Non è certo una novità che Hollywood (e non solo) riproponga in una nuova veste pellicole che hanno avuto un particolare riscontro di pubblico o che occupano un posto importante nella storia della Settima Arte. Il remake è una pratica vecchia quanto il cinema, e demonizzarlo è certo una sciocchezza, una delle più grosse che una persona che pretende di analizzare seriamente quest'arte possa commettere. Il cinema nasce come industria, prima che come forma d'espressione artistica, e il riciclaggio di idee e concetti altrui (o propri) è sicuramente una delle pratiche comuni di chi l'industria la "fa". Eppure, l'ondata senza precedenti di rifacimenti che hanno invaso, e continuano ad invadere, le sale cinematografiche da qualche anno a questa parte impone una riflessione. E' davvero solo la mancanza di idee il problema? La crisi creativa degli sceneggiatori hollywoodiani, da sola, può davvero indurre i produttori a puntare su idee già collaudate, rivelatesi vincenti a loro tempo? Non può essere tutto qui. Ma vediamo di andare con ordine.
I remake che negli ultimi anni si sono affacciati (e continuano ad affacciarsi) sui nostri schermi si dividono principalmente in due categorie. Da una parte ci sono i rifacimenti di film recenti, provenienti da cinematografie lontane o poco conosciute, che la distribuzione americana non ha saputo, o voluto, rendere degnamente visibili. A questo gruppo appartengono film come Vanilla Sky (che ripropone il soggetto dell'ispanico Apri gli occhi), The Ring (remake del Ringu giapponese), Dark Water, The Grudge e i prossimi Pulse e The Eye. Come si vede, sono tutte pellicole prettamente di genere, ma tutte (nella loro versione originale) esprimenti una concezione del genere molto lontana da quella statunitense, legata strettamente alle cinematografie (e alle culture) di appartenenza. Nella seconda categoria troviamo invece una serie di rifacimenti che guardano a un periodo in cui l'horror, e il fantastico in genere, vivevano una stagione di pieno fulgore, e in cui il gore si legava alla voglia di provocare e stupire: parliamo ovviamente degli anni '70 e '80. Troviamo così, in questo gruppo, titoli come Non aprite quella porta, L'alba dei morti viventi, Assault on Precinct 13, il recente The Fog - Nebbia assassina (in questi giorni nelle nostre sale), e i prossimi remake di Entity di Sidney J. Furie, Le due sorelle di Brian De Palma, Suspiria di Dario Argento e Il presagio di Richard Donner, solo per citare alcuni titoli. Abbiamo volutamente lasciato fuori dal discorso le operazioni compiute da Steven Spielberg e Peter Jackson rispettivamente su due classici come La guerra dei mondi e King Kong: questo non per spirito partigiano verso i due registi, ma perché la lettura personale che Spielberg e Jackson hanno voluto dare delle opere a cui si sono accostati, e nello stesso tempo il grande rispetto che hanno dimostrato per esse, li distanziano nettamente dal gruppo di cui sopra.
Il primo gruppo (a cui va aggiunto quel Martin Scorsese che, con il suo prossimo The Departed - remake dell'hongkonghese Infernal Affairs - non ha saputo sottrarsi al trend imperante) esprime una serie di problemi di tipo culturale, oltre che produttivo e di rapporto col pubblico. Innanzitutto c'è l'implicito riconoscimento della validità (artistica e soprattutto commerciale) di idee provenienti da altri "mondi" cinematografici, ma la contemporanea supposizione, molto ipotetica, della non fruibilità di queste stesse idee da parte del proprio pubblico. Di qui la necessità di riadattare, rielaborare, rendere più leggibile secondo i propri canoni. A questo si aggiunge la presenza di un gusto dell'esotico che, anche laddove vengano proposte delle versioni rielaborate degli originali, può essere soddisfatto non tagliando con essi tutti i ponti: vedi il caso di The Grudge, fotocopia del film diretto dallo stesso Takashi Shimizu con attori e location giapponesi e l'aggiunta della star statunitense Sarah Michelle Gellar. Si hanno i soggetti belli e pronti, quindi, basta "addomesticarli" e darli in pasto al pubblico, che magari è incuriosito anche perché sa che "è un remake di un film orientale". Semplice e (finora) redditizio.
Diversa è la questione per i film del secondo gruppo, quelli che vedono in un genere come l'horror, e negli inevitabili moti nostalgici che i suoi classici degli anni '70 e '80 provocano negli appassionati, la principale fonte a cui attingere per riuscite operazioni commerciali. Ed è proprio la nostalgia cinefila l'altra chiave di lettura per spiegare il proliferare di queste operazioni: il tentativo, tutto teorico, di far tornare indietro le lancette di un orologio che è ormai avanti di molto, il voler trasportare forzatamente ai nostri giorni mostri e inquietudini che sono propri di un periodo ormai sepolto (in un genere in cui, è bene ricordarlo, il legame col periodo in cui un'opera vede la luce è fondamentale). Così, si spera di attirare (con il minimo sforzo) due generazioni di spettatori, i nostalgici e coloro che non conoscono gli originali, con pellicole che spesso finiscono per non soddisfare né gli uni né gli altri. Sarebbe forse il caso, per fermare questa ondata inarrestabile quanto vacua, che i legittimi proprietari di quelle ossessioni tornassero a far sentire la loro voce, che Carpenter, invece di far apporre il proprio nome sui credits di The Fog, ci facesse riassaporare il suo pessimismo senza fine, che Sam Raimi e Peter Jackson riabbracciassero il genere che li ha resi famosi, che Wes Craven scendesse dagli aerei e mollasse i serial killer cinefili per tornare a scavare nella materia degli incubi. Ci vorrebbe, insomma, un ritorno in massa di coloro che, due-tre decenni fa, hanno reso grande il genere, per scavare ancora una volta nelle ossessioni e nelle paure di una società che, adesso più che mai, ha bisogno di avere paura al cinema. George A. Romero ha aperto la strada, e il suo La terra dei morti viventi realizza pienamente quest'obiettivo. Gli altri dove sono?