La notte contro la luce. L'uomo contro il dio. E in mezzo lei, vincitrice tra i due litiganti. Piombata da chissà dove per salvare la vita del Cavaliere Oscuro, la statuaria donna bruna emerge con agile disinvoltura anche in mezzo a tutto quel caos di detriti urbani sollevati da Superman e Batman per stagliarsi come un raggio di luce in mezzo alla profonda oscurità in cui è calato il mondo disperato immaginato da Zack Snyder. L'entrata in scena di Wonder Woman, sottolineata da un epico riff di chitarra elettrica orchestrato da Hans Zimmer, è senza dubbio uno dei ricordi migliori del controverso Batman v Superman: Dawn of Justice. Potente e carismatica, la supereroina sembrava prendere il suo spazio senza sgomitare, sembrava promettere una degna incarnazione di una delle icone fumettistiche più coraggiose e all'avanguardia di sempre, portatrice di idee femministe radicali, libertine, persino scomode e scabrose per la rigida società degli anni Quaranta in cui fu partorita. Una promessa impressa persino su una vecchia foto di guerra in bianco e nero, frammento di un ricordo pronto ad essere finalmente rispolverato. Quella promessa è stata mantenuta solo in parte, e il merito è più di Gal Gadot (e di chi l'ha scelta) che di Patty Jenkins, regista di un film schiacciato dal peso di troppe responsabilità, un peso che nemmeno i coriacei avambracci di Diana Prince hanno saputo reggere appieno.
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Sì, perché Wonder Woman doveva essere il primo, vero, grande film al femminile nella storia dei cinecomics (Elektra e Catwoman, perdonateci), il ponte tra due opere ambiziose e stracolme di personaggi come Batman V Superman e Justice League , l'impresa in grado di mettere un po' di ordine in un DC Extended Universe minato da delusioni e passi falsi come Suicide Squad. Troppe incombenze per la nostra Wonder Woman. È forse per questo che Patty Jankins decide di fare la cosa più giusta e sicura: ripartire dalla semplicità. Così Wonder Woman, dopo un breve attimo che si lega nel più naturale dei modi a Batman V Superman, si lancia verso un lungo tuffo nel passato di Diana Prince. Non c'è da aspettarsi alcuna rivolta femminista, nessuna insolita rappresentazione dell'essere eroina in un mondo di uomini guerrafondai, ma una rivoluzione gentile, pacata, a cui, nonostante quel bel nome altisonante portato nel titolo, manca il coraggio della meraviglia.
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Nel ventre del mito
Colori accesi, paesaggi verdeggianti, tanta luce riflessa su un mare sconfinato. L'incipit di Wonder Woman sembra un respiro a pieni polmoni e ad occhi chiusi, come a liberarsi di quell'immaginario spoglio, spento e desaturato proposto dalla DC da L'uomo d'acciaio in poi, un immaginario dove gli eroi sono enormi e i contesti in cui si muovono quasi inesistenti e anonimi. Patty Jenkins, invece, non è d'accordo e parte dalle fondamenta di un luogo paradisiaco, ovvero dall'Isola Paradiso (Temishira) delle Amazzoni, un posto antico e incontaminato, protetto dagli occhi e soprattutto dal cuore malvagio dell'umanità. Con un prologo affascinante, fuoriuscito da una grande opera pittorica animata , Wonder Woman sfoglia le pagine del suo stesso mito, racconta di come Zeus creò gli uomini e di quando Ares, il dio della Guerra, si ribellò alla loro genesi e alla loro natura detestabile. Le Amazzoni, popolo di donne guerriere addestrate al combattimento, sono l'ultimo baluardo issato contro il suo ritorno.
Tra loro nasce e cresce la principessa Diana, protetta dall'amore di sua madre Ippolita, che nulla può quando Steve Trevor, una spia americana, precipita vicino alle coste di Temishira. L'uomo piomba dal cielo, portatore di notizie di guerra e di morte, e instilla in Diana sia il desiderio di combattere Ares, ma anche la curiosità di conoscere meglio l'Uomo, studiarne la natura ed esplorarne il cuore. Già da qui, ovvero dal primo passo di Diana verso il mondo esterno, capiamo la portata innovativa di questa eroina. Laddove altri eroi cinematografici erano stati mossi dal caso (Hulk) o da profondi traumi (Batman, Spider-Man), la futura Wonder Woman sceglie di rispondere alla sua vocazione eroica, sceglie il distacco familiare (e culturale) per dare voce ai desideri del suo cuore. Ha così inizio una origin story dal sapore talmente classico da sembrare quasi fiabesca (spade nelle torri, nuove città in cui avventurarsi, abiti da vestire, oggetti magici), pronta a macchiarsi man mano che il mondo contemporaneo si dimostra tutt'altro che a immagine e somiglianza dell'Eden immaginato da Zeus.
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La meraviglia della donna
Si parte così verso una Londra fumosa e buia, si parte guardando le cose attraverso gli occhi infarciti di mito e di ideali della bella Diana. Nonostante la prima ora difetti di ritmo e brio narrativo, è questo uno degli aspetti più riusciti di Wonder Woman, ovvero insistere sull'animo puro di questa giovane speranzosa e solare che scopre poco a poco quanto i suoi occhi sognanti siano fuori luogo in quel mondo balordo. Sono occhi testardi quelli di Gal Gadot, attrice capace di gestire la sua sontuosa bellezza senza alcuna malizia, dotata di una grazia spontanea e di una persistente ingenuità che la rendono ancora più rara. E se questa ingenuità influisce su un registro comico semplicissimo (a tratti molto basso, in tutti i sensi), tutto giocato sugli equivoci tra una donna mitologica e un uomo moderno (simili a quelli visti, a sessi invertiti, in Thor), va detto che lo stupore del riuscito Steve Trevor di Chris Pine rappresenta bene la percezione che ogni uomo avrebbe di una donna la cui bellezza trascende l'aspetto fisico per poi esprimersi come purezza morale.
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Il rapporto tra Diana e Steve nasce infatti da un'intesa più etica che fisica, basata sulla volontà comune di partecipare alle sorti del mondo e di combattere contro la ferocia dei nemici e l'indifferenza dei vigliacchi. Però, qui stiamo parlando di una guerriera, e quindi è inutile far finta di niente e tralasciare il corpo in azione di Wonder Woman. Jenkins sfrutta bene il fisico poco giunonico ma non per questo privo di potenza e forza di Gadot; un corpo tagliente più che possente, messo in scena attraverso scontri altalenanti. Se la prima entrata in scena è ben orchestrata, emozionante e agevolata dallo stile di combattimento delle Amazzoni, molto acrobatico e vario grazie all'alternanza di spada, scudo e lazo, i successivi scontri sul campo si dimostrano ripetitivi, poco chiari e privi di una vera e propria fisicità. Ed è proprio dalla morte e dalla disperazione viste in guerra che passa il racconto di formazione di questa ragazza che diventa donna conoscendo l'Uomo.
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Diluire il Male
Da mostruose serial killer a nobili principesse. Donne letali in modi completamente diversi. La filmografia di Jenkins segue quasi la legge del contrappasso e, dopo il suo sorprendente esordio con Monster, cerca ben altri valori nel cuore delle sue donne. Però il male esiste anche qui, serpeggia dentro chiunque, ed è uno degli aspetti più controversi di tutto Wonder Woman. Da una parte ci sono i nemici umani, il generale tedesco Ludendorff e il mascherato Dr. Poison, rappresentati in modo sin troppo banale e stereotipato, dall'altra c'è una nemesi atavica di nome Ares, l'ambasciatore del Male, un concetto astratto che si manifesta in ogni colpo di fucile e in ogni bomba che esplode. Questo disorientamento provato da Wonder Woman nell'identificazione di un male da combattere è un'idea interessante e innovativa, capace di far riflettere sul bisogno umano di un antagonista ben preciso, quasi fosse più comodo rispetto alla lotta intestina e invisibile che avviene dentro ognuno di noi.
Purtroppo, però, questo spunto viene letteralmente buttato via dall'ennesimo epilogo deludente e maldestro di casa DC. Dopo L'uomo d'acciaio e Batman v Superman, lo scontro finale perde ancora una volta il senso della misura per risolversi in un'accozzaglia confusa di esplosioni, dialoghi scialbi e sentimentalismi. Questa volta lo scivolone finale è deludente, fa persino arrabbiare perché è incoerente (non vi spieghiamo il motivo per non incorrere in spoiler) e rovina la prospettiva adottata quasi per tutto il film. Wonder Woman si dimostra così un'occasione sprecata, un'opera zoppicante, piena di buoni propositi gestiti da una regia lunatica, sostenuta soprattutto dal carisma volitivo di Gal Gadot. Soffermarci sulla sua bellezza esteriore significherebbe tradirne lo spirito, ma in questo caso non parliamo solo di una bellezza da guardare, ma della bellezza con cui questo personaggio sembra guardare il mondo, le donne e gli uomini. Nonostante tutto il grigio di cui sono fatti.
Movieplayer.it
3.0/5