No, Indiana Jones e il quadrante del destino (qui la nostra recensione) non è il disastro paventato da molti. È però un film diverso dai precedenti della saga, fuori dal suo tempo prediletto e immerso in un mondo che sembra non doversene o volersene più fare nulla del Dottor Henry Jones Jr. Ambientato in uno degli anni crocevia della storia dell'uomo, foriero di "grandi passi" e cambiamenti radicali nell'arte e nella società, il quinto capitolo del franchise è figlio dei nostri giorni e di un modo di intendere il cinema mainstream che cerca di unire passato e presente come un ponte concettuale meta-cinematografico.
Risulta subito chiaro che ciò che è stato non ritornerà, aprendo a una più ampia riflessione sul valore del tempo in chiave narrativa ed esistenziale: come un racconto irripetibile o un vita che cresce e muta, impossibile da arrestare. Prima un assaggio delle gloriose avventure, poi la conferma che il tempo trasforma ogni cosa e che ammorbidisce anche l'anima più coraggiosa e irresponsabile, lasciandola ai suoi demoni. È proprio in questa inedita visione di Indy che è però rintracciabile il valore drammaturgico e narratologico più interessate dell'operazione, e nella mano di James Mangold la capacità di non tradire l'anima più vera del personaggio e della saga nonostante la grande assenza di Steven Spielberg.
Dentro l'icona
L'immagine di Indiana Jones è una delle più nitide del cinema contemporaneo. Armato di frusta e cappello, coraggioso e sempre pronto a rincorrere e ripercorrere la storia attraverso l'archeologia tra cattedra e azione sul campo, il personaggio di Harrison Ford ha plasmato nel vivo il modo d'intendere l'avventura in senso multi-mediatico, amato e imitato in più di 40 anni di storia del grande schermo. Ha formato in senso pop stuoli di appassionati, divenendo iconico grazie al carisma iniettato direttamente nell'anima di Indy dalla fisicità e dall'espressività di Ford, a cui il franchise è legato a doppia corda. Non può esistere Indiana Jones senza Harrison Ford, motivo per cui la saga evolve di pari passo con l'attore, invecchiando insieme a lui senza volontà di re-interpretare se stessa nonostante innesti di modernità cinematografica che infatti appaiono a volte fuori contesto, sia nel Regno del Teschio di Cristallo che ne Il Quadrante del Destino. Finora è stata però la mano di Steven Spielberg a indirizzare forma e struttura del franchise, benedetta da una miracolata visione dell'avventura che ha persino saputo mediare tra i generi, unendola a sfumature di fantastico e ad alcune tracce horror, per tacere poi delle costanti infiltrazioni commediate.
È stato Spielberg a capire come inquadrare Harrison Ford per nobilitarne il profilo estetico e interpretativo, ed è sempre merito del regista quel senso di epicità che trasuda da ogni film, ognuno diverso dall'altro ma comunque riconoscibile dalla firma d'autore, dallo "sguardo à la Spielberg", dai puliti campi e controcampi, dall'azione mai esasperata e leggibile, comunque correlata alla narrazione in toni e ossatura, quasi fosse tipicizzata per la stessa, in un profondo contesto di personalizzazione e funzionalità. Se è allora vero che non può esistere Indiana Jones senza Ford, dovrebbe valere lo stesso rapporto tra opera e Maestro, soprattutto considerando il peso effettivo del contributo spielbergiano, eppure Il quadrante del destino sembra dimostrare che un'altra via è possibile nonostante la marcata assenza di Spielberg.
Indiana Jones e il quadrante del destino: le opinioni della redazione
Ottuagenario in azione
La via è ovviamente quella di James Mangold, capace (o costretto) a una grande riverenza nei confronti del predecessore ma anche di rispettare i canoni del suo cinema più apprezzato, creando così la sua visione di Indiana Jones. Da Quando l'amore brucia l'anima - Walk the Line al sorprendente Logan - The Wolverine, ma anche pensando al bellissimo Le Mans '66 - La grande sfida, la filmografia del regista si è sempre interrogata sul ruolo dei suoi personaggi all'interno delle relative storie, su quanto fossero o meno fuori o dentro il loro tempo, per altro focalizzandosi su vere e proprie icone della musica, dei fumetti o dello sport. A suo modo, Mangold ha sempre plasmato degli emblemi secondo un suo preciso ideale cinematografico, dal taglio romantico e dedicato al viale del tramonto dell'eroe senza risultare mai retorico, anzi avvincente, emozionante, concettualmente centrato. Guardando allora all'inossidabile legame tra Ford e la saga, a quei canoni che l'hanno resa conosciuta e immortale ma anche a un suo preciso sguardo autoriale sul personaggio, il regista è riuscito a superare in chiave personale l'eccellenza di Spielberg senza però reinventare nulla, concentrandosi non sulla forma o la novità cinematografica ma direttamente sul concetto, provando qualcosa d'inedito in termini di approccio al personaggio e utilizzo di Ford.
Il risultato è un'avventura pop in un cinema mainstream un po' scombussolato dove il fulcro narrativo è sia il confronto generazionale (dove Phoebe Waller-Bridge rappresenta il nuovo che avanza) che una riflessione tanto dialettica quanto meta-cinematografica sullo Spazio in relazione al Tempo, dove il primo è conquistabile e il secondo impossibile da imbrigliare. Ha allora ancora più senso costruire un intero lungometraggio sulla fisicità ed espressività di Harrison Ford, senza privarlo del suo tempo e delle sue ferite, gettando un ottuagenario in azione con la consapevolezza dei suoi acciacchi e dei propri demoni, lasciandogli rincorrere la Storia un'ultima volta anche fuori dalla sua ora, che è passata e non tornerà più. Frusta, cappello e camicia sono reperti della vecchia gloria e l'archeologo diventa a sua volta qualcosa di antico, da dissotterrare e tornare a studiare. Pieno di crepe e impolverato, certo, ma sempre con un suo valore e soprattutto qualcosa da raccontare.