Recensione Nirvana (1997)

La fantascienza cinematografica è da sempre un genere poco frequentato in Italia; a sopperire a questa sorta di "vuoto" è arrivato nel 1997 questo film di Salvatores.

Science fiction 'spaghetti'

La fantascienza cinematografica è da sempre un genere poco frequentato in Italia. Anche i nostri migliori registi "di genere" hanno da sempre preferito dedicarsi ad altri filoni, in primis l'horror e il western; così, gli esempi di science fiction nostrana ad aver goduto di una distribuzione degna di tale nome si contano davvero sulla punta delle dita. A cercare di sopperire a questo vuoto è arrivato nel 1997 questo film, diretto da un regista coraggioso come Gabriele Salvatores.
I modelli della pellicola di Salvatores sono abbastanza evidenti, e l'autore certo non fa niente per nasconderli: si va da classici degli anni 80 come Blade Runner o Brazil, fino alla fantascienza letteraria di autori come Philip K. Dick o Brian Gibson. Tuttavia, Salvatores sviluppa il canovaccio di base in modo sicuramente personale, e le suggestioni che ne vengono fuori sono senz'altro più proprie di certa cinematografia europea. La solitudine e l'alienazione del protagonista, programmatore di successo, sono subito evidenti: la sua vita si è sfaldata nel momento in cui la sua donna se n'è andata, in fuga da una relazione che si stava trasformando per lei in una gabbia; comoda certo, ma pur sempre una gabbia. In quella gabbia, invece, fatta di ferree scadenze, di droghe obnubilanti e di una casa parlante fintamente premurosa, Jimi ci sta vivendo ancora, inconsapevole. Sarà un virus infiltratosi nel suo ultimo videogioco, e l'acquisita coscienza del suo protagonista, a far scuotere il programmatore dal suo torpore: Solo (nome simbolico fin troppo esplicito) si renderà improvvisamente conto di esistere in un mondo fittizio, creato dalla mente di qualcun altro, e di essere costretto a ripetere sempre, ossessivamente, gli stessi gesti, in eterno. Intreccio già stabilito, quindi, nessuna via d'uscita, vita già programmata. Ma è così soltanto per Solo? O anche Jimi, inconsapevolmente, sta vivendo un intreccio in qualche modo prestabilito? La consapevolezza del personaggio virtuale finisce così per risvegliare quella del suo creatore: Jimi deciderà di mollare tutto e andar via, senza aver chiara in testa la destinazione, ma sicuro di dover comunque ricominciare a vivere. L'incontro con Joystick (altro nome fortemente simbolico) permetterà al protagonista di seguire le tracce della mai dimenticata Lisa, e nello stesso tempo di esaudire la richiesta di Solo, che anela disperatamente alla fine, alla cancellazione del gioco e quindi alla conclusione della sua prigionia.

Il tema del personaggio fittizio che si rende conto di essere tale non è nuovo per il mondo del cinema: avevano sperimentato quest'idea, in passato, sia Woody Allen in La rosa purpurea del Cairo, che John McTiernan nel blockbuster Last action Hero. Salvatores, tuttavia, ha qui l'idea di accostare realtà effettiva e realtà simulata: nella visione del regista, non c'è molta differenza tra l'una e l'altra, in entrambi c'è lo stesso senso di spaesamento e la sensazione di non essere padroni del proprio destino. I due livelli si alternano, nel film, senza soluzione di continuità, mentre i due protagonisti cercano, in modo diverso, di uscirne fuori. Se per Solo la chiave sarà la possibilità di comunicare con Jimi, per quest'ultimo si tratterà dell'incontro con Joystick: nome anch'esso simbolico, si diceva, perché rappresenterà la leva con cui il protagonista riuscirà finalmente a guidare il suo destino. Interessante è anche il personaggio di Naima, amica di Joystick ed esperta hacker, ed il suo ruolo: spogliata del suo passato, con la memoria cancellata da un collegamento neurale non riuscito, la ragazza vive esclusivamente nel presente, prescindendo da qualsiasi altro tempo: l'impianto dei ricordi di Lisa, contenuti in una capsula (la sua anima?), servirà tanto a lei per riempire la sua vita di ricordi veri (anche se non propri), quanto a Jimi per guardare per un ultima volta il passato per poi liberarsene una volta per tutte; e servirà anche, forse, alla stessa Lisa, la cui anima, dopo quest'esperienza, verrà definitivamente liberata.

Il film è visivamente molto curato, e si nota lo sforzo fatto dal regista e dal cast tecnico per mantenersi all'altezza delle analoghe produzioni d'oltreoceano. La rappresentazione della città futuristica, con la sua multietnicità che annulla le distanze (Marrakesh e Bombay sono a pochi chilometri di distanza) e la contemporanea spinta sull'individuo alla solitudine e all'anonimato, è convincente, grazie alle buone scenografie di Giancarlo Basili ma anche all'accattivante fotografia di Italo Petriccione: quest'ultimo, fedele collaboratore del regista (è con lui fin dagli esordi), carica i toni, rendendoli contemporaneamente più scuri e creando un look assolutamente adeguato al genere. Molto interessante anche la rappresentazione visiva dell'interno del videogioco, costituita da un'originale mescolanza di colore e bianco e nero.
Gli interpreti danno tutti buona prova di sé: ai nostri Diego Abatantuono (a suo agio nel rendere lo spaesamento di un personaggio che si scopre "virtuale") e Sergio Rubini, simpatico nel dar vita a un personaggio sopra le righe ma interessante, come Joystick, sia aggiunge un Christopher Lambert che appare decisamente più in palla rispetto alle ultime, deludenti apparizioni d'oltreoceano.

Un film coraggioso e riuscito, quindi, che affronta un genere (la fantascienza cyberpunk) dal peculiare punto di vista del suo autore, riuscendo a risultare, alla fine, molto originale all'interno del suo panorama cinematografico, e allo stesso tempo molto personale, interessante anche se guardato con un occhio "neutro". Peccato soltanto non averne di più, di registi così disposti a rischiare come Salvatores.

Movieplayer.it

3.0/5