Nell'autunno del 2014, quando viene messo in cantiere il progetto de La mia vita con John F. Donovan, Xavier Dolan ha solo venticinque anni ed è appena diventato l'idolo dei cinefili di mezzo pianeta grazie al successo di Mommy, premiato a Cannes e accolto come un piccolo evento dagli appassionati. Il nome del regista canadese, che fino ad allora era circolato solo nell'ambito dei festival, inizia a farsi conoscere sempre di più, e l'annuncio del suo primo film in lingua inglese genera da subito un'enorme curiosità, anche in virtù degli attori coinvolti: Jessica Chastain, Susan Sarandon, Kathy Bates e, nel ruolo del titolo, la star de Il trono di spade Kit Harington.
Nel frattempo, però, Xavier Dolan si dedica a un'altra pellicola in francese, È solo la fine del mondo, che viene distribuita nel 2016 e fa incetta di premi; nell'estate dello stesso anno Dolan gira la prima parte de La mia vita con John F. Donovan, le cui riprese saranno poi completate nella prima metà del 2017 con tutte le scene interpretate da Jacob Tremblay e Natalie Portman. Da quel momento in poi, questo film diventerà un oggetto sempre più misterioso: una post-produzione lunghissima, che porta alla completa esclusione dal montaggio dei personaggi di Jessica Chastain e Bella Thorne; la scelta di non farlo includere nel programma del Festival di Cannes 2018; e la sua presentazione, nel settembre 2018, al Festival di Toronto, che ne decreta in pratica il fallimento.
La mia vita con John F. Donovan: cronaca di un disastro annunciato?
Se un montaggio tanto complesso e travagliato costituiva già l'indizio che qualcosa, stavolta, non stava funzionando come previsto, le recensioni del film a Toronto si rivelano un autentico gioco al massacro: tutte le principali testate britanniche e americane riservano a La mia vita con John F. Donovan un'accoglienza impietosa, parlando senza mezzi termini di delusione o addirittura di disastro. L'opera che avrebbe dovuto essere il trampolino di lancio hollywoodiano di Xavier Dolan finisce così per essere inghiottita nel nulla: in America il film rimane senza distribuzione, e a salvarlo dall'oblio sono solo la Francia (dove registra trecentoquarantamila spettatori, meno di un terzo dei due titoli precedenti) e, appunto, l'Italia, dove è appena approdato nelle sale grazie a Lucky Red.
Se Dolan, oggi trentenne, non sembra essersi perso d'animo, tanto che allo scorso Festival di Cannes è tornato a riscuotere consensi con il suo ultimo lavoro, Matthias & Maxime (in autunno, invece, lo ritroveremo in veste di attore in It: Capitolo 2), La mia vita con John F. Donovan si è guadagnato la nomea di "film maledetto", la caduta rovinosa in una carriera che pareva inarrestabile. Ma è davvero così? Come evidenziato anche nella nostra recensione de La mia vita con John F. Donovan, l'esordio in inglese di Dolan è senz'altro un prodotto sbilanciato e imperfetto, in cui permangono i segni evidenti dei problemi di montaggio, ma è anche una pellicola con diverse ragioni di fascino, nonché un esperimento interessantissimo per gli estimatori del regista di Montreal: un'ideale summa del suo cinema, di cui recupera temi ed elementi costitutivi, declinati però in una chiave differente rispetto agli altri suoi film.
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Personaggi in cerca d'amore
Al cuore de La mia vita con John F. Donovan vi sono il personaggio eponimo, giovane divo in ascesa a Hollywood interpretato da Kit Harington, e l'aspirante attore Rupert Turner, che ha il volto di Jacob Tremblay: i protagonisti della segreta corrispondenza che fa da perno della trama, accompagnando le vite parallele di John e di Rupert. E il film, ricostruito interamente in analessi durante un'intervista attraverso la voce narrante del Rupert adulto (il Ben Schnetzer di Pride), si sviluppa proprio come un duplice coming of age: Rupert, preadolescente che sogna le luci della ribalta ma soffre lo sradicamento dall'America dopo il trasferimento in Gran Bretagna, e John, che pare aver trovato il proprio posto nel mondo ma fatica a sostenere il peso della fama e si sente costretto a reprimere la sua omosessualità.
L'omosessualità, non a caso un altro trait d'union fra John e Rupert, è un elemento di matrice autobiografica che Dolan aveva già inserito in molti suoi personaggi: i giovanissimi Hubert di J'ai tué ma mère e Francis de Les amours imaginaires, da lui stesso interpretati, la vivevano nell'erompere della passione; per il 'vedovo' di Tom à la ferme e il moribondo Louis di È solo la fine del mondo si trattava invece dell'elefante nella stanza, un fattore innominabile legato alla rispettiva elaborazione di una perdita. In generale, comunque, i protagonisti di Dolan vivono (e muoiono) consumati dal proprio bisogno d'amore: accade alla transessuale Laurence e alla sua compagna Fred in Laurence Anyways, così come all'incontenibile Steve di Mommy. Nel cinema di Dolan, la crescita e la ricerca dell'identità coincidono con la capacità di costruire o di rinsaldare legami affettivi, raccontati secondo i codici del dramma e del melodramma.
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Madri e figli
È il legame affettivo primario, quello che ricorre con estrema frequenza nelle opere del regista canadese: il rapporto tra madre e figlio. Seppure in modo diverso (e a partire già dal titolo), J'ai tué ma mère e Mommy sono due film basati sull'amore materno, raffigurato secondo entrambi i punti di vista in gioco e sempre con l'attrice Anne Dorval nei panni della madre di turno. Nathalie Baye, altra attrice feticcio di Dolan, è stata a sua volta una figura materna: più rigida e distaccata in Laurence Anyways, vitalistica e preda di facili entusiasmi in È solo la fine del mondo. Ne La mia vita con John F. Donovan, sia John che Rupert sperimentano una relazione conflittuale con le proprie madri, due personaggi fondamentali all'interno della narrazione.
Da una parte la Grace Donovan di Susan Sarandon, donna alcolizzata e possessiva, pronta a far leva sul senso di colpa del "figliol prodigo"; dall'altra la Sam Turner di Natalie Portman, attrice fallita che ha rinunciato alle proprie ambizioni ma non riesce ad instaurare un dialogo del tutto limpido con il suo Rupert. Non è un caso che, in un film eccessivamente didascalico e talvolta slabbrato o claudicante, le scene migliori, quelle più intense e sincere, riguardino proprio le interazioni fra queste due coppie di madri e figli: la visita di John Donovan alla casa materna, carica di malessere e di silenzioso disagio, è fra le sequenze più emozionanti e più tese della pellicola; mentre il suo ritorno conclusivo al "porto sicuro" di Grace, con quel gioioso karaoke in bagno sulle note di Hanging by a Moment dei Lifehouse, è l'ultimo raggio di luce prima che calino le tenebre.
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Un cinema al fianco dei suoi personaggi
Per chi ama il cinema di Xavier Dolan, un cinema che non ha timore dell'enfasi, dell'eccesso, della manifestazione coraggiosa e sfrenata dei sentimenti, La mia vita con John F. Donovan non dovrebbe apparire come il clamoroso fiasco decretato dalla critica a Toronto (a giudizio di chi scrive, non si tratta neanche del meno valido tra i suoi film). Di certo siamo di fronte a un'opera con vari limiti, uno dei quali consiste in un sostanziale cambiamento di rotta per il cineasta del Quebec: laddove gli altri suoi melodrammi fanno leva appunto sulle emozioni dei personaggi, portate in primissimo piano mediante le lacrime e le urla, i colori e la musica, qui Dolan indugia fin troppo nel voler 'spiegare' tali emozioni, come se in qualche modo fosse venuta meno la sua fiducia verso la percezione e la sensibilità degli spettatori.
La dimensione più intima e autobiografica, a cominciare dal carteggio fra John e Rupert (ispirato a una lettera scritta da Xavier bambino a Leonardo DiCaprio), si intreccia con l'affresco dello show business e dei suoi crudeli meccanismi: un tema che Dolan affronta qui per la prima volta, e con un approccio che non evita del tutto certi stereotipi del caso. Eppure, a dispetto di soluzioni un po' forzate e di passaggi meno convincenti, La mia vita con John F. Donovan conserva una qualità innegabile: è un film personale, in cui Dolan non fa mai venir meno l'empatia - profondissima, struggente - per i suoi protagonisti e per il loro universo interiore. In cui il giudizio sulle scelte e gli errori viene messo da parte per dar voce, ancora una volta, ai moti del cuore e ai turbamenti dell'animo, con un senso di vicinanza e di immedesimazione scevro di intellettualismi e che, nella sua disarmante onestà, ha davvero pochi eguali nel cinema contemporaneo.