Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita.
Sono i famosissimi versi pronunciati dal mago Prospero nel quarto atto de La tempesta, l'opera con la quale, nel 1611, William Shakespeare concluse una carriera teatrale durata poco più di due decenni, ma già pronta per essere consegnata alla Storia. Dopo un solo altro testo teatrale, quello dell'Enrico VIII, firmato in collaborazione con il collega John Fletcher, il drammaturgo originario di Stratford-upon-Avon si sarebbe ritirato a vita privata nella sua cittadina natale, per trascorrere i suoi ultimi anni di vita in compagnia della moglie Anne Hathaway.
Oggi, 23 aprile, ricorre il quattrocentesimo anniversario della scomparsa di William Shakespeare (nato lo stesso giorno nel 1564), il quale proprio attraverso il personaggio di Prospero, ne La tempesta, sembrava voler alludere alla professione del commediografo: una figura di demiurgo, un creatore di sogni e di meraviglie il quale si diletta a manovrare i destini dei propri personaggi per il piacere del suo pubblico, consapevole del carattere di gioiosa o tragica finzione di tutto ciò che accade sul palcoscenico. Quel palcoscenico da cui Prospero, e insieme a lui lo stesso Shakespeare, si sarebbero congedati con queste parole: "Il vostro alito spiri favorevolmente sulle mie vele, che altrimenti tutto è stato inutile. Altro scopo non avevo se non quello di farvi cosa gradita. Ora non ho più spiriti al mio comando, non più incantesimi". Ma quattro secoli dopo, per nostra fortuna, quel "barbaro non privo d'ingegno" è più vivo che mai; e quel suo "ingegno" a cui rendeva implicito omaggio Alessandro Manzoni continua a brillare non solo sui palcoscenici di tutto il pianeta, ma anche nella penombra delle sale cinematografiche.
Dalle ambiziose trasposizioni di leggendari attori/registi come Orson Welles e Laurence Olivier fra gli anni Quaranta e Sessanta, passando per adattamenti di ogni genere da parte di cineasti più o meno noti (tra cui Franco Zeffirelli e, negli ultimi tre decenni, Kenneth Branagh), fino a titoli recentissimi come il Macbeth interpretato da Michael Fassbender e Marion Cotillard, il Bardo di Stratford-upon-Avon può vantare, secondo IMDB, un totale da capogiro di oltre quattrocento credits cinematografici (senza contare dunque i prodotti televisivi), alcuni dei quali costituiscono oggi veri e propri classici della settima arte. Ma per questa importante ricorrenza abbiamo deciso di celebrare Shakespeare sottolineando come l'opera del più grande poeta di tutti i tempi non si sia limitata a costituire la materia per un numero pressoché incalcolabile di trasposizioni, ma abbia rappresentato e continui a rappresentare un'inesauribile fonte d'ispirazione anche per approcci ben più liberi e sorprendenti. Quello che segue, pertanto, è un viaggio attraverso dieci film (ma non sono gli unici) non semplicemente "tratti da William Shakespeare", quanto piuttosto "ispirati a/da William Shakespeare". A riprova di come il corpus shakespeariano sia riuscito a superare tutte le barriere del tempo e continui tuttora a parlare alla nostra epoca... perfino quattrocento anni dopo.
Romeo e Giulietta a tempo di musical: West Side Story
La tragica vicenda dei due innamorati più conosciuti negli annali della letteratura e del teatro, Romeo e Giulietta, il cui sentimento è contrastato dall'inimicizia fra le rispettive famiglie nella città di Verona (la base per il capolavoro shakespeariano, del resto, fu proprio una novella italiana), ha dimostrato di possedere un potere di fascinazione sul pubblico di ogni età e di ogni nazionalità. E a conferma del valore del meccanismo narrativo creato dal Bardo non si può non citare la più apprezzata fra le rivisitazioni dello sfortunato amore fra Romeo e Giulietta, ovvero un musical teatrale di Arthur Laurents, Leonard Bernstein e Stephen Sondheim diventato, nel 1961, un film di enorme successo: West Side Story. Diretto da Robert Wise e Jerome Robbins, West Side Story trasporta la parabola di Romeo e Giulietta nella New York degli anni Cinquanta, raccontando la passione illecita fra Tony (Richard Beymer) e la portoricana Maria (Natalie Wood), legati a due gang rivali, i Jets e gli Sharks. Le tensioni razziali di una Manhattan cosmopolita e multietnica diventano così la sfondo di un musical appassionante, messo in scena con assoluta maestria e arricchito da brani di culto come Something's Coming, Maria, America, Tonight e Somewhere, che si è meritato un totale di dieci premi Oscar, tra cui miglior film.
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La parabola di Re Lear secondo Kurosawa: Ran
Forse è emblematico il fatto che il massimo capolavoro mai ispirato a un'opera di William Shakespeare sia un film che, dal testo originale del Bardo, non riprende neppure una singola battuta. Summa del cinema di uno dei più acclamati maestri della settima arte, Akira Kurosawa, Ran, del 1985, segna il ritorno del regista giapponese su territori shakespeariani dopo Trono di sangue, a sua volta un libero adattamento del Macbeth datato 1957. Questa volta, un Kurosawa ormai anziano si confronta con la parabola di Re Lear, il sovrano tradito dalla propria arroganza e condannato ad assistere alla disgregazione del suo regno e al tradimento della famiglia, fino a precipitare nella follia. Kurosawa, tuttavia, trasporta l'azione di Re Lear nel Giappone feudale, trasformando Re Lear nel "signore della guerra" Hidetora Ichimonji (Tatsuya Nakadai) e realizzando un tenebroso kolossal epico in cui i grandi temi della tragedia shakespeariana sono declinati secondo le convenzioni del genere Jidaigeki. Il risultato è un film stupefacente sotto ogni punto di vista: un'opera di uno spessore drammatico e di una potenza immaginifica che lasciano senza fiato ad ogni visione.
Dialogando con Amleto: Rosencrantz e Guildenstern sono morti
Un'opera aperta è quella in grado di 'parlare' con altri testi, con altri autori e con altre epoche, offrendo lo spunto per ripartire da luoghi già noti da cui intraprendere però direzioni inaspettate, in un'ideale congiunzione fra passato e presente. È quanto è riuscito a fare uno dei più talentuosi drammaturghi britannici degli scorsi decenni, Tom Stoppard, a partire dall'Amleto: Stoppard si è basato infatti su due personaggi minori del capolavoro sul Principe di Danimarca, i subdoli Rosencrantz e Guildenstern, ingaggiati dall'usurpatore Claudio per trarre in inganno Amleto, per costruire una pièce teatrale strettamente collegata all'Amleto (oggi potremmo definirlo una sorta di spin off). Realizzato nel 1966 e poi portato al cinema nel 1990 con la regia dello stesso Tom Stoppard, Rosencrantz e Guildenstern sono morti è una gustosissima tragicommedia in cui le ambientazioni e le figure di Shakespeare si muovono secondo i meccanismi del teatro dell'assurdo, in un incessante "gioco a rimpiattino" verbale fra i due protagonisti, interpretati nella versione cinematografica da Tim Roth e Gary Oldman. Leone d'Oro al Festival di Venezia 1990.
Enrico V in viaggio per l'Idaho: Belli e dannati
Gli anni Novanta, decennio d'oro per il binomio Shakespeare/cinema, sono stati inaugurati anche da un indimenticabile cult movie ispirato alle opere del Bardo, sceneggiato e diretto dal regista americano Gus Van Sant: Belli e dannati. Lo spunto, in questo caso, è offerto da un ciclo di tre drammi storici shakespeariani, e precisamente il dittico di Enrico IV e l'Enrico V, già alla base di uno degli adattamenti di Orson Welles, Falstaff. E nella pellicola di Van Sant il futuro sovrano Enrico V, che rinnega la corte in favore di un'esistenza avventurosa ai margini della società, diventa un marchettaro di strada, Scott Favor, che ha il volto di un giovanissimo Keanu Reeves, al quale si accompagna Mikey Waters (River Phoenix), gigolò omosessuale, affetto da disturbi narcolettici e innamorato di Scott senza esserne ricambiato. Il viaggio on the road di Mikey e Scott (quest'ultimo figlio ribelle del sindaco di Portland) costituisce la struttura narrativa di un film emozionante e malinconico, fra le più affascinanti rivisitazioni dell'opera shakespeariana, con la migliore performance del compianto River Phoenix, ricompensato con la Coppa Volpi al Festival di Venezia 1991.
Amleto nel cerchio della vita: Il re leone
Perfino la Disney, che per decenni ha pescato a piene mani dal repertorio della tradizione fiabesca europea e non solo, non è rimasta immune alla ricchezza narrativa dell'opera shakespeariana; e infatti uno dei lungometraggi di maggior successo della "casa di Topolino", Il re leone, diretto nel 1994 da Roger Allers e Rob Minkoff, ripropone in sostanza la vicenda di Almeto, traumatizzato dalla morte del padre e impegnato a difendersi dagli intrighi dello zio Claudio. La più complessa e stratificata fra le tragedie shakespeariane, rielaborata per un pubblico di ogni età, vede la corte di Elsinore tramutata nella savana, e il principe Amleto in una simpatica versione 'leoncino' con il nome di Simba, figlioletto del sovrano Musafa e vittima del complotto regicida del perfido Scar. Fra ironia e romanticismo, e con le musiche da Oscar di Hans Zimmer e le stupende canzoni di Elton John e Tim Rice (inclusa la dolcissima Can You Feel the Love Tonight), Il re leone si è rivelato un instant classic del cinema d'animazione.
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Amleto fra realtà e teatro: Nel bel mezzo di un gelido inverno
Come già accennato, uno dei talenti che hanno contribuito maggiormente a tener viva l'eredità di William Shakespeare è stato l'attore e regista Kenneth Branagh. Nato a Belfast nel 1960, Branagh ha riscosso numerosi consensi grazie alle sue ottime trasposizioni di Enrico V e Molto rumore per nulla; ma un anno prima di presentare al pubblico il suo superbo adattamento del testo integrale di Amleto nel magnifico Hamlet, Branagh si è cimentato con un progetto parallelo, ma assai più anticonvenzionale. Fra i gioiellini da riscoprire nella filmografia di Branagh, Nel bel mezzo di un gelido inverno, premiato con il Leone d'Argento al Festival di Venezia 1995, racconta un problematico allestimento di Amleto da parte di Joe Harper (Michael Maloney), un attore disoccupato, e di una compagnia non proprio impeccabile; e le prove dello spettacolo, fra imprevisti e piccoli drammi personali, metteranno gli attori a confronto con l'attualità del capolavoro shakespeariano, a ribadire una volta di più l'inesorabile modernità della grande arte.
Shakespeare e il postmoderno: Romeo + Giulietta
Fin dagli albori del cinema, Romeo e Giulietta è stato uno dei titoli shakespeariani più sfruttati sul grande schermo (da ricordare perlomeno il raffinato Romeo e Giulietta di Zeffirelli del 1968). Ma una delle trasposizioni più coraggiose e innovative della tragedia dei due amanti di Verona, pur conservando quasi alla lettera i versi dell'opera, è senza dubbio quella firmata nel 1996 dal regista australiano Baz Luhrmann, Romeo + Giulietta. Il film di Luhrmann, infatti, dimostra come il testo shakespeariano resti estremamente funzionale anche inserendolo in uno scenario ben diverso rispetto a quello consueto: per la precisione, la Verona Beach losangelina degli anni Novanta, un melting pot in cui le tensioni razziali si frappongono fra la passione che unisce il Romeo di un Leonardo DiCaprio poco più che ventenne (miglior attore al Festival di Berlino 1997) e la Giulietta dell'adolescente Claire Danes. Frenetico, scatenato e orgogliosamente kitsch, Romeo + Giulietta porta Shakespeare nei territori del postmodernismo, mantenendo intatte la forza e la poesia del Bardo.
L'uomo dietro l'icona: Shakespeare in Love
Ed è ancora Romeo e Giulietta la fonte d'ispirazione, nel 1998, di una pellicola che ha avuto il merito di aver innalzato ulteriormente la popolarità di William Shakespeare al cinema, portando questa volta sullo schermo la figura stessa del drammaturgo britannico. Diretto dal regista John Madden su un brillante copione firmato da Tom Stoppard, Shakespeare in Love è una commedia sentimentale che vede per protagonista proprio Shakespeare (Joseph Fiennes), impegnato nell'allestimento di un nuovo spettacolo ma in preda a una crisi creativa. A fargli battare il cuore e a stimolare la sua creatività, in una fittizia genesi di Romeo e Giulietta, sarà l'amore per Viola de Lesseps (Gwyneth Paltrow), giovane nobildonna talmente appassionata di teatro da decidere di travestirsi in abiti maschili pur di avere la possibilità di recitare su un palco. Accolto da un vastissimo successo e vincitore di sette premi Oscar, tra cui miglior film e miglior attrice, Shakespeare in Love mescola realtà storica, finzione romanzesca e riferimenti al teatro shakespeariano alternando ironia e romanticismo.
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Le "bisbetiche domate" dei teen drama: 10 cose che odio di te
Dopo Gus Van Sant sul piano del cinema d'autore e Baz Luhrmann su quello di un postmodernismo dai tratti camp, le "modernizzazioni" di William Shakespeare proseguono in direzione del teen drama, filone ben preciso del cinema di consumo, con le necessarie attrattive per il pubblico di riferimento, ma anche una certa fedeltà alla struttura del testo originale: è il caso di 10 cose che odio di te di Gil Junger, che nel 1999 porta sullo schermo la vicenda de La bisbetica domata. La cornice, stavolta, è un tipico college americano, mentre le schermaglie amorose al cuore dell'intreccio shakespeariano vengono consumate fra compagni di scuola. I giovanissimi Heath Ledger, Julia Stiles e Joseph Gordon-Levitt, non ancora ventenni e appena alle soglie della celebrità, sono i protagonisti di questa commedia il cui successo aprirà le porte ad altre rivisitazioni shakespeariane in chiave teen: dal dispensabile O come Otello al più 'filologico' e sofisticato Much Ado About Nothing di Joss Whedon del 2012, purtroppo inedito in Italia.
Shakespeare dietro le sbarre: Cesare deve morire
Concludiamo il nostro itinerario con un film in cui la finzione artistica, e ancor di più il senso di mimesi proprio del teatro, si fondono con la vita vera mediante una pellicola indefinibile, a metà strada fra il backstage e il documentario: Cesare deve morire, un esperimento particolarissimo, assimilabile per certi versi a Riccardo III - Un uomo, un re, altra indagine su Shakespeare e il mestiere d'attore, girato da Al Pacino nel 1996. Realizzato dai veterani fratelli Taviani all'interno del carcere romano di Rebibbia e ricompensato con l'Orso d'Oro come miglior film al Festival di Berlino 2012, Cesare deve morire ci propone in un essenziale bianco e nero i preparativi di un gruppo di detenuti che si accingono a mettere in scena il Giulio Cesare di Shakespeare; ma lo studio del testo e la progressiva immedesimazione nei diversi ruoli diventeranno, giorno dopo giorno, i veicoli di una conturbante riflessione sulla sofferenza, sull'etica individuale e, in ultima analisi, sul potere salvifico della grande arte.
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