Ancora una volta ci troviamo a commentare una nottata degli Oscar che, soprattutto nei suoi premi principali, è sembrata ecccessivamente prevedibile e non certo entusiasmante. Il discorso del re ormai da tempo era l'assoluto frontrunner - e di certo non per le dodici nomination, che significano ben poco come dimostra la sorte de Il grinta, con ben dieci candidature e nessuna statuetta - ma negli ultimi giorni un sottile velo di speranza sembrava avvolgere The Social Network, una speranza alimentata dagli stessi membri dell'Academy quando nella prima parte della serata gli abbiamo visto assegnare i premi alla colonna sonora e al montaggio, due premi che, insieme a quello già virtualmente assegnato da mesi ad Aaron Sorkin, avevano legittimamente fatto sperare. Per il film di David Fincher, il cui profilo basso e la nomea da "antipatico" non hanno certo aiutato la causa, sono comunque tre menzioni importanti che nel loro insieme premiano comunque l'eccellenza della pellicola in ciascuno dei suoi aspetti più significativi. Con l'avanzare faticoso della serata, alle piacevoli sorprese iniziali (i premi tecnici, e in primis la fotografia, a Inception, i due ad Alice in Wonderland) e alle promesse degli organizzatori per una cerimonia più snella e più moderna, è seguita una lunga nottata che è rimasta sui binari della prevedibilità, con premi non solo scontati ma riconducibili alla famigerata (quanto brutta) definizione di "film da Oscar".
Il superfavorito della vigilia Il discorso del re ha centrato quattro premi su dodici candidature, non un gran risultato a livello di numeri considerato che ci si poteva attendere, dopo il dominio delle Guild, un vero e proprio sweep. Ma si tratta di quattro statuette davvero pesanti - miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale e migliore attore protagonista - per un film che continuiamo a ritenere di qualità sì, ma forse sopravvalutato nel suo complesso. La nostra sensazione è che l'entusiasmo per singoli valori - le fenomenali performance di Colin Firth, Geoffrey Rush e Helena Bonham Carter, il fascino della storia che sta a monte, quella dello sceneggiatore balbuziente David Seidler, incoraggiato nell'affrontare il suo problema dalla vicenda di Re Giorgio VI, il messaggio di responsabilità, forza e speranza di cui la pellicola è latrice - abbia prevalso su un giudizio più ponderato su una pellicola che non riesce appieno nell'unire organicamente i vari aspetti che la compongono. Così, la sceneggiatura di Seidler incanta più per le sue premesse che per il suo effettivo spessore, e l'Oscar per la regia a Hooper, sebbene largamente preannunciato, rimane il premio più difficile da digerire dell'intera serata, se non degli ultimi anni.
E c'è da dire anche che di "film da Oscar" come quello di Tom Hooper non se ne vedevano da tempo, se consideriamo che negli ultimi tempi anche film con temi molto vicini ai gusti dell'Academy avevano comunque portato, pur rimanendo convenzionali nel messaggio, qualche alone di novità - si pensi al montaggio frenetico e l'esotismo di The Millionaire o la coralità e il fascino indie di Crash - in una Academy che fin dall'inizio del nuovo millennio (e dopo un decennio, quello degli anni '90, che più tradizionale non si può) aveva comunque provato a stare un po' al passo con i tempi e ad avvicinarsi ai gusti del pubblico contemporaneo. Oggi possiamo dire con certezza che c'è un'inversione di tendenza netta e brusca; al favorito della critica The Hurt Locker succede infatti Il discorso del re, un film che se fossimo negli anni '90 sarebbe il Best Picture perfetto ma che nel 2011 - e contro avversari quali The Social Network, Il cigno nero, Un gelido inverno, 127 ore, Toy Story 3 - la grande fuga e Inception, tutti esemplari ben più significativi del cinema (e della società) di oggi - suona quasi come una rivincita da parte della fascia più tradizionale dei votanti che, come già avvenuto in tutte le Guild nei mesi passati e forse anche approfittando di una sorta di dispersione dei voti tra tutti i film sopracitati, si riprende il ruolo decisionista che gli era sfuggito di mano e "abbocca" all'amo perfettamente preparato da Harvey Weinstein, che a sua volta così batte il suo acerrimo rivale Scott Rudin e si riprende lo scettro e il titolo (mai più azzeccato) di Oscar Whisperer.
Dove invece si tenta a tutti i costi un ringiovanimento è nella conduzione che ha visto per la prima volta la chiamata alle armi di due giovani e talentuosi attori e sex symbol quali James Franco e Anne Hathaway, i quali hanno fatto il possibile (lei in modo esplosivo ed energico, lui con un understatement - in cui qualche maligno ha visto rievocata la naturalezza della sua interpretazione in Strafumati - che minimizzava con classe l'importanza del ruolo che sta ricoprendo) per cercare di nascondere le crepe sempre più evidenti di un format vecchissimo che funziona sempre meno. E non è un caso che i momenti più divertenti siano stati proprio (qui sì) quelli più tradizionali come la più classica (multi)parodia iniziale o gli interventi (reali o virtuali) dei due più grandi host di sempre, Billy Crystal e Bob Hope. Siamo certi che entrambi non avrebbero perso l'occasione per usare la loro ironia graffiante e bacchettare i membri dell'Academy per aver mancato un appuntamento così importante, quello con il presente ed il futuro dell'arte cinematografica.
A questo link l'articolo con le preferenze espresse dalla nostra redazione sulle basi delle candidature degli Academy Awards, prima dell'assegnazione dei premi.