Se ad assegnare il premio Oscar come miglior film fossero critici, studiosi e autentici appassionati, la notte del 9 febbraio, al termine della cerimonia degli Academy Award, il titolo pronunciato all'apertura della busta sarebbe quasi certamente Parasite; questo, perlomeno, a giudicare da recensioni, classifiche di settore e dibattiti cinefili fra mondo reale e piattaforme virtuali. Con più probabilità, invece, a salire sul palco del Kodak Theatre per ritirare l'ultima statuetta della serata sarà il team di 1917, il frontrunner della corsa agli Oscar fin dal suo trionfo ai Golden Globe. Una pellicola senz'altro meritevole, ma che si fa fatica a considerare il miglior film dell'anno in un'annata così ricca di grandi film.
Perché dunque tale discrepanza? E spostandoci dal caso specifico - il duello fra 1917 e Parasite - a una prospettiva più generale, perché è così dannatamente difficile che l'Oscar sia attribuito a una pellicola in grado di essere legittimamente definita "il miglior film"? Com'è possibile che nella stessa categoria Il Padrino ed Eva contro Eva debbano coesistere accanto a Il più grande spettacolo del mondo e Crash? Proviamo pertanto ad allargare lo sguardo e, scorrendo l'albo d'oro dell'Academy, ipotizzare qualche risposta alla fatidica domanda che ricorre in ogni awards season: come si fa a vincere il premio Oscar come miglior film?
Prima regola dell'Oscar: piacere a (quasi) tutti
Innanzitutto, partiamo dalle nozioni fondamentali: gli Oscar non sono determinati da critici (nelle file dell'Academy, gli 'accademici' costituiscono un numero infinitesimale), ma da addetti ai lavori dell'industria cinematografica, e perlopiù dell'industria hollywoodiana. Attualmente, si tratta di circa novemila persone fra registi, sceneggiatori, produttori, attori e maestranze di ogni tipo, con il comparto maschile in netta maggioranza (solo negli scorsi anni è cresciuta la percentuale di donne e di membri appartenenti a paesi non anglofoni). Tutti appassionati di cinema? Diamo per scontato di sì. Tutti esperti del cinema di varie epoche e nazionalità, o con la sensibilità per apprezzare appieno opere più particolari o raffinate? Questo è un altro paio di maniche...
Anche solo per la legge dei grandi numeri, le migliaia di componenti dell'Academy formano un insieme decisamente eterogeneo: ci sarà il cinefilo con le competenze per valutare sottotesti e sfumature di un film e lo spettatore occasionale che si limiterà a recuperare qualche screener fra dicembre e gennaio. Questo cosa significa? Che con un corpo elettorale così vasto, e tanto più con l'introduzione di un sistema preferenziale nella categoria per il miglior film (in sostanza, un ballottaggio fra i candidati fino al superamento della metà delle preferenze), il favorito sarà un crowdpleaser capace di far presa su un pubblico molto ampio; al contrario, le pellicole più 'divisive' e sofisticate potranno pure arrivare alla nomination, ma vincere sarà pressoché impossibile.
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Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che è 'importante'
Ecco dunque una prima regola: tra un bel film 'popolare' e un grande film che richiede un palato più fine (e magari una maggiore soglia d'attenzione), a vincere l'Oscar non sarà quasi mai il secondo. Si veda il caso di Green Book con Roma, o di Momenti di gloria preferito a Reds. Già questo assunto basterebbe a incrinare il valore del sintagma "miglior film": non sempre ciò che è 'migliore' o artisticamente ambizioso riesce a piacere a tutti, soprattutto se il target da conquistare non è la decina di giurati di un festival, ma migliaia di persone così differenti l'una dall'altra. Da qui il legame fra le aspirazioni da Oscar e il successo commerciale, garanzia di visibilità fra i giurati, nonché il rapporto direttamente proporzionale fra le chance di vittoria e la corrispondenza alle caratteristiche del cosiddetto award bait.
Cos'è un award bait? In poche parole, è il canonico "film da premio", quello che ci si aspetta di veder concorrere agli Oscar. Una macrocategoria modellata in quasi un secolo di storia, che in teoria ingloba in sé una pluralità di generi, ma che si basa su un elemento pressoché irrinunciabile: il "tema importante". Si tratta dell'autentico asso nella manica spendibile in ogni edizione degli Academy Award: la superficiale equazione fra il valore artistico di un'opera e l'argomento 'elevato' al centro del racconto. Perché molti membri dell'Academy, magari in maniera inconsapevole, piuttosto che votare per un film 'bello' scelgono di votare per un film 'importante'. Una tendenza sviluppatasi non a caso negli anni Quaranta: mentre l'America e gli Alleati erano impegnati a difendere il mondo dal nazifascismo, Hollywood ne celebrava gli sforzi bellici e i sacrifici della popolazione ricoprendo di Oscar Casablanca e due classici di William Wyler, La signora Miniver e I migliori anni della nostra vita.
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Il peso del 'tema' e l'insostenibile leggerezza della commedia
Si badi bene, le tre pellicole appena citate sono vincitori inappuntabili, così come altri titoli da Oscar che hanno fatto leva su temi storici o sociali di gran peso: dalla lotta contro discriminazioni e ingiustizie (Barriera invisibile e Fronte del porto, entrambi di Elia Kazan) alla denuncia degli orrori della guerra (Il cacciatore) e dell'Olocausto (Schindler's List). In molti casi, però, l'aspetto storico-sociale è stato il fattore decisivo nel duello per aggiudicarsi l'Oscar come miglior film, talvolta a scapito di un'opera percepita come meno 'impegnata': si pensi al caso emblematico di Moonlight, in cui l'apologia della dignità e dell'amore come antidoti contro razzismo, violenza e omofobia, all'alba della Presidenza di Donald Trump, a sorpresa ha avuto la meglio sul romanticismo nostalgico e fuori dal tempo del favoritissimo La La Land.
È pur vero che la "regola del tema" non è sempre stata valida: il primo decennio di vita degli Oscar ha visto trionfare, fra gli altri, i melodrammi di Grand Hotel e la leggerezza sentimentale di Accadde una notte; e in epoche ben più prossime, come dimenticare il sorpasso di Shakespeare in Love ai danni di Salvate il soldato Ryan? Ma si tratta di casi isolati: l'interesse per il 'tema' è il motivo per cui, per una commedia, vincere come miglior film è un'impresa proibitiva. Con rare ma significative eccezioni: le commedie musicali, nell'era dell'apogeo del musical classico come epitome della potenza della macchina hollywoodiana (Un americano a Parigi e Gigi di Vincente Minnelli, ma pure My Fair Lady e, quattro decenni più tardi, Chicago), e quelle "commedie d'autore" in cui ironia e romanticismo si intrecciano all'amarezza, come accade in capolavori quali L'appartamento e Io e Annie.
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Il fascino discreto dell'eroe
Ma c'è un'altra variabile che, nei fragili equilibri dell'Academy, risulta ancora più rilevante rispetto al 'tema', e spesso assai più nociva: il fascino ineluttabile dell'elettore medio per la "storia edificante", quella in grado di suscitare l'empatia verso personaggi che si battono contro avversità e ostacoli in nome di una giusta causa. Sono i crowdpleaser per antonomasia: i film di maggior appeal perché puntano dritto al cuore dello spettatore, lo invitano a identificarsi con i suoi eroi coraggiosi e nel finale regalano un'immancabile catarsi. Prodotti di questo tipo, oltre agli incassi record, hanno un altro trait d'union: tendono a 'rubare' l'Oscar a opere meno dirette e schematiche, ma ben più meritevoli.
Gli esempi, purtroppo, sono numerosi e impressionanti: La mia via, film "da parrocchia" stucchevole e datatissimo (nello stesso anno in cui era candidato il capolavoro noir La fiamma del peccato); Rocky eletto miglior film in una cinquina che comprendeva pietre miliari come Tutti gli uomini del presidente, Quinto potere e Taxi Driver; la scelta convenzionale e 'rassicurante' di Forrest Gump contro la rivoluzione postmoderna di Pulp Fiction; la valanga di statuette per The Millionaire. Ma il caso più rappresentativo, in tempi recenti, rimane Il discorso del Re: più facile parteggiare per un sovrano che lotta contro la propria balbuzie per proteggere le sorti dell'Europa da Hitler che non per l'antieroe viziato, egoista e sociopatico di The Social Network (e pazienza se quest'ultimo è un film incommensurabilmente superiore).
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La domanda finale: perché teniamo agli Oscar?
In compenso, molti verdetti dell'Academy si sono rivelati felicissimi e ispirati: da Rebecca, la prima moglie ed Eva contro Eva agli strepitosi titoli da Oscar degli anni della New Hollywood, compresi fra Un uomo da marciapiede e Il cacciatore (passando per la doppietta della saga de Il Padrino). In altri casi i giurati degli Oscar hanno deviato dalla norma, mettendo da parte i candidati 'tradizionali' per far spazio a film più innovativi e corrosivi (American Beauty) o a generi quali il thriller (Il silenzio degli innocenti, The Departed, Non è un paese per vecchi) o addirittura il fantasy (il plebiscito per Il ritorno del Re). Ma analizzare per intero una casistica tanto vasta e dettagliata, e che si distende nell'arco di quasi un secolo, richiederebbe molto più spazio e molto più tempo.
Per ora, ci basta ricordare che gli Oscar non sono (e non sono mai stati) un metro di giudizio assoluto e inconfutabile. Per ogni capolavoro premiato come miglior film ci sono un Quarto potere, un Viale del tramonto o un Chinatown che hanno dovuto accontentarsi della nomination, e un Cantando sotto la pioggia, uno Psycho o un 2001: Odissea nello spazio che non sono neppure stati nominati; così come nessuna statuetta potrà convincerci che A Beautiful Mind sia un film migliore di Mulholland Drive. Perché, allora, ci interessiamo tanto agli Oscar? Perché, come talvolta abbiamo provato a dimostrare da queste colonne, essi ci aiutano a comprendere il contesto in cui un film è comparso per la prima volta sulla scena, come è stato influenzato dalla propria cultura di appartenenza e come, a sua volta, ha influenzato la società e perfino il nostro modo di vedere il mondo.
E perché, nonostante tutto e al di là della curiosità 'accademica', teniamo tanto a questi premi? Per il semplice, giocoso gusto di fare il tifo per i nostri film preferiti, anno dopo anno, pur sapendo che resteremo (quasi) inevitabilmente delusi. Ma in fondo ci importa fino a un certo punto: perché siamo consapevoli che non sarà una statuetta in più o in meno a modificare il nostro amore verso Parasite, The Irishman, Storia di un matrimonio o qualunque altro film per il quale incroceremo le dita al momento di sentir pronunciare la frase "And the Oscar goes to...".
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