Nel 2010, Natasha Romanoff esordiva sul grande schermo al fianco di Tony Stark, e nel 2019, come lui, si è sacrificata per salvare la realtà stessa dal perfido Thanos, che intendeva riscriverla con le Gemme dell'Infinito. A due anni da quella dipartita, Romanoff torna al cinema - e in contemporanea su Disney+ con la formula Premier Access, che dà modo di vedere il film pagando un sovrapprezzo - in Black Widow, un prequel che racconta le gesta dell'ex-spia russa al fianco della "sorella" Yelena Belova, destinata a diventare uno dei nuovi volti del Marvel Cinematic Universe. Al netto delle reazioni per lo più positive, molti si sono chiesti, inevitabilmente: perché il film in solitario di Natasha esce solo ora? Perché non l'abbiamo visto già cinque-sei anni fa, dopo il successo del primo capitolo degli Avengers? La risposta è complessa, e inizia in parte prima ancora che esistesse l'attuale franchise cinematografico della Casa delle Idee, quando i diritti dei singoli personaggi erano in mano a diversi studios.
Primi passi
Il primo tentativo serio di realizzare un film su Natasha Romanoff risale al 2004, quando la LionsGate (che successivamente ha distribuito negli Stati Uniti Punisher - Zona di guerra) ha acquistato i diritti del personaggio con l'intenzione di rendere il lungometraggio l'esordio registico di David Hayter, già sceneggiatore del primo X-Men. Problemi interni hanno portato all'annullamento del progetto e alla restituzione dei diritti alla Marvel nel 2006, proprio quando la Casa delle Idee stava iniziando a pianificare l'universo espanso prodotto in proprio, usando i personaggi che nessun altro aveva voluto o saputo utilizzare (tra cui Iron Man, Captain America, Thor, Hulk, Black Widow e Hawkeye, scelti per diventare la prima formazione cinematografica degli Avengers). Già nel 2010, dopo aver introdotto il personaggio in Iron Man 2, si è ricominciato a parlare di un film tutto suo, e la popolarità crescente di Natasha nei film successivi ha portato a una modifica del contratto di Scarlett Johansson, alterando il numero di lungometraggi a cui doveva teoricamente partecipare per contratto. C'era solo un ostacolo da superare...
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Lotte di potere
Quando si pensa ai Marvel Studios, intesi come entità produttiva, il primo nome che viene in mente è solitamente quello di Kevin Feige, l'appassionato di fumetti divenuto produttore e poi responsabile dell'intera macchina cinematografica Marvel dopo la gavetta come assistente sul set del primo film degli X-Men. In realtà, però, per l'intera durata delle prime due Fasi del Marvel Cinematic Universe egli rispondeva ad Ike Perlmutter, il boss della Marvel Entertainment in generale, che dettava legge soprattutto sui budget ma era anche a capo del famigerato comitato creativo che ha creato tante rogne ad alcuni registi del MCU.
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Attento in particolare al merchandising, e convinto che il pubblico femminile non si interessasse a prodotti derivati come le action figures, Perlmutter era assolutamente contrario all'idea di un film Marvel al femminile, adducendo come motivazione gli incassi disastrosi di Catwoman ed Elektra (ma senza chiedersi come mai quei lungometraggi non avessero funzionato). La sua influenza nefasta ha raggiunto l'apice con Iron Man 3, stando a quanto dichiarato recentemente da Shane Black: inizialmente Maya Hansen, interpretata da Rebecca Hall, doveva essere l'antagonista principale, ma dal quartier generale a New York arrivò il veto, perché ciò avrebbe influito negativamente sul merchandising.
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Si rumoreggia persino che nel 2014, per convincere Perlmutter ad approvare due progetti di cui proprio non voleva sapere (Black Panther e Captain Marvel), Feige abbia accettato di inserire nella scaletta di lavorazione il film sugli Inumani, successivamente cancellato una volta modificato l'equilibrio di potere. Modifica avvenuta grazie a Captain America: Civil War, e per l'esattezza il cachet di Robert Downey Jr. (che per contratto aveva diritto a una non indifferente percentuale sugli incassi): Perlmutter chiese di far ridurre la sua parte, se non addirittura eliminarla del tutto, per risparmiare, al che Feige si è rivolto direttamente ad Alan Horn, responsabile dell'intero ramo cinematografico della Disney, per avere la tanto agognata indipendenza. Detto, fatto: Perlmutter è ancora legato alla Marvel, e fino allo scorso anno continuava a gestire il ramo televisivo, ma non ha più la possibilità di mettere becco nelle decisioni dei Marvel Studios. Il tutto grazie a un film a cui, guarda caso, Black Widow si ricollega cronologicamente.
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Il momento giusto
Al netto di questi fattori complicanti, si può anche dire che il film sia stato realizzato con le tempistiche giuste, almeno per quanto riguarda una scelta di casting: dieci anni fa sarebbe stato impossibile affidare il ruolo di Yelena Belova a Florence Pugh, uno dei motivi migliori per vedere il lungometraggio e una delle nuove stelle in ascesa all'interno del franchise (come già annunciato, la rivedremo a breve su Disney+ nella miniserie Hawkeye). E a livello narrativo ha anche senso che si sia arrivati ora a raccontare il passato di Natasha: finita la storia del suo rapporto con quella che lei definiva la propria famiglia, conclusasi con il sacrificio in Avengers: Endgame, era il momento di introdurre l'altra famiglia, altrettanto "artificiale" (Natasha non ha mai conosciuto i genitori biologici) ma non per questo meno vera. Una famiglia con cui dare il via nel modo giusto alla Fase Quattro, ritornando indietro per aprire nuove porte verso il futuro del franchise.