Recensione La solitudine dei numeri primi (2010)

La solitudine dei numeri primi è un film estremo. O lo si ama o lo si odia, ma se c'è un aspetto che non possiamo mettere in discussione questo riguarda l'abilità registica di Saverio Costanzo.

Collisione di corpi e solitudini

I numeri primi sono numeri divisibili solo per uno e per se stessi e, in quanto tali, condannati alla solitudine. Quando due numeri primi si incontrano e tentano di fondersi l'esito non può che essere imprevedibile. Difficile stabilire quanto la fascinazione delle cifre e delle loro proprietà abbia influito sul regista Saverio Costanzo convincendolo ad adattare il romanzo d'esordio di Paolo Giordano. Probabilmente la spinta decisiva è giunta sull'onda del numero di copie vendute dal libro, trasformatosi rapidamente in best seller, ma poco importa visto che, nonostante la presenza dello stesso Giordano come co-sceneggiatore, il film diretto da Costanzo riesce ad affrancarsi dal romanzo trasformandosi in qualcosa di sostanzialmente diverso. Mantenendo inalterati gli eventi cardine della storia, il regista stravolge l'ordine della diegesi optando per una narrazione frammentaria che, nella prima parte del film, procede per flashback ed ellissi. A supporto dello spettatore vengono utilizzate scritte in sovraimpressione che indicano l'anno in cui si svolgono i fatti, aiutando a fare ordine tra passato e presente.

Il cambiamento sostanziale rispetto al romanzo di Giordano non riguarda, però, tanto la temporalità quanto la modalità di narrazione usata per ricostruire le drammatiche esistenze di Alice e Mattia, numeri primi condannati alla diversità a seguito di eventi tragici che ne hanno segnato l'infanzia. Abbandonato lo stile documentaristico da cinema vérité utilizzato nel crudo Private, Saverio Costanzo si immerge nel mondo dell'orrore, dell'artificio e della teatralità realizzando una pellicola antinaturalistica, che fa una scelta di campo netta bandendo ogni sfumatura. La solitudine dei numeri primi è un film estremo. O lo si ama o lo si odia, ma se c'è un aspetto che non viene messo in discussione questa è l'abilità registica di Costanzo. Forte della lezione del Sorrentino più espressionista e barocco, il regista attinge a piene mani agli stilemi dell'horror facendo largo uso di angolazioni atipiche, colori cupi e carichi, stacchi netti e commenti sonori ad hoc che amplificano il senso di orrore crescente. La location torinese e l'utilizzo di musiche simbolo (l'inedito dei Goblin che apre il film, i cori composti da Morricone per L'uccello dalle piume di cristallo) chiamano in causa in più di un'occasione il maestro Dario Argento.
Anche lo sforzo interpretativo imposto ai due protagonisti, gli intensi Alba Rohrwacher e Luca Marinelli, chiamati a plasmare i propri corpi in funzione dei problematici personaggi, va in questa stessa direzione. La cinepresa di Saverio Costanzo indugia senza pietà sulla gamba martoriata dell'Alice adolescente, ripercorre la schiena ossuta e le vertebre in rilievo dell'Alice adulta o sfiora i tagli autoinferti sul braccio del piccolo Mattia. Teatrale e pudico al tempo stesso, Costanzo sfrutta il legame voyeristico tra obiettivo e attori facendo, però, un passo indietro quando si tratta di speculare morbosamente sugli episodi più cruenti del romanzo, ampiamente descritti da Giordano con dovizia di particolari, che qui vengono evocati con pochi essenziali tratti. Al pubblico il compito di colmare i vuoti, di lasciarsi avvolgere dall'orrore evocato da Costanzo. Dall'orrore della solitudine.

Movieplayer.it

3.0/5