Si apre così: una casa, un albero, un uomo, una pala, un tramonto, ombre che si stagliano all'orizzonte. Si chiude così: una casa, un albero, un uomo, una lapide, un tramonto, ombre che si stagliano all'orizzonte. Gli spietati inizia e finisce con la stessa inquadratura, con lo stesso panorama. Però c'è una differenza, solo un dettaglio sostanziale: l'uomo, durante l'epilogo, non scava più, ma è fermo a contemplare una lapide. Ecco, quella lapide non è solo il ricordo di una moglie perduta, ma il simbolo di un film intero, perché per molti Gli spietati è un gran funerale, un addio ad un intero genere, l'ultimo saluto al western. Celebrato da un Clint Eastwood ispessito, inaridito e segnato come non mai, il funereo Gli spietati arriva nei cinema americani esattamente 25 anni fa, il 7 agosto del 1992, due anni dopo il grande successo di quel Balla coi lupi capace di ridestare interesse su un genere ormai stanco e dimenticato. Laddove Kevin Costner costruisce, glorifica, alimenta epica, Eastwood distrugge, inabissa, demistifica. Non è più tempo di eroi infallibili, di mire perfette e personaggi inscalfibili. l western forse è giunto al tramonto, proprio come il suo Will Munny, ex fuorilegge violento e alcolizzato che riprova a rimettersi in sella dentro un mondo balordo, abitato da gente balorda. Vincitore di quattro Premi Oscar (Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attore Non Protagonista a Gene Hackman e Miglior Montaggio), Gli spietati nasce dopo una lunga gestazione: dopo la rinuncia di Francis Ford Coppola, Eastwood acquista i diritti di un soggetto scritto negli anni Settanta da David Webb Peoples (già sceneggiatore di Blade Runner),
Succede tutto nel 1983, ma Clint aspetterà quasi dieci anni prima di girare il suo saluto al western. Doveva essere pronto, doveva ancora arrivare il tempo giusto. Il tempo che non solo non ha più bisogno di eroi, ma non li ammette più. Come spesso capita, l'anima autentica di questo film impregnato di cinismo si trova nel suo titolo originale, che non scomoda uomini spietati, ma parla di uomini "senza perdono" (Unforgiven). È un perdono che non si concede e che non si ottiene. A nessuno e da nessuno. Perché non basta l'aria fresca che soffia su una prateria isolata per dimenticare tutto il sangue, gli errori, l'odio, le donne e i bambini ammazzati. E se non si dimentica, non resta che ricordare Gli spietati, un film dove il cielo racconta del tramonto dei cowboy prima del crepuscolo del western.
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Se questo è un cowboy
1880, Montana. Da quelle parti è una stagione di vacche magre per la virilità, perché non è più tempo di uomini tutto d'un pezzo. Così capita che una prostituta derida un cliente per la sua scarsità di attributi. Lui, vile come pochi, la picchia e la sfregia fino sfigurarla. Le prostitute, sbalordite dalla mancata punizione esemplare dello sceriffo Daggett, uniscono le forze per vendicarsi, così mettono una taglia sull'aggressore e sul suo compare. L'eco vendicativo fa presto il giro delle praterie e arriva all'orecchio di un uomo lontano da tutti e tutti, perso nel suo esilio personale. Vedovo con due figli a carico, Will Munny sguazza (letteralmente) nel suo porcile e nei suoi rimpianti, almeno sino a quando la proposta allettante arriva alle sue orecchie stanche come tutto il resto del corpo. La motivazione che smuove i personaggi de Gli spietati dice tanto degli uomini e delle donne che lo abitano.
E se persino le vittime di turno (le prostitute) ci appaiono colpevoli quando sputano addosso alle scuse dei due aggressori, l'uomo con la pistola e con il cappello, il grande eroe di frontiera, il mitico cowboy viene totalmente disarcionato da Eastwood. Il suo Munny incarna il tramonto di un'icona storica; lontano anni luce dai fasti degli abili pistoleri del classici western, Will è vecchio, fuori allenamento, incapace di montare a cavallo e con una pessima mira. Attraverso la figura del suo dolente protagonista, Gli spietati destruttura e demistifica l'epica degli eroi di frontiera, affossandoli dentro una fanghiglia che non si toglie più via di dosso. Tant'è che persino i classici e nobili duelli di un tempo diventano infattibili. Qui non ci sono paesaggi assolati in cui affrontarsi tra uomini d'onore, ma balordi che si sparano all'improvviso nel buio di una pioggia incessante.
È una cosa grossa uccidere un uomo: gli levi tutto quello che ha. E tutto quello che sperava di avere
Il buono è il brutto, è il cattivo
Dimenticate gli stereotipi rassicuranti, le incarnazioni dicotomiche che scindono i buoni dai cattivi. Il messaggio di Eastwood sembra proprio questo. Il suo Far West è grigio come il cuore dei suoi personaggi imprevedibili e contraddittori. Succede al Ned Logan di Morgan Freeman che prima sente la mancanza di sua moglie e poi va a letto con una prostituta, succede allo sfuggente sceriffo Daggett, che non punisce due aggressori e poi umilia pubblicamente Bob l'inglese per dimostrare agli altri chi comanda. Quello de Gli Spietati è un panorama umano imbastardito, senza pietà, pieno di mercenari, persone senza un senso universale di giustizia, di moralità e di etica. Qualcosa che oggi, abituati a serie complesse e stratificate come Il trono di spade, può sembrare banale, ma che raccontato venticinque anni fa dentro un genere codificato e scultoreo con il western diventa qualcosa di provocatorio e assai significativo.
Il western in sella al western
Un western sul western. Questo è Gli spietati. Un film d'autore in cui il regista e il protagonista coincidono, dando voce alla carriera e allo sguardo disincantato di Clint Eastwood, ovvero colui che ha basato la sua intera carriera su uomini duri, armati di pistole dal mirino facile quanto infallibile. Lui, che al western deve tanto, che di quella mitologia di frontiera piena di personaggi emblematici si è alimentato per anni, decide di congedarsi da un genere storico rivelandone l'inattualità. Quei canoni, quei personaggi, quei messaggi semplici e netti, vengono rimischiati dentro un'opera sporca, dentro cui è difficile orientarsi con chiarezza. Esistono tanti film con un approccio metatestuale (pensiamo ai recenti La La Land che ha raccontato la fine del muscial o Logan - The Wolverine che ci ha parlato della stanchezza dei cinecomic), ma Gli Spietati è legato a doppio filo col metacinema, proprio per via di Eastwood e del suo congedo personale dal suo western attraverso un ultimo, sentito canto del cigno. La firma finale, lapide a parte, è tutta lì, in quella dedica esplicita che appare alla fine: "A Sergio e Don". Leone e Siegel, due maestri che hanno reso Eastwood l'icona che è.
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Di storie e leggende
"Sono stanco dei miti poco credibili". Clint Eastwood rilascia questa dichiarazione e rende manifesta la sua volontà di sabotare le grandi narrazioni cinematografiche, storie epiche di cui il western è certamente uno dei veicoli migliori. Anche in questo caso Eastwood inserisce nel film un personaggio in apparenza secondario, ma il cui peso specifico all'interno del messaggio finale diventa essenziale: il biografo. Sappiamo bene che nel Far West ogni uomo si rispecchia nelle leggende e nei miti che lo precedono, nella fama in cui gli altri ne riconoscono gesta, carattere e imprese. Bene, ne Gli spietati non solo ogni personaggio si racconta attraverso il suo passato (pensiamo agli insistiti riferimenti alla moglie defunta di Will), ma la presenza del biografo personale di Bob "l'inglese" è lo strumento utile a ridimensionare la credibilità e le veridicità di certi grandi racconti. Il modo beffardo con cui lo sceriffo di Gene Hackman (che scambia la parola "barone" con "baro") ridicolizza la biografia di Bob l'inglese è pura dinamite posta alla base dei grandi racconti. A volte le storie esagerano, sono piene di lirismo, di esasperazioni, di miti fini a se stessi. Il buon Clint è qui a dirci che, a volte, quella grande menzogna può persino essere un film.