"Credo che la noiosa realtà della vita sia tutto quello che abbiamo, ma tu sei la prova che può esserci di più: più mistero, più magia..."
In questa battuta, pronunciata dal celebre illusionista Stanley Crawford (Colin Firth) alla graziosa, sedicente medium Sophie Baker (Emma Stone), risiede in sostanza il vero conflitto alla base di Magic in the Moonlight, il nuovo, puntualissimo film di Woody Allen: il dualismo fra la "noiosa realtà della vita" e quel più, ripetuto da Stanley con rapita incredulità: più mistero, più magia...
Ambientato nel suggestivo scenario della Costa Azzurra nel 1928, Magic in the Moonlight vede protagonista appunto Stanley Crawford, meglio noto con il suo nome d'arte di Wei Ling-soo, ovvero il più rinomato illusionista d'Europa. Se Stanley trae il proprio successo dallo stupore provocato nel pubblico grazie ai suoi arditi trucchi, l'uomo è tuttavia ben consapevole che nell'esistenza non c'è posto per la magia, né per tutto ciò che può essere ricondotto alla sfera del trascendentale.
Amore e magia al chiaro di luna
A sfidare le sue convinzioni sarà la giovane ed affascinante Sophie Baker, che vanta inspiegabili capacità medianiche grazie alla quali si è fatta accogliere all'interno di una ricca famiglia americana residente in Francia, i Catledge. A Stanley spetterà il compito di smascherare la presunta truffatrice, sforzandosi al contempo di resistere allo charme della ragazza. Senza svelare ai lettori ulteriori dettagli della trama, Magic in the Moonlight potrebbe apparire insomma come una canonica commedia brillante dalle atmosfere ovattate e dai risvolti sentimentali, che mai come in questo caso, nella produzione alleniana, strizza l'occhio al cinema classico - e i modelli principali della pellicola, in effetti, sembrano essere proprio George Cukor, Ernst Lubitsch e gli altri maestri della sophisticated comedy. Eppure, come sempre accade con Woody, l'espediente narrativo principale, ovvero l'indagine attorno ai supposti "poteri" di Sophie, costituisce un mero pretesto per parlare di qualcos'altro...
Il vero nucleo di Magic in the Moonlight, infatti, è riconducibile a uno dei temi chiave dell'opera di Allen: l'opposizione (insanabile?) fra un lucido razionalismo, rigorosamente ancorato a ciò che è concreto, tangibile e scientificamente dimostrabile, e la capacità di abbandonarsi - o di lasciarsi 'traviare' - dall'incanto di un mondo altro, in cui vi è spazio anche per il soprannaturale. Stanley, uomo cinico e pragmatico, conduce la propria vita all'insegna di un pessimismo espresso di scena in scena con le sue battute di feroce sacasmo. Quando, a un certo punto, Sophie gli chiederà di perdonarla, la risposta di Stanley sarà: "Beh, non posso perdonarti. Solo Dio può perdonarti". "Ma hai detto che non c'è nessun Dio!", ribatte confusa la ragazza; "Appunto!". Il "dramma" alla base del personaggio interpretato da Colin Firth risiede proprio in questo: vale forse la pena rinunciare alla lucidità di chi rifiuta falsi miti o facili appigli consolatori, allo scopo di ottenere qualche barlume di serenità? O tale serenità, in fondo, è solo una forma di autoinganno per evitare di guardare verso il baratro? Per Allen, nichilista ma senza essere misantropo, forse c'è però una possibilità di sintesi fra queste due opposte soluzioni: magari non nella vita reale, ma quantomeno nel cinema...
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Alla ricerca della rosa purpurea: Cecilia ed Alice
"Ho appena incontrato un uomo stupendo... È immaginario, ma non si può mica avere tutto!": è la citazione indimenticabile, nonché la suprema dichiarazione di autoillusione, pronunciata da una prodigiosa Mia Farrow, in una delle migliori prove della sua carriera, ne La rosa purpurea del Cairo, uno dei titoli più originali e coinvolgenti nella vastissima filmografia di Woody, datato 1985. Si tratta peraltro della prima pellicola, quantomeno considerando la fase della "piena maturità" di Woody Allen (ovvero quella che inizia nel 1977 con Io e Annie), in cui la dimensione fantastica assume un ruolo preminente nella trama: non solo come semplice digressione surreale, come gli inserti di Io e Annie, ma come autentico motore dell'intreccio. Ambientato in una cittadina del New Jersey negli anni Trenta, nel pieno della Grande Depressione, La rosa purpurea del Cairo racconta l'amore impossibile fra Cecilia (Mia Farrow), moglie sottomessa e cameriera di una tavola calda, e Tom Baxter (Jeff Daniels), archeologo e prode avventuriero, protagonista di straordinarie avventure. L'unico problema è che Tom Baxter è il personaggio di un film (intitolato appunto La rosa purpurea del Cairo), 'uscito' letteralmente dal grande schermo per salvare la povera Cecilia da una routine grigia e frustrante. La fantasia, simboleggiata da una forma d'arte - il cinema - che stimola l'immaginazione dello spettatore e ne suscita il pathos con un'intensità estrema, invade così l'esistenza di Cecilia, per via di un espediente magico che rimane fra le trovate più sorprendenti del genio di Woody. Consapevole, però, che neppure la fantasia può sopperire per sempre al richiamo del mondo reale, come Cecilia stessa finirà per realizzare, con una pacata rassegnazione venata di malinconia: "Io sono una persona reale. Per quanto forte sia la tentazione, devo scegliere il mondo reale.".
Cinque anni più tardi, nel 1990, Mia Farrow è ancora al centro di una commedia dai toni surreali: Alice, altro film in cui, dopo La rosa purpurea del Cairo, il regista newyorkese inserisce con forza l'elemento della magia. Vagamente ispirato a Giulietta degli spiriti di Federico Fellini, Alice costituisce l'esplorazione - ironica ma di indubbia profondità - nell'animo di Alice Smith Tate, una donna sposata appartenente all'alta borghesia di Manhattan, divisa tra la fedeltà nei confronti del disattento marito Doug (William Hurt) e l'attrazione, vissuta con un senso di colpa correlato alla sua educazione religiosa, per il musicista jazz Joe Ruffalo (Joe Mantegna). Affetta da un malessere psicosomatico, Alice si affida alle cure del dottor Yang, il quale le fornirà delle erbe magiche: la prima pozione permetterà ad Alice di raccogliere il coraggio necessario per accettare l'invito di Joe (e cedere così alla "tentazione"); la seconda posizione farà diventare invisibile la donna, dandole modo di osservare di nascosto il comportamento di Joe, ma anche quello di suo marito Doug; la terza erba magica, invece, la metterà in comunicazione con il fantasma di Ed (Alec Baldwin), il suo primo fidanzato. Alla fine, il dottor Young consegnerà ad Alice gli ingredienti per un'ultima pozione: un potente filtro d'amore, che la protagonista dovrà scegliere se e come usare, mentre decide quale svolta imprimere alla propria vita. Gli inserti magici, in questo caso, ricalcano i topos delle antiche fiabe, con l'aiutante - uno stregone - che munisce l'eroina di turno di strumenti fatati; la magia, però, non è che un veicolo per una progressiva presa di coscienza, che procede di pari passo con una severa autoanalisi.
Fra ombre e nebbia, inseguendo scorpioni di giada
Dopo il dottor Yang di Alice, nel cinema di Allen torneranno in più occasioni altre figure di maghi: a partire da Armstead, l'abile prestigiatore che, nel finale del bellissimo e sottovalutato Ombre e nebbia, del 1991, si rivolge al protagonista, il timido Kleinman (lo stesso Allen), illustrando con queste parole il valore delle proprie illusioni per la gente comune: "Ne hanno bisogno: come l'aria che respirano". Ma è a partire dagli anni Duemila che la filmografia di Woody tornerà ad essere popolata da prestigiatori e indovini, laddove l'ordinario equilibrio degli eventi e dei rapporti umani viene incrinato all'improvviso a causa dell'intrusione di quella "variabile impazzita" espressa appunto dall'elemento magico e surreale. È un'ipnosi, ad esempio, ad innescare il meccanismo da giallo-rosa de La maledizione dello scorpione di giada, del 2001 (ingenerosamente bollato da Allen come il peggior esito della sua produzione), film che omaggia i grandi noir degli anni Quaranta rovesciandoli però in chiave comica. Nel film Woody, versione alquanto autoironica dei classici detective stile Humphrey Bogart, è l'investigatore privato C.W. Briggs, ipnotizzato dall'illusionista Voltan nel corso di uno spettacolo e 'adoperato' in seguito come insospettabile (ed inconsapevole) esecutore di furti di gioielli, in un vivace intrigo nel quale finirà coinvolta pure la sua collega e rivale Betty Ann Fitzgerald (Helen Hunt).
Una struttura analoga, caratterizzata dall'amalgama fra comicità, romanticismo e suspense, è quella di Scoop, del 2006, secondo film consecutivo di ambientazione londinese (dopo il capolavoro Match Point) per il cineasta newyorkese. Questa volta è Woody a vestire i panni del mago: Sid Waterman, alias il Grande Splendini, goffo e imbranato prestigiatore che, durante uno dei suoi numeri di avanspettacolo, riceve una "visita a sorpresa" da parte del fantasma di Joe Strombel, un giornalista appena deceduto che lo esorta a indagare sul famigerato "killer dei Tarocchi". In Scoop, in cui divide la scena con Scarlett Johansson e Hugh Jackman, Allen recupera l'elemento del soprannaturale - in primis i contatti diretti con gli spiriti - per inscenare un piacevole divertissement, che ricalca le orme di un precedente murder mystery: Misterioso omicidio a Manhattan, autentico gioiello di comicità e ritmo firmato da Allen nel 1993. E se in Magic in the Moonlight i membri della famiglia Catledge, e in particolare l'ingenua vedova Grace (Jacki Weaver), si affidano a una ragazza in grado di metterli in comunicazione con l'oltretomba, la tendenza - o piuttosto la necessità? - di riporre fiducia nel trascendente e nella divinazione contraddistingue anche la matura Helena Shepridge (Gemma Jones), che dopo essere stata abbandonata dal marito Alfie (Anthony Hopkins) si rivolge alla predizioni dell'indovina Crystal (Pauline Collins). Il film, girato a Londra e uscito nel 2010, ha un titolo quanto mai emblematico: Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni, frase che sintetizza tanto le speranzose attese di chi si aggrappa alla fede, alla superstizione o alla cieca fiducia nel destino, quanto le amarezze di un'ordinaria infelicità.
Mezzanotte a Parigi, sulle orme di Hemingway
Nel 2011, prima di Magic in the Moonlight, Woody Allen aveva già calcato il suolo francese con il suo film in assoluto più apprezzato e di maggior successo degli ultimi anni: Midnight in Paris, impeccabile costruzione fiabesca sul meraviglioso sfondo della capitale, che è valsa ad Allen il premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale (la quarta statuetta della sua carriera). Nella pellicola Owen Wilson presta il volto a Gil Pender, sceneggiatore hollywoodiano con l'ambizione frustrata di scrivere un grande romanzo, il quale, durante un soggiorno in Francia in compagnia della fidanzata Inez (Rachel McAdams), vede concretizzarsi il proprio sogno: vivere nella Parigi degli anni Venti, in virtù di una Peugeot Type 176 che ogni sera, a mezzanotte in punto, passa a prelevarlo per condurlo in elegantissimi locali animati dalle musiche di Cole Porter e frequentati da tutte le più grandi personalità intellettuali dell'epoca: da Francis Scott Fitzgerald e sua moglie Zelda ad Ernest Hemingway, da Gertrude Stein a Pablo Picasso, da T.S. Eliot a Djuna Barnes, oltre ai maestri del surrealismo Salvador Dalí, Man Ray e Luis Buñuel (e sarà proprio Gil a suggerire ad uno sbigottito Buñuel l'idea per la trama di uno dei suoi capolavori, L'angelo sterminatore).
In Midnight in Paris, l'elemento magico si configura pertanto come un veicolo di evasione dalla realtà per rifugiarsi in un'epoca lontana e 'mitica', che nelle fatate notti parigine si materializza attorno a Gil in perfetta aderenza con il suo immaginario. Il lucido pessimismo nei confronti del presente trova dunque un contrappunto in un passato sublimato nella sua dimensione più raffinata e seducente, simboleggiata dalla splendida Adriana (Marion Cotillard), oggetto del desiderio di Gil. Eppure, sembrerebbe volerci dire Allen, con serafica ironia, l'idealizzazione del passato, o di un qualunque altrove, non è che l'ennesima forma di autoillusione: l'impossibile tentativo di sottrarsi ad un'insoddisfazione che invece va accettata come ingrediente connaturato al nostro essere umani, e con la quale bisogna pertanto rassegnarsi a fare i conti. E lo capirà anche Gil, nel momento in cui Adriana tenterà di convincerlo che la vera "epoca d'oro" non sono i ruggenti anni Venti, bensì la Belle Epoque: "Ecco che cos'è il presente: è un po' insoddisfacente, perché la vita è un po' insoddisfacente! Semmai volessi scrivere qualcosa di valido dovrei liberarmi delle mie illusioni, e l'idea che potrei essere più felice nel passato è probabilmente una di esse". Tuttavia, mentre siamo impegnati ad "accettare il presente", il cinema può ancora offrirci la possibilità di credere nella magia... che si tratti di una breve incursione nella Parigi di un secolo fa, dell'amore appassionato per un eroe del grande schermo o del sorriso irresistibile di una deliziosa truffatrice.