Recensione La casa dalle finestre che ridono (1976)

Un tranquillo paesino della bassa padana con il solito ubriacone e il solito scemo del villaggio. Un pittore di agonie che lascia uno strano indizio in un affresco chiesastico. Uno dei primi film girati da Pupi Avati è il trionfo dell'autarchia cinematografica e del cinema horror italiano.

Grana rosso padano

Niente balere e niente liscio per l'Emilia Romagna tratteggiata da Pupi Avati con La casa dalle finestre che ridono. Film dal costo irrisorio (120 milioni delle vecchie lire), girato in cinque settimane con una troupe di sole dodici persone (per gli interpreti occorre ricordare, insieme alla prestazione appena sufficiente del protagonista (un Lino Capolicchio che addirittura risultò papabile per il ruolo in seguito assegnato a David Hemmings in Profondo rosso) la straordinaria performance di Gianni Cavina, indisponente, eccessivo, come poche altre volte nella sua carriera. Originariamente la pellicola di Avati doveva essere girata negli USA con il titolo Blood Relation - Relazione di sangue. Possibilità di successo: ovviamente zero. Un copione che rimase per ben cinque anni nel cassetto, fino a quando capitò tra le mani di Maurizio Costanzo (si, proprio lui, il baffuto e paffuto dominatore dell'attuale TV italiana) e quelle di Gianni Cavina, che lo rimaneggiarono dopo il flop che il regista bolognese subì con Bordella. Invece, come spesso è accaduto nel cinema, basta poco per sovvertire le previsioni scontate, positive o negative che siano.

La casa dalle finestre che ridono (che presenta, tra le altre cose, titoli di testa di rara suggestione orrorifica) è, insieme ai primi inimitabili film di Dario Argento e a qualche sporadica opera di Lucio Fulci, uno dei più grandi film horror che il cinema italiano ricordi dopo i successi mietuti (soprattutto all'estero) da Mario Bava. L'atmosfera di provincia è delineata da Avati (memore in questo caso dei racconti gotici uditi in gioventù, fra cui la vera storia del "prete donna" che un ruolo fondamentale ricoprirà nel finale) con piglio stranito e con una calma che nella sua irrealtà già nasconde qualcosa. Gli abitanti nascondono qualcosa. La chiesa nasconde qualcosa. E qualcosa di più nasconderà fino alla conclusione. Se non fosse per un artista, un pittore di agonie, che grazie alla sua diversità ha lasciato una "traccia" indelebile per scardinare pian pianino il bozzolo di iniquità e di omertà che avvolge il paesino della bassa padana (quasi una propaggine delirante degli scenari nebbiosi e non meno suadenti scelti da Michelangelo Antonioni per Deserto rosso). Un luogo dove nulla sembra accadere, semplicemente perché il meccanismo di follia si è già messo in moto e nessuno riuscirà più a fermarlo. Fino almeno all'arrivo di Stefano, incaricato di restaurare proprio l'inquietante affresco di Buono Legnano, nascondiglio insospettabile (proprio come il muro della villa abbandonata di Profondo Rosso o come il solaio di The ring) per un universo parallelo corrotto, pregno di sofferenza e di morte.

Inizia così il viaggio allucinante del giovane restauratore alla ricerca della verità, tra morti sospette, amori, brividi raggelanti ed un finale che definire sorprendente è puro eufemismo. Avati con La casa dalle finestre che ridono (ma anche con uno dei suoi successivi film, quello Zeder che molti hanno additato come possibile modello per il libro Cimitero vivente di Stephen King non esita a dimostrare tutta la sua dimestichezza nei film di genere, con omaggi quasi dichiarati (la serie di pugnalate inferte al corpo di Lidio, non può che ricordare il rapido montaggio hitchcockiano della scena sotto la doccia di Psycho) e l'impiego di tecniche tipiche dell'horror più classico (lo zoom à la Mario Bava con cui il regista emiliano immortala il cadavere di Francesca; le telefonate misteriose; i cancelli, le porte e le finestre che scricchiolano (spesso senza motivo); il dominio assoluto dello spazio scenico, indagato in lungo e in largo senza neanche un eccessivo ricorso alla suggestione delle diverse grandezze scalari; la soggettiva di Stefano distorta per effetto delle ferite riportate).

Tutto scontato? Neanche per idea. Il controllo sulla sceneggiatura è perfetto e il ritmo interno è scandito inesorabilmente, senza farneticanti sproloqui visivi. La colonna sonora (realizzata da Amedeo Tommasi) presenta due temi semplici semplici ma efficacissimi. La tensione è sempre alta, anzi, cresce di sequenza in sequenza, fino alla sconvolgente conclusione.

Avati, in più di un'intervista, ha ricordato che qualcuno a Torino durante la prima proiezione del film rise a crepapelle. A noi sembra, però, che in questo film a sorridere siano soltanto quelle angoscianti finestre (disegnate "artigianalmente" dal fratello del regista), testimoni di un orrore senza fine. Sono sorrisi che celano agonie, rituali inconcepibili e morti atroci. Sono altresì finestre che, una volta dischiuse, rivelano al pubblico cinefilo un horror cult del cinema italiano di indiscutibile importanza.