Quello di Steve McQueen si è rivelato, fin dagli esordi, un cinema dal taglio oggettivo ma al tempo stesso dall'impatto viscerale; tanto potente e radicale, nella sua necessità di un realismo volto a scandagliare gli abissi più reconditi dell'animo umano, quanto abbacinante nella messa in scena (nonostante l'apparente controsenso), in grado di sprigionare una tensione davvero singolare. Al regista e sceneggiatore afro-britannico, nato a Londra il 9 ottobre 1969 e con una dozzina di cortometraggi realizzati fra il 1993 e il 2009, sono bastati appena tre film per essere convalidato fra i maggiori cineasti degli ultimi anni e per ricevere il plauso pressoché unanime della critica, grazie ad uno stile peculiare miracolosamente sospeso fra un rigore quasi bressoniano ed un temperato estetismo, ben coadiuvato dalla fotografia del suo fedele collaboratore Sean Bobbitt.
Ma un altro elemento fondamentale, nella produzione ristretta ma già densissima dell'ex video-artista passato con successo nel campo della settima arte, è rappresentato dallo stretto sodalizio con l'attore tedesco naturalizzato irlandese Michael Fassbender, che a 36 anni è ormai uno dei divi più quotati del panorama hollywoodiano. Un sodalizio che ha contribuito in misura essenziale sia alla consacrazione registica di McQueen, sia alla popolarità in inarrestabile crescita di Fassbender, coronata il mese scorso con la prima candidatura all'Oscar della sua carriera.
Michael Fassbender: gli esordi fra Spielberg, Ozon e Tarantino
Prima dell'incontro con McQueen, Fassbender aveva debuttato come attore impersonando il ruolo di Burton "Pat" Christenson, sergente dell'esercito statunitense, in Band of Brothers, colossale miniserie della HBO in dieci episodi sulla Seconda Guerra Mondiale, prodotta nel 2001 da Steven Spielberg e diventata uno dei fenomeni televisivi dello scorso decennio. Al cinema, invece, l'esordio ufficiale dell'attore tedesco-irlandese risale al 2007, nella parte di un soldato spartano nel film 300 di Zack Snyder, ma soprattutto con un ruolo da co-protagonista al fianco della giovane Romola Garai in Angel - La vita, il romanzo, raffinato melodramma in costume diretto da François Ozon, cineasta che per primo ha saputo valorizzare lo charme di Fassbender nei panni di un elegante seduttore. Una singolare carica erotica, quella dell'attore nato a Heidelberg, pienamente messa a frutto dalla regista Andrea Arnold in Fish Tank (Premio della Giuria al Festival di Cannes 2009), in cui un Fassbender di conturbante virilità incarnava lo sfrontato oggetto del desiderio di una madre single trentenne (Kierston Wareing) e della figlia appena adolescente (Katie Jarvis), in un pericoloso gioco di attrazioni incrociate. Sempre nel 2009, Fassbender riceveva ulteriore visibilità internazionale nei panni di un ufficiale infiltrato in territorio nemico nel variegato cast di Bastardi senza gloria, postmoderna e gustosissima rivisitazione della Seconda Guerra Mondiale ad opera di Quentin Tarantino.
La fame, il dolore: gli ultimi giorni di Bobby Sands
Intanto, il 2008 segnava la prima collaborazione tra Michael Fassbender e Steve McQueen, con un progetto che avrebbe messo subito in luce il talento del regista inglese e la straordinaria intensità del suo protagonista: Hunger. Premiato con la Caméra d'Or al Festival di Cannes, lo European Film Award per il miglior regista esordiente ed il BAFTA per la miglior opera prima, Hunger è basato sulla vera storia di Bobby Sands, attivista dell'IRA condannato nel 1977 e rinchiuso nel carcere di Long Kesh, nell'Irlanda del Nord, dove nel 1981 iniziò uno sciopero della fame per rivendicare il riconoscimento dello status di prigionieri politici per i membri dell'IRA.
Eletto al Parlamento del Regno Unito nell'aprile di quello stesso anno, Sands morì in carcere il 5 maggio, a 27 anni d'età, dopo 66 giorni di sciopero della fame, suscitando reazioni sdegnate in tutto il mondo. Nel suo film, McQueen ricostruisce gli ultimi mesi della drammatica esistenza di Sands, ponendo già in evidenza le linee guida della propria poetica cinematografica: una narrazione asciutta, di scioccante durezza, lontanissima dalle convenzioni hollywoodiane. Il regista, co-autore della sceneggiatura insieme a Enda Walsh, rifugge qualunque didascalismo, evita le trappole della spettacolarizzazione e dell'enfasi e mantiene una prospettiva quanto più possibile lucida e oggettiva: anche quando si tratta di mostrare le disarmanti violenze inflitte dai secondini, o di esplorare fino in fondo la sofferenza del protagonista. In questo senso, il lavoro svolto da Michael Fassbender assume un'importanza imprescindibile: il volto scavato, il fisico solitamente atletico qui smagrito in maniera impressionante, lo sguardo fiero e determinato, a dispetto della fragilità del corpo. Quella di Fassbender è una prova estrema, in cui l'attore tedesco si trova a mettere in gioco tutto se stesso: il suo corpo denudato, offeso, ridotto a poco più di uno scheletro, costituisce l'espressione tangibile del massimo stato di degradazione inflitta ad un essere umano.Shame: erotismo e vergogna
Il 2011 è l'anno che sancisce la definitiva ascesa di Michael Fassbender fra i grandi attori della sua generazione, grazie a una serie di progetti molto differenti fra loro che gli permettono di sfruttare tutta la sua versatilità: dal romantico e tenebroso Edward Rochester di Jane Eyre, nuova trasposizione del classico di Charlotte Brontë da parte del regista Cary Fukunaga, accanto alla giovane Mia Wasikowska, al gelido Magneto, lo spietato villain del cine-comic X-Men: L'inizio, basato sulle avventure dei supereroi mutanti dei fumetti Marvel. Nel frattempo c'è spazio anche per A Dangerous Method, torbido intreccio di passioni e desideri inconfessabili realizzato da un maestro del calibro di David Cronenberg da un dramma di Christopher Hampton; e Fassbender, al fianco di Keira Knightley e Viggo Mortensen, assume un'inedita aria intellettuale per calarsi nel ruolo di Carl Gustav Jung, discepolo di Sigmund Freud. Ma il 2011 è anche e soprattutto l'anno di Shame, secondo capitolo del fortunato sodalizio con Steve McQueen, accolto dall'entusiasmo della critica al Festival di Venezia, dove Fassbender si aggiudica la Coppa Volpi come miglior attore (mentre al film viene attribuito il premio FIPRESCI). Una pellicola che conferma appieno l'itinerario intrapreso da McQueen con il precedente Hunger: un cinema materiale, corporeo, saldamente attaccato alla realtà.E non è un caso che, ancora una volta, sia proprio il corpo di Michael Fassbender il principale fulcro di attenzione della macchina da presa: fin dalle primissime sequenze, quando osserviamo il protagonista, Brandon Sullivan, fra le lenzuola del suo letto, in preda ai postumi della propria dipendenza patologica dal sesso, o mentre percorre completamente nudo le stanze del suo appartamento newyorkese, con passo deciso e volto impenetrabile. Una freddezza, quella del Brandon di Michael Fassbender, dietro cui si cela una disperata fragilità: la coscienza di una debolezza in grado di trascinarlo verso abissi di abiezione in cui il piacere erotico sembra amalgamarsi con un silenzioso tormento. Un tormento pronto a venire a galla dal giorno in cui la vita di Brandon torna a collidere con quella della sorella Sissy (Carey Mulligan), ragazza volubile e malinconica, in grado di stravolgere la routine dell'uomo, ma anche di commuoverlo fino alle lacrime con la sua struggente interpretazione del brano New York, New York.
L'odissea di Solomon Northup
Il vortice di autodistruzione di Brandon e Sissy, l'ostinazione con la quale l'uomo affonda tutto se stesso in una dipendenza divorante e senza via d'uscita, in un'estasi di godimento ed umiliazione, divengono i tratti distintivi di un film ammirevole per il coraggio con il quale sa immergere lo spettatore nell'universo malato, allo stesso tempo affascinante e repellente, del suo protagonista.