social a quella simulata di Matrix del 1999, che attingeva a piene mani dai modelli classici del genere fantascientifico e che rese le sorelle Lana Wachowski e Lilly Wachowski pioniere di una certa rappresentazione dell'avvento dell'innovazione tecnologica.
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Matrix è ovunque. È intorno a noi. Anche adesso, nella stanza in cui siamo. È quello che vedi quando ti affacci alla finestra, o quando accendi il televisore. L'avverti quando vai a lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. È il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità.
Universi paralleli che a volte non sono poi così distanti, anzi ci camminano a fianco modificando anche gli aspetti più intimi della comunicazione contemporanea, come ci raccontava Spike Jonze qualche anno fa con lo splendido Lei, la storia del disincantato Theodore (Joaquin Phoenix), uomo sensibile segnato dalla fine di una relazione, che rimarrà affascinato dalla voce sintetica di un sistema operativo di ultima generazione, Samantha (Scarlett Johansson). Un'amicizia che si trasformerà lentamente in una vera e propria storia d'amore, grazie ad un'assistente vocale che si dimostrerà sempre più empatica, seducente e capace di simulare una vasta gamma di emozioni.
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Sui pericoli di un mondo interconnesso, sorvegliato e controllato dalle macchine si sofferma anche l'esordio alla regia del direttore alla fotografia di Christopher Nolan, Wally Pfister che nel 2014 firma l'apocalittico Transcendence. Siamo ancora una volta dalle parti del futuro distopico, che traccia nuove linee di confine, nuovi possibili mondi che dilatano fino all'inverosimile tendenze sociali, politiche e tecnologiche dell'oggi.
Più ancorati al reale, ma contrassegnati da una chiara denuncia delle derive legate ai moderni social network, sono Disconnect di Henry Alex Rubin e il più recente The Circle di James Ponsoldt. Il primo, approdato al Festival di Venezia nel 2012, ci restituisce l'immagine di un'umanità sempre più solitaria, disconnessa dalla realtà e fagocitata dal tempo della rete; il secondo fotografa un mondo iper sorvegliato e dominato dalla 'trasparenza assoluta', un thriller moderno che mette dietro al banco degli imputati ancora una volta la rete, la questione della privacy, le inquietudini del nostro presente 'controllato', 'sdoppiato', 'clonato'.