Partiamo dall'equazione esatta: che piaccia o no, i Marvel Studios hanno riscritto la serialità cinematografica creando un universo espanso in grado collegare i sogni e le aspettative di milioni di appassionati. Ancora, hanno dimostrato, fin dal 2008 con Iron Man, e proseguendo poi con l'inarrivabile The Avengers del 2012, che il cinema mainstream può e deve essere valutato nel modo più oggettivo possibile: qualità artistica ed effettivi visivi, grandi autori, attori da Oscar e una meticolosa azione di persuasione produttiva, che ha convinto anche i più scettici, critici compresi. Il passaggio tra cinema muto e cinema sonoro è stata la rivoluzione più importante dell'industria, ma il secondo cambiamento focale è arrivato proprio dalla commistione di linguaggi: il cinema che diventa una serie a puntate, e le serie a puntate che diventano cinema. Impensabile, o almeno confinato nello spazio galattico di Star Wars, franchise per eccellenza quando pensiamo alle storie espanse.
Mentre scriviamo, e proviamo ad addentrarci in un discorso spinoso, il Marvel Cinematic Universe è arrivato al trentunesimo film (!), Ant-Man and the Wasp: Quantumania di Peyton Reed, senza considerare le serie originali fin ora rilasciate, che giocano un ruolo chiave - vedi proprio il finale del film di Reed - nell'economia narrativa della saga. Tasselli su tasselli, di quel MCU che continua ad espandersi, sfruttando il concetto di Multiverso che, azzerando ogni regola spazio-temporale, apre infinite e spaventose possibilità. Ecco, questo potrebbe essere il primo problema: è innegabile che, al netto degli incassi globali, la Fase 4 sia stata altalenante, senza soddisfare a pieno il pubblico e, di conseguenza, scheggiando i pareri della critica. O almeno, non soddisfano la prima generazione di pubblico, entusiasta di piangere e ridere insieme ad un gruppo supereroi pieno di problemi umani, e dunque riconoscibili dietro gli scudi indistruttibili, i martelli volanti, le frecce infallibili.
Più film, più serie, più annunci. Più tutto
Divenuti una sorta di tramite generazionale, gli Avengers hanno fatto dialogare le fantasie degli spettatori, centrali nel concetto di experience: tutti noi, per un momento, ci siamo sentiti come il Thor sovrappeso di Chris Hemsworth o arrabbiati come il Bruce Banner di Mark Ruffalo. Poi, nel colpo epico e drammatico, lo schiocco di Thanos, l'incubo, la morte e la successiva - traumatica - rinascita. Da qui in poi, tolto Spider-Man: No Way Home, la Fase 4 si è fermata alle parole, superando i fatti. Quei fatti che hanno dimenticato l'epica - e quindi il click narrativo del dramma e della causa, essenziali fino ad Avengers: Endgame -, intanto che le parole girano sulle promesse di un maggior coinvolgimento propedeutico allo spettacolo. Che vuol dire? Che il pubblico dal 2008 è cambiato, e che oggi c'è bisogno di una maggior velocità distributiva, e quindi produttiva: più film, più serie, più annunci, più trailer. Più tutto, insomma.
Il punto, però, è questo: l'equilibrio è il fattore principale (non solo al cinema), e i cardini della saga si sono sensibilmente spostati verso uno sfondo visivo uguale e fine a sé stesso (il Regno Quantico è identico al multiverso di Doctor Strange, rifacendosi poi alle sfumature dei Guardiani della Galassia), perdendo quell'innovazione tipica per concentrarsi sulle chiavi narrative mirate ad invogliare il pubblico più giovane che, per forza, erediterà i concetti. Lungi da noi generalizzare, ma il linguaggio cinematografico sta cambiando, e tutto deve essere consumato in funzione del prossimo spettacolo, probabilmente già vecchio quando uscirà al cinema. Il pretesto di questa analisi arriva, appunto, dall'apertura della Fase 5, affidata ad Ant-Man and the Wasp: Quantumania, comunque superiore rispetto agli ultimi capitoli del MCU. Siamo contenti che Scott Lang alias Paul Rudd abbia finalmente un posto di rilevo nella concezione dello show, ed è emozionante confrontarsi con due miti come Michael Douglas e Michelle Pfeiffer.
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Il Marvel Cinematic Universe sta diventando solo una scena post-credit?
Tuttavia, la sensazione, è che Ant-Man and the Wasp: Quantumania sia studiato solo per rivelare la dinastia di Kang il Conquistatore, con il volto di un attore che amiamo particolarmente, Jonathan Majors (anzi, riscopritelo in The Last Black Man in San Francisco, che trovate su Netflix). Davvero, i fasti delle prime tre Fasi sono già preistoria? Perché non mantenere un originalità di tono e di umore in relazione ai personaggi e ai film stand-alone, invece di inserirli in un calderone marcatamente standardizzato? Una sterzata forse obbligata per Kevin Feige e i Marvel Studios, ciononostante non riesce ad imprimere il giusto sbigottimento positivo. Sensazione che cozza con un altro problema, e che riguarda l'inaspettato: il film va esattamente nella direzione che abbiamo immaginato. Poche sorprese e il pubblico che aspetta solo la fatidica scena post-credit, divenuta benedizione e maledizione del Marvel Cinematic Universe. Rivelare? E quanto rivelare? Scherzare o restare seri? Introdurre Charlize Theron o giocare con il gatto Goose e il Tesseract? Pochi fronzoli, l'importante è tenere alta l'attenzione, garantire il teatro.
La velocità e l'immediatezza hanno preso il sopravvento sul racconto filmico, e gli spettatori paganti sono lì, con lo smartphone in mano, ad immortalare l'arrivo o il ritorno di questo o quell'altro personaggio. In barba agli spoiler, che tanto sui social vale tutto, perché bisogna sentirsi parte di un evento, da consumare pensando già al successivo. Si entra in sala sapendo già tutto, consci di una stanchezza rivitalizzata, appunto, dai doppi epiloghi. Pochi minuti di una sequenza dopo i titoli di coda e un'appendice divenuta comfort zone. La certezza che anche il film meno riuscito possa comunque coinvolgere, alimentando la saga. Basta un will return per mantenere vivo il fuoco e il fulcro, garantendo la certezza focale: la Marvel non finisce qui, prosegue e proseguirà, non vi lascerà soli, né al cinema né tantomeno a casa. Il dubbio, però, è "come" proseguirà, non "quanto" proseguirà. E non c'è scena post-credit capace di diradare quelle incertezze che, salvo sperate sorprese, potrebbero diventare la nuova realtà dello show cinematografico (e seriale) più amato. E sì, anche un po' detestato.
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