Quando si guarda indietro alla cerimonia di premiazione degli Oscar, in genere la maggior parte dei commenti inizia sempre con "tutto come da copione". Lo stesso potremmo e dovremmo dire anche di questa notte delle star numero 87, una serata che non ha riservato grandi sorprese per quanto riguarda i premiati, ma anzi ha visto trionfare praticamente tutti i frontrunner dell'ultima ora.
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Eppure mai come in passato, anche all'immediata vigilia, sembra esserci spazio per una gara equilibrata ed imprevedibile nelle categorie principali, un'annata in cui magari le famose guild potessero finalmente fallire nel loro "prevedere" i premi con tanta precisione: e invece così non è stato, tutti coloro che sono stati premiati nei giorni scorsi ai vari PGA, DGA, WGA e SAG sono saliti sul palco anche al Dolby Theatre, con l'unica eccezione di Wes Anderson sconfitto dal rivale Alejandro González Iñárritu anche per quanto riguarda la sceneggiatura originale.
Ma di certo Anderson non può lamentarsi visti i quattro premi vinti dal suo Grand Budapest Hotel (esattamente quanti Birdman, anche se meno prestigiosi) e considerati tanti avversari insidiosi e di rango lasciati a mani asciutte o quasi: parliamo ovviamente di American Sniper (montaggio sonoro), Interstellar (effetti speciali), The Imitation Game (sceneggiatura non originale), La Teoria del Tutto (attore protagonista) e Boyhood (attrice non protagonista), tutte pellicole ferme ad una statuetta ma che in un'altra annata meno competitiva e meno ricca avrebbero probabilmente portato a casa diverse statuette in più.
Ma si sa, un'annata di buon, anzi ottimo, cinema fa felice tutti tranne chi si trova tutto ad un tratto in competizione, ed è così che sono in tanti a rimanere delusi, come i tanti e meritevoli attori in gara che però in realtà non hanno mai avuto una chance perché i vari Julianne Moore, J.K. Simmons, Patricia Arquette e, sì, anche Eddie Redmayne avevano l'Oscar in tasca già da diversi mesi. Per esempio quando a novembre, all'inizio dell'Awards Race, il superfavorito sembrava essere quel Boyhood di Richard Linklater che ha avuto elogi di tutta la critica e la stampa statunitense, e che, grazie ad un film bellissimo ed emozionante ma anche e soprattutto ad una realizzazione atipica, sembra il film perfetto per accontentare tutti e diventare un perfetto simbolo per un'Academy tanto desiderosa di svecchiarsi e riavvicinarsi al cinema contemporaneo americano.
Con la vittoria di Birdman questo avviene comunque, anche se non completamente, visto che per la seconda volta consecutiva (dopo gli Oscar per Gravity) due premi fondamentali come miglior regia e miglior fotografia vanno a due messicani quali Inarritu e Emmanuel Lubezki.
Si tratta di una coincidenza che non è passata inosservata a nessuno, nemmeno al presentatore del premio, Sean Penn ("Who gave this son of a bitch a green card?") o allo stesso Inarritu, ma a prescindere da facili ironie, è dal 2010 di Kathryn Bigelow e The Hurt Locker, che la regia non viene vinta da un regista statunitense, un segno della natura sempre più cosmpopolita di Hollywood ma anche di una certa difficoltà ad imporsi del cinema a stelle e strisce.
Quella di Birdman è comunque una vittoria importante per gli Oscar e l'Academy, ma forse lo è ancor di più il fenomeno Whiplash, un piccolissimo film dal budget irrisorio (3.3 milioni di dollari) che si porta a casa tre statuette molto importanti (attore non protagonista, montaggio e sonoro) e catapulta un regista talentuosissimo e giovanissimo (30 anni appena compiuti) come Damien Chazelle direttamente nella Hollywood che conta.
Per quanto riguarda i premi insomma possiamo dirci molto soddisfatti, perché al di là di delusioni e preferenze personali (il nostro Oscar della redazione rimane comunque Boyhood) si trattano di premi di cui si può andare fieri e il cui giudizio, crediamo, possa anche resistere alla prova del tempo, così come abbiamo visto hanno fatto molte delle edizioni passate a cui abbiamo voluto dare i voti.
Ma parte i premi, com'è stata questa Notte degli Oscar 2015? Vediamo insieme i punti più alti, e più bassi, della cerimonia numero 87, la prima condotta da Neil Patrick Harris.
Il meglio della serata
I discorsi di ringraziamento
Non capita poi tanto spesso di avere dei discorsi di ringraziamento degni di nota, in genere sono soltanto un paio per serata. E invece questa volta sono stati talmente tanti che si fa anche fatica a citarli tutti. Eddie Redmayne, Julianne Moore, Alejandro Gonzalez Inarritu dovrebbero essere ormai avvezzi dopo aver vinto premi a destra e manca negli ultimi mesi, ma tutti e tre si sono lasciati prendere dall'emozione e hanno cercato di rimediare con un po' di ironia e freschezza: la Moore ha giocato sul tasto (per lei dolente) dell'età (riuscendo così a rimarcare con eleganza anche il "ritardo" con cui le arriva questo riconoscimento dopo una carriera incredibile), il regista messicano ha citato le ormai celebri mutandone di Michael Keaton in Birdman.
Ormai culto anche il regista polacco Pawel Pawlikowski premiato per il bellissimo Ida, che ha "sfidato" (e vinto!) l'Academy con un discorso talmente lungo da andare ben oltre la tradizionale e ansiogena musichetta del "wrap up". Un vero e proprio eroe, ma, per il bene di tutti, speriamo non venga preso ad esempio troppo spesso.
Ma andando oltre l'ironia sono stati tanti soprattutto i discorsi emozionanti e sentiti a segnare la serata: come quello molto personale di J.K Simmons sull'importanza dei genitori e del loro ruolo nella vita di tutti noi, o quello di Patricia Arquette sulla diseguaglianza di diritti e salariale per le donne negli Stati Uniti o la doppia dedica ai malati di SLA, richiamati sia da Redmayne che da Julianne Moore. Ma il discorso più bello e toccante è senza alcun dubbio quello del giovane sceneggiatore di The Imitation Game, Graham Moore, che ha spiegato quanto si è sentito vicino alla drammatica ed ingiusta storia di Alan Turing e ha anche parlato senza remore della sua adolescenza, di un tentato suicidio e della difficoltà di integrarsi perché si sentiva diverso. Il suo messaggio "Stay weird, stay different" è già adesso una frase culto ed un esempio importante per molti giovani.
I futuri presentatori degli Oscar, Adela Dazeem e Glom Gazingo
L'anno scorso la gaffe di John Travolta ai danni della povera Idina Menzel era stato uno dei momenti più involontariamente divertenti e culto dell'intera serata.
Questa volta è tutto preparato, ma la vendetta della talentuosa cantante è comunque esilarante e Travolta davvero unico per autoironia.
Bellissimo anche lo scambio di battute tra i due con lei che dice "Questa cosa mi seguirà per tutto il resto della mia vita!", al che lui risponde serafico "Dimmelo a me!"
Chapeau!
Tutti insieme appassionatamente. Pure Lady Gaga.
Ad essere sinceri siamo quasi certi che più che la volontà di celebrare i 50 anni di un autentico capolavoro del musical come quello di Robert Wise ci fosse la necessità di trovare una scusa per far cantare Lady Gaga, ben consapevoli che l'esibizione sarebbe stato uno dei momenti di maggiore interesse per gran parte del pubblico (e vedendo il record su Twitter così è stato). Ma sinceramente poco importa se ci ha permesso di guardare immagini ed ascoltare canzoni che hanno fatto la storia del cinema e, soprattutto, ci hanno portato sul palco la divina Julie Andrews, 79 anni portati con una bellezza ed un'eleganza senza eguali, che si commuove ed abbraccia la cantante prima di presentare l'Oscar per la migliore colonna sonora. E nel suo breve discorso cita sia Lady Gaga che Star Wars, nemmeno nei nostri sogni più reconditi avremmo mai immaginato questa Mary Poppins così pop!
La Gloria di Selma
Nel decidere in assoluto il momento più bello ed emozionante dell'intera serata non abbiamo nessun dubbio: la performance canora di John Legend e Common è stata semplicemente perfetta, grazie all'azzeccata coreografia e alla bellezza del pezzo (Glory) che poi qualche minuto dopo avrebbe vinto la statuetta. Ma quello che ha lasciato tutti senza fiato è stata la reazione del pubblico al termine dell'esibizione, con una inaspettata standing ovation e tantissimi volti sinceramente commossi (da segnalare il pianto del protagonista di Selma David Oyelowo ma anche quello ancora più inaspettato di Chris Pine).
Anche il discorso di ringraziamento, una volta vinto l'Oscar, è stato molto sentito: entrambi i musicisti hanno parlato dell'importanza delle gesta di Martin Luther King ma anche degli ostacoli ancora da superare tutt'oggi per arrivare ad una vera uguaglianza razziale. Un discorso che ha suscitato qualche polemica ma ha ricevuto soprattutto grande supporto in sala e nel web non soltanto dalla comunità black.
L'opening musicale e l'elefante nella stanza
Veniamo a Neil Patrick Harris. Per il momento soffermiamoci sui lati positivi della sua esperienza agli Oscar e partiamo quindi dal numero musicale di apertura (Moving Pictures) che l'attore (che ha diverse esperienze a Broadway ed anche un premio Tony nel cassetto) interpreta con grande naturalezza grazie anche al prezioso aiuto della sempre deliziosa Anna Kendrick e dell'irresistibile Jack Black.
Il numero non è particolarmente originale, ma anzi ricorda un po' alcune perfomance storiche di Billy Crystal, ma funziona e sembra essere un buon inizio per una serata spumeggiante e vivace. Purtroppo non sarà così, ma ad Harris va comunque almeno un altro merito, quello di aver saputo gestire (da quanto ci è dato ricordare) meglio di qualunque altro le immancabili polemiche su alcune esclusioni eccellenti in fase di nomination. Lo fa affrontandole di petto fin dall'inizio con battute rapide, sagaci e di classe, come quella su Selma e la scarsa rappresentanza di colore di quest'anno ("Tonight, we honor the best and whitest"), la mancata nomination per l'animazione a The Lego Movie, così come quella a David Oyelowo.
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Il peggio della serata
La conduzione dello show
Non tutto è oro però quello che è Neil Patrick Harris, perché come dicevamo se l'inizio è stato brillante ed un paio di battute sono andate a segno, per il resto non ci sono stati momenti particolarmente memorabili: forse un po' per l'emozione, ma alcuni "jokes" non sono andati a segno ed anche quelli più simpatici (come l'arrivo in mutande sul palco stile Birdman o la lunga e prolungata gag sulle predizioni custodite in una valigetta) erano troppo forzati e telefonati. Non è un caso che i momenti migliori siano stati quelli più spontanei, come la battuta sul vestito "con le palle" di una delle registe del documentary short.
Ma oltre ad essere stato poco divertente (comunque una pecca non da poco in questi casi), questa prima volta di Harris ha l'aggravante di rappresentare un significativo passo indietro rispetto alla conduzione di Ellen DeGeneres di un anno fa: Ellen era riuscita a far diventare la sua cerimonia un evento nell'evento, per di più sfruttando al meglio i social e avvicinando un pubblico più giovane e disinnamorato. Se oggi e nei prossimi giorni sui social si parlerà tanto di quesi Oscar il merito non sarà certo del suo conduttore ma dei protagonisti veri e proprio e dei momenti che abbiamo citato sopra. E non è un caso infatti che già adesso, a poche ore dal termine della serata, sono in tanti già a chiedere a gran voce il ritorno di Ellen. Un esordio non esattamente leggen... aspetta e spera che forse arriva ... dario.
La mancanza di ritmo dello show
Abbiamo già detto di alcuni problemi legati alla conduzione di Harris, ma se la cerimonia non ha funzionato, ma anzi è stata a tratti soporifera, la colpa non è solo del presentatore ma di alcune scelte non particolarmente felici. Alcuni accostamenti di categorie minori, alcune canzoni non particolarmente appetibili e alcune lungaggini francamente evitabili (Governor's Ball, i premi scientifici, il lunghissimo discorso della presidente dell'Academy) sono problemi "storici" della cerimonia che però possono essere in qualche modo superati da una conduzione brillante. Come già detto quest'anno così non è stato e tutti questi limiti riemergono più evidenti che mai. Perfino il momento "In Memoriam", da sempre uno dei più emozionanti, quest'anno ha suscitato diverse perplessità: perché per esempio non far cantare la pur brava Jennifer Hudson durante il tributo così com'è stato fatto in passato? Invece prima c'è stato il lungo tributo e soltanto dopo l'esibizione dell'attrice premio Oscar per Dreamgirls.
L' imprevedibile virtù della commozione di Terrence Howard
Quest'anno gli 8 film in lizza per la categoria principale sono stati presentati a blocchi di due e tre, con brevi presentazioni ed una clip per ciascuno. Se Liam Neeson e Shirley MacLaine si sono tenuti allo script, quando è arrivato il turno dell'attore di Crash - Contatto fisico c'è stato più di qualche attimo di imbarazzo: l'attore è evidentemente emozionato quando parla di un film "straordinario" e tutti probabilmente immaginavano stesse parlando di Selma, un film, come già visto, molto sentito ed importante per la comunità nera hollywoodiana. Quando però si capisce che il film a cui fa riferimento è The Imitation Game e questa figura così importante che sta citando non è il Dott. King ma Alan Turing, l'imbarazzo del pubblico (non solo a teatro) è davvero palpabile. Sembra quasi che l'aspetto quasi da soap opera della nuova serie Empire (peraltro enorme successo negli USA) di cui è protagonista l'abbia investito in pieno. Caro Terrence, va bene che i tempi in cui venivi nominato all'Oscar sono ormai lontani, ma di certo non è così che riuscirai a riconquistarci.